Ero un bambino timido. E lo sono ancora. Timido. Non
bambino. Così, a prima vista (d’emblée
mi pareva un po’ troppo fighetto) alla domanda «Qual è il problema di un
bambino timido?», uno sprovveduto tendenzialmente risponde «Bella domanda: la
timidezza!». Sbagliato. Il vero problema che affligge ogni bambino timido nel
mondo non è la timidezza, ma una piaga più pericolosa della siccità in Sicilia,
più fastidiosa della sabbia nel costume. Sto parlando ovviamente dei Parenti
del Bambino Timido (da questo momento PBT).
Che poi uno potrebbe anche dire: «Eh, e che sarà mai!», tuttavia, se da piccoli
siete stati timidi, voi e solo voi capire bene la gravità della cosa e che
forse forse a Mosè sarebbero bastati una dozzina di PTB ben addestrati per
convincere il faraone non solo a lasciar liberi gli Ebrei, ma aggiungere
all’offerta anche una batteria di pentole in acciaio inox 18/10, un televisore
LED da 24’’ e una bicicletta elettrica.
Tutto nasce da un grosso equivoco millenario: per i PTB la
timidezza è una parola sconosciuta, alla base di tutto ci deve essere per forza
una patologia che spiega tutto. La gravità della presunta patologia è
inversamente proporzionale al grado di parentela, cioè più il PTB è alla
lontana, maggiori saranno le speculazioni. Per capire appieno questo concetto è
necessario dare uno sguardo alla personalissima scala dei valori dei PTB:
- Genitori: «È poco sveglio/a»
- Nonni: «È colpa dei genitori: è pieno/a di complessi»
- Zii e zie di I grado: «Soffre di disturbo dell’attenzione»
- Zii e zie di II grado: «È sociopatico/a»
- Zii e zie di III grado: «Ha una qualche rara forma di autismo»
- Parenti che vedi solo in occasione di nascite e dipartite: «È gay»
Con questo abbiamo dimostrato non solo che i nostri parenti
non capiscono un tubo, ma che sono anche un pochino omofobi.
Dal canto suo il timido non è che si impegni più di tanto
nel dimostrare che i PTB hanno torto, anzi con il suo comportamento sembra
avvalorare le tesi complottiste dei suoi parenti. Per permettere ai genitori di
capire se la propria creatura è solamente timida, prima di imbottirlo di Ritalin e comprare la Mercedes nuova
allo psicologo, manco sto blog fosse un inserto di Donna Moderna, vi presento i sintomi della timidezza:
- Il timido non ammette di essere timido. È la prima regola del Fight Club
- Il timido è un incrocio fra Mel Gibson in Ipotesi di complotto e un qualsiasi pollo di allevamento che d’estate se ne va in Costa Azzurra con i soldi di papino: è convinto che l’intera volta celeste ruoti solo ed esclusivamente intorno a lui. Questo si evince soprattutto per strada: per il timido qualunque passante lo guarda in modo strano. Tra l’altro il timido, essendo troppo concentrato su di sé, è l’ultimo ad accorgersi di quello che sta succedendo intorno, per cui, se a un tratto tutti si voltano nella sua direzione, è convinto di essere perseguitato, non notando assolutamente il dirigibile in fiamme alle sue spalle che sta precipitando su un asilo nido adiacente a un rifugio per cani maltrattati e a una casa di cura per reduci di guerra
- Il timido non fa amicizia. Nemmeno a un raduno di boy-scout, nemmeno se catapultato in mezzo ai papaboys, nemmeno a un incontro degli alcolisti anonimi
- Il timido è il candidato ideale per diventare funzionario della CIA o capo di Cosa Nostra. Non parla mai, manco se gli infili le schegge di bambù sotto le unghie. Tutt’al più gli si possono strappare dei mugugni da interpretarsi come «sì» se sono in tono crescente, «no» se sono in tono calante
Adesso, messa così, pare che la vita di un ragazzino timido
sia difficile o che comunque faccia proprio schifo. Non è del tutto vero,
infatti ci sono un mucchio di vantaggi nell’essere timido, per esempio, da
statuto del CONI, sei automaticamente escluso da qualsiasi gioco fra ragazzini
che comporti l’uso degli arti inferiori e superiori. Che per voi sembra poco,
ma per me, che ho i piedi in perenne autogestione, è un bel gesto.
