Crescere a cavallo fra gli anni ’80 e gli anni ’90 non è
stato per niente semplice. Io appartengo a quella generazione di persone che ha
ancora difficoltà a capire che l’adolescenza l’ha passata da un pezzo. Noi
cerchiamo su Youtube le pubblicità di giocattoli e merendine degli anni Ottanta
e sotto il video commentiamo: «Mamma mia, che nostalgia!». Che ti verrebbe da
dire: «Nostalgia di che? Che per tutta l’infanzia ti hanno imbottito di slogan
manco Arancia Meccanica, e poi basta
con sta storia che stai al diciottesimo anno fuori corso al Dams!».
Ma non lo diciamo, perché siamo una generazione confusa, e
non tanto per colpa dei genitori, quanto per colpa dei cartoni animati. Provate
a guardare una puntata di Peppa Pig, la trama è lineare, è un
capolavoro insuperato di narrativa contemporanea. Ma i cartoni con cui sono
cresciuto io e i miei coetanei sono stati partoriti da menti disturbate che ci
hanno fatto nascere dubbi che ancora oggi, nel cuore della notte, ci
perseguitano:
· Perché la palle di Mila e Shiro e Holly e Benji
quando acquistano velocità prendono la tipica forma dei saltimbocca alla
romana?
· Vabbè che Superman mette gli occhiali per
mantenere la sua identità segreta, ma com’è che He-Man si toglie il suo pidocchiosissimo gilet di velluto comprato
dai cinesi e nessuno lo riconosce più? E se a lui basta levarsi la giacca per
non essere riconosciuto, com’è che invece la sua tigre deve indossare una
maschera?
· Ma soprattutto: cosa si fumavano alla corte di
Francia per non accorgersi che Lady Oscar
era una donna?
Tuttavia il vero problema della mia generazione è racchiuso
in sei piccolissime parole: «Ma che ne sai tu, che […]». I puntini sospensivi
dipendono dal nostro interlocutore, facciamo un esempio: accennavi ad una
timida lamentela perché invece delle crostatine al cioccolato a casa avevano
comprato quelle merendine con la marmellata con cui di solito si tirano su i
muri a secco? Nel migliore dei casi da una botola sotto il pavimento spuntava
fuori tuo nonno che diceva: «Ma che ne sai tu, che [ai miei tempi c’era la
guerra]».
Noi siamo cresciuti all’ombra di due generazioni che: o avevano fatto la guerra
o avevano fatto il ’68, a gente così quando ti raccontava della loro
straordinaria giovinezza non potevi dirgli: «Ehmm, si però io ho messo il
record di Pac-Man del quartiere». Per
cui tutto quello che vogliono quelli della mia generazione è la nostra
occasione per dire: «Ma che ne sai tu, che…». Il massimo sarebbe poterlo dire a
mio nonno o a mio padre, ma quando succederà mi accontenterò di avvelenare l’infanzia
alle generazioni successive.
Con questi presupposti capite benissimo che da noi non si
può pretendere di cambiare il mondo. Noi già a ventitré anni ci chiediamo al
massimo se, come e quando andremo in pensione. E ancora non abbiamo fatto un
solo giorno di lavoro.
Il fatto è che la rivoluzione è una cosa da vecchi, mica da ragazzi. Non ci
credete? Provate a mettervi in fila alla posta o aspettare l’autobus dietro un
anziano: sentirete propositi di vendetta e di rovesciamento dell’ordine
costituito che a confronto Che Guevara e il Subcomandante Marcos sembrano
usciti da un meeting di Comunione e
Liberazione. Il Massachusetts
Institute of Technology ha recentemente calcolato che con l’energia
prodotta dallo giramento di zebedei di dieci vecchietti in fila alla posta si
può alimentare tranquillamente per mezza giornata una città grande come San
Francisco.
