Ognuno di noi ha una nemesi: Superman e la kriptonite,
Topolino e Gambadilegno, Luca Giurato e la grammatica, mio nonno e la
risintonizzazione del digitale terrestre… La mia di nemesi si presenta un paio
di volte all’anno sotto forma di telefonata stile The Ring, solo che purtroppo dall’altra parte non c’è Samara Morgan che mi dà sette giorni di
vita, ma mi invitano alla rimpatriata con i compagni di scuola.
Premetto che non ho niente contro di loro, anzi. È che in
certe situazioni non so proprio come comportarmi. Il fatto è che i miei ex-compagni
di scuola hanno preso strade più pragmatiche della mia: c’è chi fa l’avvocato,
chi l’ingegnere, chi il medico, il professionista… tutti rigorosamente precari
a tempo determinato, beninteso, ma almeno sono sollevati dall’incombenza di
litigare a fine mese con le madri dei ragazzi per farsi pagare le ripetizioni. Insomma,
l’unico che è rimasto fedele a sé stesso sono io (che è un modo elegante per
dire che la mia situazione a trent’anni è identica a quando ne avevo sedici).
Per evitare quelle tre/quattro ore di agonia sociale, la soluzione più logica
sarebbe quella di declinare gentilmente l’invito e passare la serata a
dondolarsi sul divano in posizione fetale ripetendo all’infinito il mantra: «anch’io
ce la posso fare, anch’io ce la posso fare, anch’io ce la posso fare…».
Sfortunatamente però alla fine prevale l’innato masochismo, tipico di chi si
iscrive a una facoltà umanistica, e perciò si decide di andare. Per darti un
contegno abbandoni a malincuore la tua comoda felpa post-adolescenziale e le
scarpe da ginnastica e metti una camicia, evento talmente raro che tuo padre
corre a prendere la telecamera, mentre tua madre chiama tutti i parenti per
sapere se è morto qualcuno.
E così, mentre ti allontani fra i singhiozzi di tuo padre che urla: «Questo, è
mio figlio!», raggiungi il luogo dell’appuntamento. Solitamente è una pizzeria
di periferia che normalmente farebbe ribrezzo anche ai frequentatori dei
peggiori bar di Caracas, ma diventata clamorosamente cool da un giorno all’altro perché il proprietario ha avuto
un’illuminazione: piazzare all’esterno uno di quei funghi caloriferi che fanno tanto Milano-Vende-Moda.
Per metà della serata stai in piedi con un bicchiere in mano e con un sorriso
sulle labbra che all’esterno purtroppo viene interpretato come una paresi,
maledicendo il giorno che non sei diventato astrofisico come il tuo compagno di
banco, che ora lavora alla NASA. Quando all’improvviso qualcuno si avvicina e
ti chiede: «Allora, di cosa ti occupi di bello?».
A questo punto hai solo due opzioni:
- Dire la cruda verità, attirando la compassione di tutti i presenti e spingendo qualcuno, mosso a pietà, a darti di nascosto un sacchetto con gli avanzi, a fine serata
- Inventare delle balle talmente inverosimili che a confronto Spielberg è lo sceneggiatore dell’Albero Azzurro
Generalmente si procede con l’opzione 2. Per cui ostenti
improbabili collaborazioni con una rivista di critica letteraria.
«Ah, e come si chiama?»
«La Sineddoche», rispondi prontamente, mentre ti chiedi com’è che ti è venuto
in mente un nome così idiota.
E così, mentre tutti parlano del futuro radioso che li
aspetta, dei contratti a tempo indeterminato (che per i laureati in Lettere
equivalgono non solo a trovare l’Arca dell’Alleanza, ma scoprire che dentro c’è
pure il Santo Graal); a un certo punto il tuo cervello disattiva lo
screen-saver perché qualcuno ha parlato di letteratura.
Ora, la mia maledizione è essere circondato da persone
informatissime sulla letteratura contemporanea: vi sanno dire vita morte e
miracoli di Dan Brown; perché, già che c’era, la Yoshimoto ha scelto come
pseudonimo Banana e non Kaki; come mai i numeri di Paolo
Giordano si sentano così soli. Purtroppo però a questa profonda erudizione si
accompagna una solida e ferma convinzione: la letteratura italiana non ha
prodotto nulla da Italo Svevo a Tiziano Terzani.
E qui finalmente venite coinvolti in una discussione, che inizia con questa
frase:
«Ma chiedilo a lui, che è laureato in Lettere!».