E poi devo dire la verità, avevo un sacco di ragazze: Daniela e Anna alle
elementari; Maria, Silvia e Caterina alle medie; Giovanna, Ilenia, Loredana,
Elisa alle superiori. Ovviamente il fatto che nessuna avesse la benché minima
idea di chi fossi e che mi fossi proclamato motu
proprio loro fidanzato è un dettaglio del tutto trascurabile.
Va bene, va bene, vi concedo che tutto ciò possa sembrare
appena appena patetico, tuttavia che mi dite di uno che scrive un libro
interamente dedicato ad una donna, per di più sposata, che con molta
probabilità non l’ha mai guardato nemmeno di striscio (è un eufemismo)? No, non
è la mia autobiografia ma una delle opere più importanti di tutta la
letteratura mondiale: la Vita nuova
di Dante Alighieri.
La Vita nuova è un
prosimetro (mezzo poesia e mezzo prosa, per capirci) composto da 42 capitoli e
31 poesie, ma è soprattutto una via di mezzo fra un’opera autocelebrativa, un
trattato di poesia e un saggio sullo stilnovismo. In pratica è una raccolta di
poesie che Dante ha scritto in onore della sua musa ispiratrice che vanno dal
1283 al 1291, anno successivo alla morte di Beatrice. Come detto
precedentemente, quest’opera ha diversi caratteri autocelebrativi, per cui ogni
tanto Dante lancia qualche profezia a caso, così, giusto per fare lo splendido,
ma noi sappiamo che il Poeta bara perché alcuni componimenti risalgono almeno
al 1294. Ti piace vincere facile, eh?
Nella Vita nuova troviamo tutta la
storia di Dante e Beatrice raccontata con dovizia di particolari e a tratti
talmente sdolcinata che si fa fatica a staccare le pagine l’una dall’altra
dalla melassa che le appiccica.
A dire la verità, l’opera, ad una prima lettura, sembra
suggerire un’unica cosa: Dante era uno stalker maniaco che, fosse nato qualche
secolo dopo, avrebbe giustamente passato una decina d’anni in carcere, mentre
Beatrice sarebbe saltata da una trasmissione pomeridiana all’altra con il
titolo in sovraimpressione: «Io, vittima di un uomo ossessionato da me».
Prima però di arrivare a conclusioni affrettate, vediamo nel dettaglio cosa è
successo.
Dante incontra per la prima volta Beatrice all’età di nove
anni e nove mesi, mentre lei ne ha nove e tre mesi. La precisione del Poeta è
dovuta, con molta probabilità, non tanto alle cure di fosforo che gli faceva
fare la madre, quanto alla simbologia numerica che ritroveremo anche nella Commedia: tre e i suoi multipli
richiamano la Trinità.
Dopo questo primo incontro i due non si vedranno per la bellezza di nove anni.
Rimanga fra noi, personalmente il fatto che passi tutto sto tempo fra un
incontro e l’altro a me ha sempre lasciato un po’ perplesso. Stiamo parlando
della Firenze di fine di Duecento, cioè una specie di paesotto dove tutti si
conoscevano, soprattutto le persone più importanti e Folco Portinari, il padre
della fanciulla, era uno dei banchieri più influenti della città, per di più
legato a doppio filo ai Medici.
Che fine fa allora Beatrice per la bellezza di nove anni? Va
in un collegio svizzero? Rapita dall’Anonima Sequestri? Scappa con Scientology?
Erasmus in Spagna? Rave particolarmente lungo a Ibiza?
Non ci è dato saperlo, fatto sta che la ragazza riappare a Firenze quando ha
compiuto 18 anni. Giusto in tempo per prendere la patente.
