Pur avendomi creato una settantina di identità false per dare credibilità a questo blog, nel caso nessuno avesse partecipato al contest, sono contento che molti di voi abbiano proposto una parola da salvare (vi confesso che in almeno un paio di casi ho dovuto guardare sul vocabolario).
Adesso, dato che sono cresciuto fra anni '80 e '90, i miei riferimenti culturali sono essenzialmente due: il Festivalbar e i giochi di Jocelyn, ed è proprio ispirandomi a questi ultimi che dichiaro aperta la seconda parte del Contest Time.
Per un mese (giorno più, giorno meno) potrete votare la vostra parola da salvare semplicemente selezionandola dal sondaggio che vedete nella parte destra del blog e cliccare su Voto. Essendo profondamente democratico, potete selezionare anche più di una parola per volta.
Al termine del sondaggio, che scadrà il 10 novembre, il lettore/la lettrice che avrà proposto la parola più votata vincerà un bellissimo libro della collana Live della Newton-Compton del valore di addirittura 0.99 euro. Insomma mi voglio proprio rovinare.
Di solito i blogger seri concludono questo tipo di post con una frase profonda, a me questo momento l'unica cosa che mi viene in mente è: «quando vi capita più di votare senza nessuno che vi promette un posto di lavoro?».
Buon sondaggio!
giovedì 10 ottobre 2013
venerdì 4 ottobre 2013
Catullo: il passero solitario
Qualche giorno fa sfogliavo tranquillo tranquillo una delle
riviste di semiotica che sono solito comprare (adesso non mi ricordo se fosse Cioè o Girl Power) e, mentre leggevo un interessantissimo articolo dal
titolo: «Come non rimanere incinta sfiorando il gomito del compagno di banco»,
mi è caduto l’occhio su un trafiletto che recitava più o meno così: «Una
persona usa in media cento parole nella sua vita».
I successivi venti minuti li ho passati nella più profonda tristezza pensando a
questo poveretto che si esprime solo con cento parole, poi ho capito che il
discorso era generale.
E la tristezza è diventata disperazione.
Secondo un recente studio, mediamente un cane riesce a
comprendere all’incirca un centinaio di parole (ho cercato l’articolo su Google
per dare una solida base scientifica a questa affermazione, ma non l’ho
trovato. Comunque VI GIURO che non l’ho sentito da Studio Aperto). Cosa significa tutto ciò?
Molto semplice: che probabilmente, così come esiste il giurassico, il cretaceo,
il pleistocene e così via, esisterà un giorno il chihuahuasico e il pro-pro-pro-pro…nipote di Piero Angela (sì,
immagino un futuro in cui ci sia ancora vera meritocrazia) dirà:
In questa era gli
esseri umani si esprimevano con il vocabolario di un cane dislessico, bastavano
i concetti base: “mamma”, “papà”, “cacca”, “pipì”, “manda questo msg a 10
persone per salvare un bambino affetto da unghia incarnita”.
Che, tra l’altro, vorrei vederlo in faccia sto medico
fetente che non salva i bambini se non arrivano tot sms.
Vabbè, ma questa è un’altra storia.
Per capire quanto la situazione sia grave, basta considerare
che un dizionario a caso della lingua italiana contiene all’incirca 280.000
lemmi per tremila pagine: immaginate di dover scrivere, non dico l’Orlando furioso, ma la lista della spesa
solo con le prime tre pagine.
A parte l’evidente disagio di avere il frigorifero pieno di roba con inizia con
la A, potete capire che le difficoltà sono serie.
Adesso dovrei attaccare una filippica di nove pagine in cui
dico che nei bei tempi antichi le cose andavano diversamente, che non si
parlava mica come adesso, che i pensieri erano più profondi. Certo che le cose
andavano diversamente: era molto peggio!
Partendo dall’epoca di Pascoli e andando a ritroso fino a Omero abbiamo un
tasso di analfabetismo fra la popolazione pari solo alle interviste a bordo
campo al termine delle partite di calcio o a un raduno degli ultimi trenta
Ministri dell’Istruzione. Decidete voi.
Non siete convinti della bontà di questa affermazione?
Credete che davvero nell’antica Grecia i pastori andassero in giro con la lira
a declamare poesie? E il formaggio quando lo facevano allora?
In realtà il problema della povertà della lingua c’è sempre
stato ed è appunto per ovviarlo che è nata la poesia e, soprattutto, la
metafora.
Prendiamo un esempio di vita quotidiana: siete in metropolitana e la persona
vicino a voi ha un alito talmente pestilenziale che vi sorge il dubbio che da
qualche parte si sia rotta una conduttura del metano. Normalmente direste
qualcosa del tipo:
Ohi bello, pigliati
una mentina che per prendere fiato ho dovuto mettere la testa sotto le ascelle
di quel giocatore di rugby.