Frase che mi costringe a parlarvi dello IUSP, l’Indice di Utilità
Sociale Percepita (non lo googlate, tanto me lo sono inventato io, in anni
di rimpatriate).
Lo IUSP indica, in una scala da 1 a 10, come la società considera l’utilità di
certi soggetti, facciamo un esempio:
Domanda: «Ingegnere?»
Società: «9»
D: «Architetto?»
S: «8»
D: «Idraulico?»
S: «10»
D: «Fisico?»
S: «4»
D: «Ma senza di loro non ci sarebbero i telefonini»
S: «Allora 15»
Ecco, in questa scala i laureati in materie umanistiche
hanno voto 3, cioè per consultarvi non si devono scomodare a prendere il
dizionario in libreria, ma comunque siete meno utili di Wikipedia (ma solo per
le pagine di storia e letteratura, ovviamente).
È proprio a questo punto che qualcuno se ne esce con una
frase del tipo:
«Oh, io non ne capisco niente, mi ricordo solo che Leopardi era un depresso del
…».
La reazione seguente del letterato dipende dal suo temperamento:
- Attivo: attacca con una filippica in cui se la prende con tutti i ministri dell’Istruzione dall’Unità d’Italia fino a ieri, con il governo, con gli americani, le scie chimiche, la tv spazzatura, i parcheggiatori abusivi, gli autovelox sulle statali…
- Passivo/Passivo: sorride bonariamente, ma nel frattempo gli è venuta un’ulcera gastro-duodenale e comincia a sanguinare dal naso, dissimulando con un «Eh, mi succede sempre»
- Passivo/Attivo: sorride bonariamente, ma appena uscito si sfoga dando calci ai bidoni della spazzatura e picchiando moglie e figli appena rientra a casa
Vi starete chiedendo dove sia quello che discute
pacatamente, facendo capire le sue ragioni. Semplicemente NON ESISTE.
Ma vediamo perché Leopardi non era un depresso, almeno non
nel senso più stretto del termine.
Il conte Giacomo Leopardi nasce nel 1798 a Recanati, ridente cittadina delle Marche
famosa anche per… no vabbè è famosa solo per Leopardi.
Il giovane Leopardi cresce nella famiglia che tutti i bambini desiderano: un
padre autoritario e reazionario che arriva quasi a frustare i contadini che
lavorano per lui, una mamma affettuosa e comprensiva come la signorina Rottermeier di Heidi e che
gli ripete in continuazione: «Giacomo, non mettere i gomiti sul tavolo»,
«Giacomo, tieni la schiena dritta sennò diventi gobbo», «Giacomo, non
avvicinarti troppo a Silvia ché ha sempre la tosse e ti becchi qualcosa».
Roba che a confronto Alcatraz sembra un villaggio Alpitour.
Essendo i suoi genitori persone attente e sensibili, notano che il piccolo
Giacomo fa fatica a relazionarsi con gli altri e perciò invece di mandarlo a
scuola, in un collegio, al campeggio estivo, insomma in un posto qualsiasi pur
di farlo socializzare, decidono di educarlo in casa, stando bene attenti ad
evitargli qualsiasi contatto umano. E mica chiamano SOS Tata, no, loro si affidano a due gesuiti che al posto di fargli
fare una paginetta di A, le tabelline o la fotosintesi clorofilliana, lo
caricano come un cammello beduino di libri sulla teologia, latino e filosofia.
In ogni caso Giacomino inaspettatamente non chiama il Telefono Azzurro e a quattordici anni ha già assorbito come una
spugna tutti gli insegnamenti dei suoi precettori. Tiè. Così nel 1812 dice ai
genitori:
«Vado un attimo in biblioteca, se mi cercate sono là».
Uscirà sette anni dopo.
Il periodo di studio matto e
disperatissimo normalmente fa cadere le braccia (e sto usando una metafora)
allo studente medio di qualsiasi ordine e grado, che si domanda:
«Ma com’è possibile che questo in sette anni impara, tra l’altro, da solo
l’ebraico, il sanscrito e il francese e io che spendo duemilatrecento euro
all’anno in tasse scolastiche faccio ancora fatica con la tabellina del nove?».