Per evitare che rimaniate delusi dall’evolversi della
storia, è necessario fare alcune precisazioni:
- Dante e Beatrice non erano sposati
- Beatrice fu data in moglie a un certo Simone de’ Bardi, un ricco banchiere dolce e sensibile come una piantagione di cactus
- Dante invece si sposò con Gemma Donati, a mio avviso, santa donna che avrebbe voluto mandare suo marito a far compagnia a Beatrice. Dopo morta. Del resto provateci voi a convivere con uno che tutto il giorno non fa che dire: «Ah, com’era bella Beatrice», «Ah, com’era dolce Beatrice», «Ah, come faceva bene la pasta e patate Beatrice», «Ah, come stirava bene le camice Beatrice» e via dicendo
Insomma, Dante si trovava nella cosiddetta friendzone, l’incubo di qualsiasi
adolescente in età puberale e che si potrebbe tradurre con la locuzione:
non-te-la-do.
Ma proseguiamo con la
Vita nuova.
Il primo componimento che apre l’opera è A ciacun’alma presa e gentil core che
riporterò di seguito non tanto per amore nei confronti della cultura, quanto
per una provvidenziale assenza di diritti d’autore.
A ciascun'alma presa e
gentil core
nel cui cospetto ven lo dir presente,
in ciò che mi rescrivan suo parvente,
salute in lor segnor, cioè Amore.
Già eran quasi che atterzate l'ore
del tempo che onne stella n'è lucente,
quando m'apparve Amor subitamente,
cui essenza membrar mi dà orrore.
Allegro mi sembrava Amor tenendo
meo core in mano, e ne le braccia ave a
madonna involta in una drappo dormendo.
Poi la svegliava, e d'esto core ardendo
lei paventosa umilmente pascea:
appresso gir lo ne vedea piangendo.
nel cui cospetto ven lo dir presente,
in ciò che mi rescrivan suo parvente,
salute in lor segnor, cioè Amore.
Già eran quasi che atterzate l'ore
del tempo che onne stella n'è lucente,
quando m'apparve Amor subitamente,
cui essenza membrar mi dà orrore.
Allegro mi sembrava Amor tenendo
meo core in mano, e ne le braccia ave a
madonna involta in una drappo dormendo.
Poi la svegliava, e d'esto core ardendo
lei paventosa umilmente pascea:
appresso gir lo ne vedea piangendo.
Ovviamente a
questo punto avrete capito che questo non è un blog serio sulla letteratura,
per cui, se siete arrivati fin qui nella speranza di trovare la parafrasi della
poesia per il compito di domani, mi dispiace darvi una delusione. Tanto Google
ormai mi ha già conteggiato la vostra visita (vivo di soddisfazioni minime).
Se state ancora leggendo, avrete notato che il titolo del componimento è uguale
al primo verso, questo perché nel Medioevo non c’era ancora l’usanza di attribuire
un titolo alle poesie (segnatevelo, perché fa sempre effetto alle
interrogazioni).
Ebbene Dante, il
più grande scrittore di sempre (e se dite il contrario vi stacco la testa con
un machete), apre la Vita nuova manco
fosse un romanzo urban fantasy: sta
dormendo caldo caldo nel suo lettuccio quando all’improvviso appare Amore, con
la maiuscola («l’articolo è muto», come direbbe Django). Il ragazzo però
non se lo immagina come un angioletto svolazzante, anzi addirittura si spaventa
perché in una mano tiene il cuore palpitante di Dante, nell’altra invece c’è
Beatrice che dorme. Ad un certo punto Amore sveglia la donna e le dà da
mangiare il cuore, subito dopo i due volano verso il cielo piangendo.
Non esistendo
ancora gli psicologi, Dante, nell’incipit,
chiede consiglio ai suoi “colleghi” poeti riguardo l’interpretazione del sogno.