Invece, con l’aiuto della metafora potreste dire:
Oh tu, che hai
spalancato le porte degli Inferi aprendo il fetido pertugio da cui emetti
favella, orsù, afferra lesto questo candido dono di Eolo, dominatore di venti,
affinché non sia costretto a cercare asilo presso le madide braccia di quel
discobolo che ha appena terminato di gareggiare.
Provocando non solo una ola
in tutto il vagone, ma anche l’intervento d’urgenza della neuro.
Se però vogliamo essere precisi, bisogna dire che non sempre
la poesia è sinonimo di metafora e viceversa. L’esempio vivente in tal senso è
il grande poeta latino Catullo.
Gaio Valerio Catullo nasce a Verona l’87 a.C. Come facciamo
ad essere così sicuri sulla data di nascita? Perché ce lo dice San Gerolamo nel
Chronicon, una mastodontica cronaca
universale affidabile quanto un editoriale di Alessandro Sallusti. Credo che ci
siamo capiti.
Catullo proviene da una famiglia agiata, il padre è amico
intimo di Giulio Cesare e Quinto Metello Celere, però lui odia la politica e, come
ogni giovane ribelle, decide di prendere una decisione sofferta, le alternative
erano due:
- Andare in Tracia a lavorare come schiavo diciotto ore al giorno nelle miniere di salgemma
- Diventare un artista
Naturalmente intraprende la strada più difficile: diventare
un artista.
A tale scopo parte per Roma e «dipinge paesaggi sotto la
stazione Termini?», direte voi.
No, no.
Il giovane Catullo comincia a frequentare i circoli più influenti, più
intellettuali, più mondani, più in,
più cool, insomma il nostro poeta sembra
dirci: «Ho detto che volevo fare il ribelle, mica il fesso…».
A sua discolpa bisogna dire che all’epoca questi circoli erano frequentati da
gente che si chiamava Asinio Pollione, Cornelio Nepote, Cicerone… insomma
personaggi che nemmeno la fantasia più malata riuscirebbe ad immaginare mentre
ordinano una bottiglia di champagne piena di bengala al Billionaire.
Proprio in questi ambienti Catullo conosce quella che poi
diventerà la sua musa ispiratrice: Clodia.
Clodia è la sorella del tribuno Clodio (in famiglia non si erano sforzati molto
sulla scelta dei nomi), donna dall’intelligenza straordinaria, coinvolta in una
marea di intrighi e scandali, sposata con Quinto Cecilio Metello Celere, ma con
una fila di amanti che nemmeno alle Poste il giorno della pensione, Cicerone in
una sua orazione suggerisce che avesse addirittura una relazione incestuosa col
fratello.
Insomma proprio una brava ragazza.
Da autentico pollo di allevamento, nato e cresciuto in una
campana di vetro, Catullo se ne innamora perdutamente, credendo pure di essere
ricambiato.
Manco a dirlo, il rapporto fra Catullo e Clodia è quantomeno burrascoso: lei, a
cadenza quasi settimanale, precisa come la Wind
quando ti deve scalare il credito, lo lascia e lo piglia come l’ultimo dei
cretini, nel frattempo, ovviamente, sotto le sue lenzuola c’è più traffico che
nel parcheggio di un centro commerciale sotto Natale.
Piccola digressione sui poeti neoterici.
I poetae novi o neoterici sono quei poeti dell’antica Roma che non hanno il benché
minimo interesse né per la politica, né per la vita pubblica, quindi nelle loro
opere trattano prevalentemente il tema dell’amore.
Lungi da me mazzolarvi crudelmente i gioielli di famiglia con concetti come la brevitas e il labor limae, voglio porre l’attenzione sulla vera caratteristica
che accomuna questa categoria di poeti: muoiono tutti giovani. Vogliamo chiamarlo
mal di vivere? Vogliamo dire che «muore giovane chi è caro agli dei»? Vogliamo
chiamarla sfiga? Fate un po’ voi, ma io sono convinto che se Darwin avesse
letto di come Catullo si comportava con Clodia, l’avrebbe chiamata solo in un
modo: selezione naturale.
Fine della digressione.
Naturalmente il povero Catullo non è che nelle sue poesie
può scrivere che se la intende con la sorella di un tribuno, tra l’altro pure
ammogliata. Per questo motivo decide di attribuirle un nome fittizio: Lesbia,
in onore della poetessa Saffo che proveniva dall’isola di Lesbo (l’introduzione
di questa parola nel post farà probabilmente salire la percentuale di lettori
adolescenti ottenebrati dal testosterone).
Le poesie di Catullo sono contenute nel Liber, la sua unica opera che si divide in tre parti:
- Le nugae, ovvero poesie dal contenuto leggero
- I carmina docta, perlopiù elegie di argomento impegnato
- Epigrammata, la parte che a scuola viene un po’ snobbata, ma che scopriremo essere la più interessante
Leggendo l’opera di Catullo si evince che il pover’uomo
probabilmente soffriva di disturbo bipolare: tu te ne stai lì a leggere il carme 7 in cui quasi ti commuovi per
questo amore eterno e folle che nessuno potrà mai vincere, poi giri pagina e
nel carme 8 lo senti dire: «Addio
ragazza, ormai Catullo resiste, non ti cercherà».