La risposta è semplice: innanzitutto stiamo parlando di Leopardi, non è che a
scuola ti fanno studiare il primo fesso che impara francese da solo; ma
soprattutto bisogna considerare l’epoca. Leopardi non usciva mai di casa, non
aveva non dico la radio, ma nemmeno il grammofono; televisione nisba, internet
manco a parlarne, Playstation e Xbox nada. Insomma, passate quelle sette/otto
ore a guardare dalla finestra Teresa (che avrebbe avuto tutto il diritto di
denunciarlo come stalker, non fa niente che le ha dedicato A Silvia), doveva vedere come passare il tempo.
Altro che partite a Halo 6.
Nonostante il suo isolamento però Leopardi comincia ad
imporsi nel panorama intellettuale e a diciotto anni, invece di prendere il
foglio rosa, scrive un’accalorata lettera contro il Romanticismo indirizzata a Madame de Staël che,
contrariamente a quanto possa suggerire il nome, non era un’attrice a luci
rosse.
Il fatto che la sua lettera venga pubblicata non è un dato da dare per scontato:
non è che la baronessa sapesse che quello poi diventerà Leopardi, e poi bisogna
considerare che vivere a Recanati nell’Ottocento e immettersi nel dibattito
intellettuale sul Romanticismo, è come se oggi un biologo dello Zimbawe volesse
dire la sua sulle cellule staminali… e lo ascoltassero anche.
Incoraggiato da questi eventi
finalmente Leopardi decide di lasciare casa per compiere il suo destino, ma la
fuga viene sventata dal padre, a cui mancavano solo le piantagioni di cotone
per iscriversi all’albo ufficiale degli schiavisti.
Adesso, se vi siete commossi con i film che colano melassa dal televisore stile
Step Up, in cui la gatta morta di
turno non può seguire il suo sogno di entrare nella scuola di Amici di Maria De Filippi perché vive in una cittadina a venti chilometri
dalla grande città, circondata da familiari affettuosi; figuratevi come si
doveva sentire Leopardi che era malato, sapeva di essere un genio, ma stava a
trecento chilometri dalla città più vicina, per di più con una famiglia accogliente
come un freezer d’inverno.
Non c’è quindi da stupirsi se
Giacomo a questo punto sviluppa una sua personale visione della vita che oggi
si definirebbe orrendamente con la parola emo.
In realtà però Leopardi non è affatto emo (se lo dite di nuovo vi troverò, mi
introdurrò a casa vostra nottetempo e vi mangerò il cuore ancora palpitante. Lo
giuro), per avallare la mia tesi vi propongo un piccolo schema:
E con questo credo di aver fugato
ogni dubbio.
Finalmente però ottiene il
permesso di recarsi a Roma, ma dato che la città che si era immaginato era
quella che aveva studiato sui libri, rimane oltremodo deluso dal clero
corrotto, dalla classe politica inetta, dall’enorme numero di prostitute e
cortigiane. Giusto per capirci: è come se mancaste dall’Italia da vent’anni e
in tutto questo tempo siate riusciti a vedere solo il Tg4: è naturale che
l’impatto con la realtà non può che essere catastrofico.
Una volta sciolte le briglie, già che c’era, Leopardi comincia un lungo tour
per l’Italia e conosce gente come Niccolò Tommaseo e Alessandro Manzoni. Mica
cotica.
Ovviamente adesso non è che mi
metto a tirarla per le lunghe con la vita di Leopardi, né tantomeno ho
intenzione di analizzare L’Infinito,
operazione che presenta due inconvenienti: provocare attacchi violenti di
narcolessia e attirare battute di dubbio gusto.
Ciò che mi preme piuttosto è parlare della Canzone
leopardiana.
Qualsiasi studente nota con vivo
disappunto che la maggior parte delle canzoni di Leopardi non presentano uno
straccio di rima o schema metrico, il che fa di solito esclamare: «Eh, ma così
sono bravi tutti!».
Vi confesso che l’ho pensato anch’io (e anche se non lo dite, so che lo avete
pensato anche voi), ma Leopardi è come Picasso (non intendevo alcolizzato e
pieno di donne): è un grande artista che avrebbe potuto raggiungere le vette
seguendo metodi canonici, magari scrivere un indigestibile poema di
quattromilanovecentosessantasei esametri dattilici, ma invece ha voluto
sviluppare un suo stile, dare forse più spazio ai contenuti che alla formalità,
non per niente era anche un filosofo.
E tutto sommato forse non lo considereremmo nemmeno tanto “piagnone” se a
scuola ci facessero studiare un pochino anche le Operette morali.
MESSAGGIO PER I MIEI EX-COMPAGNI
DI SCUOLA:
Dai stavo scherzando, non è che non mi invitate più?