A rispondergli è l’amico di sempre Guido Cavalcanti che, dati i tempi (e forse
anche per delicatezza), non gli dice «Fra’, non so che roba ti fumi ma la
prossima volta che ti capita per le mani avvisami», ma scrive il componimento Vedeste,
al mio parere, onne valore che può
essere agevolmente riassunto con l’ovvietà: «Secondo me, alla fine la ragazza
muore».
Come tutte le liriche della Vita nuova, anche qui alla fine
troviamo un commento dello stesso Dante che spiega non solo le circostanze che
l’hanno spinto a scrivere, ma anche alcune nozioni di carattere stilistico.
Giusto per rimarcare la fissazione del Poeta per il numero tre, anche
quest’opera può suddividersi in tre parti: nella prima Beatrice gli concede il
saluto; nella seconda Beatrice non gli concede il saluto; nella terza non
sappiamo se Beatrice glielo concede o non glielo concede perché nel frattempo è
passata a miglior vita.
Mi rendo conto che la storia del saluto a noi possa sembrare un po’ paranoica
e già vedo il sorrisino di alcuni di voi a dire: «Hehe, che imbranato!».
Tuttavia, amici miei, le cose non sono tanto cambiate, visto che conosco gente
che si fa venire gli scompensi se la persona che gli piace non commenta la loro
pagina Facebook. Ecco, è sparito il sorrisino.
Che poi in realtà la faccenda del saluto è un ciccinino più profonda delle
canzoni di Alessandra Amoroso condivise da YouTube, infatti l’atto di
“salutare” per gli stilnovisti era inteso anche, e soprattutto, come l’atto di
portare salvezza. Ma questo lo vedremo più avanti.
Come anticipato, a un certo punto Beatrice decide di togliere il saluto
a Dante e in effetti non possiamo darle torto: il ragazzo praticamente non le
ha mai parlato dal vivo, manco un bigliettino, un pizzino, un sms, una
strusciata di gomito. Si limita ad indirizzarle poesie e farle circolare per
tutta Firenze. Insomma, inquieterebbe chiunque.
Tuttavia non è questo il motivo che spinge Beatrice a non fare “ciao ciao” con
la manina al nostro eroe, che ci crediate o no è esattamente il contrario.
Infatti, ancora una volta, gli compare Amore (Firenze all’epoca aveva molto in
comune con Amsterdam) che gli dice che a forza di parlare di Beatrice, il
marito di lei poteva anche sentirsi legittimato a spezzargli gli alluci (Dante
lo dice in maniera leggermente più poetica), per cui gli propone di indirizzare
i suoi componimenti a due donne “schermo”, cioè di far finta che l’oggetto
delle sue poesie siano altre due poverette che si trovano invischiate in questa
storia senza sapere né perché né per come.
Possiamo dire essenzialmente che, almeno fino alla Commedia,
Dante potrebbe definirsi un “poeta d’amore”. Il suo problema però consisteva
nel non capire un accidente di psicologia femminile, ma su questo è
indubbiamente in buona e numerosa compagnia. Il Sommo infatti, credendo di fare
un atto gentile, fa salire i 5 minuti a Beatrice che gli dà ancora meno
confidenza sia perché non è più l’oggetto delle sue liriche, sia perché col suo
comportamento ha provocato non pochi problemi alle donne “schermo”.
Come fai fai sbagli, insomma.
Con l’ingresso delle donne “schermo” si apre la seconda parte della Vita
nuova, in cui Dante comincia l’opera di riconquista della sua musa e che
contiene Tanto gentile e tanto onesta pare su cui non spenderò nemmeno
due parole. Poi non dite che non vi voglio bene.
Come va a finire la storia? Beatrice gli ridà sto benedetto saluto?
Non lo scopriremo mai, visto che la giovane muore (probabilmente di parto).
Naturalmente il Poeta è disperato ma a quanto pare si riprende abbastanza
presto dato che dopo poco è già innamorato di una donna “gentile”.
Sull’attributo “gentile” Dante non fornisce ulteriori spiegazioni ma vi lascio
immaginare cosa abbiano potuto dire i critici a proposito.