Il vecchietto in fila progetta rivoluzioni egalitarie, sogna un mondo dove non
ci siano attese, propone di linciare politici, reintrodurre la ghigliottina,
mettere ordigni nucleari sotto i palazzi di potere. Il vecchietto in fila è un
combattente, un guerrigliero della jungla boliviana, un vietcong che striscia
nei cunicoli. È più indottrinato di un soldato dell’ex Unione Sovietica, solo
che invece di seguire il Libro Rosso,
segue la Dottrina del Tempo Perso.
Adesso se state tirando fuori la giacca con le toppe sui
gomiti perché pensate che c’entri qualcosa Proust, ve lo dico subito,
rimettetela a posto. La DTP (sono troppo pigro per scriverlo per esteso) è una
dottrina sanguinaria tramandata oralmente da vecchietto a vecchietto, fin dalla
notte dei tempi. Tipo Assassin’s Creed,
per capirci.
I principi base di questa dottrina sono molto semplici:
Nonostante tutto però i seguaci della DTP hanno un cuore di
burro, per cui, almeno per il momento, la catastrofe termonucleare è
scongiurata.
Tutto ciò farebbe pensare che in passato, in tempi molto
remoti, ci sia stata un’età dell’oro in cui gli anziani in fila erano contenti,
in cui non rischiavano la scomunica per le bestemmie tutte le volte che
dovevano pagare una bolletta. Fortunatamente la storia e la letteratura ci
rassicurano, sussurrandoci dolcemente: NO!
Il prototipo del vecchietto in fila lo troviamo nella letteratura latina:
Decimo Giunio Giovenale.
Di Giovenale non sappiamo granché, nasce fra il 50 e il 60 d.C.,
a differenza della maggior parte degli autori latini non proviene da una
famiglia benestante, infatti in tutta la letteratura latina, a parte Plauto e
Terenzio, sono pochini gli esempi di scrittori che hanno iniziato facendo i
panini da McDonald’s (si fa per
dire), insomma, contrariamente al sogno Americano, i Romani erano convinti che
per avere successo nella vita dovevi avere soldi e conoscenze giuste, il che
dimostra due cose:
- Che all’epoca l’America non era stata ancora scoperta
- Che questa è la prova incontrovertibile che gli Italiani discendono direttamente dai Romani
Ad ogni modo Giovenale, pur non essendo un privilegiato,
viene mandato a Roma da ragazzo per studiare retorica ed iniziare una brillante
carriera di avvocato. Il problema però è che questa carriera tanto brillante
non è, per cui entra a far parte della categoria dei clientes. Ma chi erano i clientes? Per capirlo vi devo chiedere
di fare un grande sforzo di immaginazione: all’epoca con la cultura si
guadagnava poco (all’epoca), per cui poeti, retori, scrittori e artisti in
generale offrivano i loro servigi a signori ricchi e potenti (all’epoca). Alla fine
non è che sti signori avessero realmente bisogno di tutta sta gente, solo che
al tempo dei Romani non potevi comprarti, che so, tre emittenti televisive (stiamo
parlando dell’epoca, eh), perciò eri costretto a portarti dietro
trenta/quaranta persone che non facevano altro che ripetere quanto eri bravo,
quanti eri figo, quanto eri magnanimo. Ma queste sono usanze arcaiche,
difficili da capire per l’uomo moderno, che non è assolutamente abituato a
queste cose.
A un certo punto Giovenale si rende conto che di questo
passo difficilmente poteva comprarsi la biga decappottabile (a quel tempo era
un must) e perciò a quarant’anni
circa appende la toga al chiodo e si mette a scrivere satire.
In tutto il nostro poeta scrive sedici satire divise in cinque libri, i suoi
modelli di riferimento sono Lucilio e Orazio. La differenza che passa fra
Giovenale e Orazio è su per giù la stessa che passa fra il Bagaglino e Benigni, e non perché scrivesse male.
Il fatto è che Giovenale non tende a parlare di politica e quando lo fa non
tocca l’attualità per paura di incappare in qualche punizione imperiale, per
cui nella Satira IV si mette a parlare delle scelleratezze di Domiziano, che è un
po’ come se domani Crozza ricominciasse come le imitazioni di Andreotti.
Immaginate che allegria.