E la cosa bella che va avanti così per tutti i 116 componimenti: emotivamente è
come salire sulle montagne russe, che a un certo punto ti viene da dire:
«Catullo e fai pace col cervello!».
Per quello che mi riguarda, Catullo l’ho sempre trovato un
autore un po’ particolare per l’uso delle metafore. Prendiamo il carme 2, per esempio:
Passero, delizia della
mia fanciulla,
col quale è solita
giocare, che suole tenere in grembo,
cui suole dare, mentre
si avventa, la punta del dito
e stuzzicare le pungenti
beccate,
quando al mio fulgido
amore
piace fare non so che
piacevole gioco
e trovare un piccolo
conforto per la sua sofferenza,
credo, perché si calmi
allora la sua ardente passione;
oh potessi giocare con
te come lei
e alleviare i tristi
affanni del cuore!
...
Questo mi sarebbe tanto
gradito quanto dicono che alla fanciulla
veloce Atalanta fosse gradita
la mela aurea
che sciolse la fascia verginale
a lungo negata.
Le battute sul passero di Lesbia a scuola sono seconde
solamente a quella su L’infinito di
Leopardi, eppure se leggiamo attentamente questo carme notiamo una cosa strana: Catullo usa la metafora del passero
per descrivere un sentimento bello, limpido, non c’è assolutamente nulla di
immorale, tuttavia lui, in qualche modo, decide di occultarlo.
«E allora? Lo fanno
tutti i poeti».
Siamo d’accordo, ma c’è una cosa che non sapete di Catullo: avete fatto caso
che a scuola non vi fanno mai comprare il Liber,
ma al massimo un’antologia? Com’è che non vi hanno mai fatto leggere il carme 42, oppure il 56? E tutti quelli
dedicati a Gellio che fine hanno fatto? Perché si dedica così poco tempo agli Epigrammata? È tutta una manovra della
Chiesa, della Massoneria, degli Illuminati, degli extraterrestri?
Devo finirla di guardare Mistero.
Il fatto è che il nostro
Catullo usa le metafore per parlare d’amore, ma quando deve attaccare qualcuno sembra
di parlare con Sgarbi. Per darvi un’idea prendiamo il carme 80, in cui ho sostituito le parolacce con il pio bove di carducciana memoria:
Come puoi, Gellio, spiegare perché queste
tue labbrucce rosee
divengono più candide della neve d'inverno,
quando alla mattina esci di casa o quando nel primo pomeriggio
delle lunghe giornate estive ti ridesti dal pigro riposo?
Per certo non saprei come avvenga: ma potrebbe esser vero, qualcuno lo sussurra,
che sei un divoratore di pio bove ch'esce dall'inguine di un uomo?
è così, di sicuro: lo gridano la schiena rotta di Vittorio,
pover'uomo, e le tue labbra segnate dal pio bove che hai succhiato.
divengono più candide della neve d'inverno,
quando alla mattina esci di casa o quando nel primo pomeriggio
delle lunghe giornate estive ti ridesti dal pigro riposo?
Per certo non saprei come avvenga: ma potrebbe esser vero, qualcuno lo sussurra,
che sei un divoratore di pio bove ch'esce dall'inguine di un uomo?
è così, di sicuro: lo gridano la schiena rotta di Vittorio,
pover'uomo, e le tue labbra segnate dal pio bove che hai succhiato.
A rileggerla sembra più
oscena la mia versione.
Come potete capire siamo
lontani dalle sottigliezze di Nevio e Orazio: Catullo è uno che se gli stavi
sugli zebedei, tàc, ti faceva un bell’epigramma e passavi alla storia in
termini non propriamente lusinghieri.
Tutto ciò dovrebbe farci
perdere la stima per il nostro poeta? Assolutamente no! Catullo è come Kurt
Cobain, è la rockstar della poesia
latina: ha scritto cose d’amore, cose dissacranti e poi se s’è andato all’incirca
a trent’anni. Nel senso che è morto, non che ha fatto l’Erasmus.
Quindi portate rispetto a questo grande autore e se vi state disperando perché
(come me) a trent’anni non avete ancora combinato nulla, non vi preoccupate, c’è
ancora tempo: Mozart è morto a trentacinque.
P.S.
Nel caso vi interessasse il Catullo hot,
date un’occhiata ai carmi 6, 15, 16,
21, 23, 25, 32, 37, 39, 41, 42, 56, 74, 80, 88, 89, 94, 97, 98, 111. Ma non
dite che ve l’ho suggerito io.
P.P.S.
Cliccate qui per partecipare
al sondaggio che si aprirà il 10 ottobre grazie al quale potreste vincere un
libro dal valore di ben 0.99 centesimi!