In verità la sbandata dura abbastanza poco, infatti il Sommo capisce che
l’unica donna degna di essere lodata è Beatrice e arriva alla conclusione che
finché non sarà all’altezza non scriverà più di lei, anticipando la scrittura
della Commedia.
THE END
Se state tirando un sospiro di sollievo perché almeno Dante aveva una
vita sentimentale più disastrata della vostra, vi devo chiedere di ritornare in
apnea.
Il più grande poeta di sempre (ho ancora il machete a portata di mano)
non era così imbranato quanto voleva far credere.
Partiamo innanzitutto dal fatto che a Firenze all’epoca potevano esserci, che
so, per lo meno 50-60 ragazze di nome Beatrice. Ebbene, Dante non dice mai a
quale di loro si sta rivolgendo. Il nome di Beatrice Portinari ce lo suggerisce
Boccaccio, sulle base di alcune dicerie di paese, quindi niente di
profondamente scientifico.
E con ciò?
Proviamo a considerare tutta la manfrina di Beatrice come una grande, immensa,
allegoria (state seduti, non vi tiro fuori Auerbach). Beatrice significa
letteralmente “colei che porta beatitudine” e il suo saluto per Dante è
importantissimo perché “saluto” deriva dal latino salus, ovvero
salvezza.
Quello che sto cercando di dire è che forse Dante non ha amato alcuna donna di
nome Beatrice, ciò che lui ha cantato per tutta la vita è stato invece un
ideale, un obiettivo da perseguire a qualsiasi costo, anche mettere in piedi il
poema più articolato, colto e universale che la storia ricordi.
C’è però ancora qualcosa che non quadra: se Dante vuole raggiungere Dio, perché
non loda lui direttamente invece di costringere gli studenti di ogni ordine e
grado a far finta di conoscere almeno mezza di una delle sue poesie?
La risposta la troviamo nella teologia medievale. Dante, e con lui tutti i
poeti della sua generazione, ritenevano che rivolgersi direttamente a Dio fosse
un atto di superbia, però potevano lodarlo “di riflesso”, cioè lodando ciò che
di buono ha creato, nel nostro caso Beatrice (o “l’idea” di Beatrice).
Ovviamente sta cosa la potevano fare Dante e gli stilnovisti, quindi se vi
beccano a sbavare sul sito di Raoul Bova o di Eva Henger non potete
giustificarvi dicendo: «No, è che stavo lodando il Signore».
Sinceramente questo tipo di interpretazione non mi piace per due
motivi:
- Perché ho l’animo di una zitella inglese di epoca vittoriana e quindi, nel bene o nel male, mi aspetto sempre il lieto fine
- Perché questa interpretazione tende a fare cadere le braccia a chiunque si avvicini alla Commedia, in quanto appena si prende il libro dallo scaffale da qualche parte spunta miracolosamente un filologo o un letterato che esclama: «Beh, lo vuoi leggere, leggilo, ma sappi che senza un adeguata preparazione non riesci a cogliere tutte le sfumature che il Poeta ha voluto…»
Allora sapete che vi dico?
Forse Beatrice è solamente l’idea di beatitudine, Laura la voglia di gloria di
Petrarca, Fiammetta il desiderio di Boccaccio di diventare pompiere (non mi
venivano altre interpretazioni). Tuttavia quando vedete un bambino che vi
chiede cos’è la Divina Commedia, non attaccate un pippone sullo stile
poetico medievale, sui provenzali, sulla Scolastica e via dicendo.
Semplicemente, dite che si tratta della bellissima storia di un uomo per vedere
almeno un’ultima volta l’amore della sua vita decide di attraversare l’Inferno
e, una volta incontrata e sconfitta la parte più oscura di sé, sale su, fino al
Paradiso, fino a Beatrice, perché, in fin dei conti, la beatitudine in questo
consiste, nel poter vedere il volto della persona amata.
E per l’amor di Dio, tenete i vostri bambini timidi lontano dai
parenti! Non si può mai sapere che un domani vi scrivano un capolavoro.