Quindi, se di politica non si può, di cosa può parlare il
nostro Giovenale? Qui c’è il colpo di genio: non potendo prendersela con i
potenti, il poeta fa emergere il vecchietto rancoroso che è in lui e spara a
zero sulle fasce più deboli della popolazione.
Il poeta non risparmia nessuno, vuoi perché fare satira senza politica è come
paracadutare un vegetariano alla sagra della salsiccia di cinghiale, vuoi
perché di suo non sopportava proprio nessuno, ma i suoi bersagli preferiti sono
le donne e gli omosessuali. Se fosse vissuto un po’ di più se la sarebbe presa
anche con i drogati, i panda, l’emù e altre specie in via d’estinzione.
A voler essere sinceri non è che Giovenale fosse misogino e
omofobo in tutto e per tutto. Se la prende con queste due categorie perché,
secondo lui, sono rappresentative del livello di degrado che aveva raggiunto la
società Romana dell’epoca. Tuttavia non mi sento di escludere a priori che alla
visione di una puntata di Xena - La
principessa guerriera avrebbe potuto esclamare:
«Vabbè, è tutto molto bello. Ma quand’è che iniziano a
cucinare, ’ste due?»
Il nostro caro Giovenale dedica alle donne una sola satira,
la VI, ma per descrivere il gentil sesso dell’epoca impiega la bellezza di 661
versi, che potrebbero essere tranquillamente riassunti nella frase:
«Le donne devono stare a casa e fare la calza»
Alla faccia delle quote rosa.
Giovenale non sopporta le donne quando:
- Si interessano di politica
- Si interessano solo di cosmetici
- Sono troppo intellettuali
- Sono troppo superficiali
- Sono di facili costumi
- Sono -secondo lui- finte pudiche
Insomma non le sopporta e basta.
Diverso è il caso degli omosessuali, Giovenale li distingue
in due categorie:
- Quelli che non riescono a nascondere la propria natura
- Quelli che di giorno fanno i moralizzatori e la notte vanno a trans (ok, sto un po’ parafrasando)
Siamo chiari: il poeta, da buon vecchietto rancoroso, è
omofobo, ma mentre “tollera” la prima categoria, per la seconda nutre un odio
particolare perché li considera ipocriti. A questo punto ci si potrebbe
domandare come avrebbe considerato quelli che: «la famiglia è sacra» e nel
frattempo hanno divorziato sei volte.
Per rappresentarvi le categorie con cui Giovenale se la
prende, direttamente dalla mia tesina di maturità vi propongo quello che
amorevolmente chiamai il diagramma dell’odio:
Inutile dirvi che l’esame non andò come speravo.
Ora, giustamente il lettore e lo studente medio potrebbero
chiedersi: «Ma a sto punto mi studio mio nonno e faccio prima». Prima di
vivisezionare i vostri parenti però bisogna considerare che Giovenale, sebbene
pieno di bile come il vostro avo, non le spara a casaccio, ma scrive delle Satire che, volenti o nolenti, sono
pagine immortali della letteratura. Tanto per fare un esempio: avete presente i
motti panem et circenses e mens sana in corpore sano? Secondo voi
chi li ha scritti, mio nonno o Giovenale?
Non sto qui a menarvela con la storia dell’indignatio, ma lasciatemi dire che Giovenale
ce l’ha con tutti perché la vita è non è stata generosa con lui. Orazio la
faceva facile dicendo: carpe diem,
alle spalle aveva Augusto che lo proteggeva, invece il nostro poeta ha vissuto
nella paura costante che lo mandassero in esilio (e secondo alcune fonti, non
attendibilissime, c’è anche stato).
D’accordo non sarà stato il massimo del politicamente corretto, ma i tempi
erano quelli che erano, e poi a ben vedere ancora oggi abbiamo difficoltà ad
affrontare certi argomenti con serenità.
Ma soprattutto Giovenale merita la nostra incondizionata
stima perché, a differenza dei nostri nonni, quando si indignava lo faceva in
maniera elegante, mica bestemmiava in sanscrito.
N.B.
Nessun vecchietto è stato maltrattato durante la stesura di questo post.