Ci sono vari motivi che spingono una persona ad aprire un
blog. C’è chi vuole far sentire la sua opinione al mondo, c’è chi vuole
giocarsi la carta «Beh, sai, sono un blogger»
quando una ragazza gli chiede come mai a 45 anni abiti ancora con i genitori, c’è
chi lo fa per soldi. Ebbene, io lo faccio per i soldi. Cioè, come potete
constatare guardandovi in giro, qui non c’è traccia di pubblicità, eppure vi
assicuro che da questo blog ricavo un bel di soldi. Anche se non ve li so
quantificare perché non ho la più pallida idea di quali siano le tariffe
vigenti di uno psicanalista. Cercherò di spiegarmi meglio.
I miei lettori più accaniti (grazie, mamma!) avranno certamente capito che
tutta la storia del blog sulla Letteratura è solo una scusa per parlare delle
mie fisime, facendomi risparmiare fior fiore di quattrini in psicanalisi e
supposte di Xanax (mi auguro
vivamente che non le producano davvero).
Il sistema ha funzionato fin quando, qualche settimana fa, a qualcuno in
famiglia non è venuta in mente una brillante idea: «Riversiamo su DVD tutti i
filmini di quando eravamo bambini».
«E allora, non è una cosa carina?». Carinissima. Ma per chi non
ha una mente già compromessa da colloqui di lavoro del tono:
«La nostra azienda in verità è alla ricerca di una figura,
massimo diciottenne, che sia laureata con lode e con almeno sei anni di
esperienza nel settore dell’ingegneria gestionale»
«Vede, il candidato che stiamo cercando vive in Groenlandia.
Massimo in provincia»
«Leggo sul curriculum che ha la patente B, immagino però che
non sia capace di manovrare una navicella spaziale Sojuz 7K-0K di fabbricazione sovietica, o sbaglio?»
«Lei è esattamente la persona che stiamo cercando per
pubblicizzare questo innovativo prodotto idratante assolutamente incolore e
insapore»
«Ma quella è acqua!»
«Ah bene, vedo che è già nostro cliente»
Il primo trauma è stato scoprire che il filmino del mio
battesimo non è registrato su una comunissima cassetta VHS ma in Super 8. Come
l’omicidio di Kennedy. E così, mentre guardi la pellicola, immagini tuo padre
con dei baffi Cavour-style e tu
avvolto nei merletti che nemmeno i bambini di The Others.
Ti siedi allora comodo sul divano sperando ardentemente che non vi sia nulla di
particolarmente imbarazzante, ma è una speranza vana: i filmini che ha girato
tuo padre fra gli anni ‘80 e ‘90 vengono dal passato, come il demone dell’Esorcista, e con esso condividono
l’altissimo livello di comprensione umana. Sullo schermo allora vedi passare i
tuoi calzoncini ascellari color “Emmenthal eccessivamente stagionato” e cerchi
qualcosa a cui aggrapparti per sviare l’attenzione, sei lì lì per dire: «Ma
guarda com’ero magrolino da bambino», quando il tuo tentativo di depistaggio
non solo non viene colto, ma vieni addirittura anticipato da qualcuno dal fondo
della sala che urla: «Oh, ma sei sempre stato in carne, eh?». Portando la tua
autostima a quota speleologica.
Eppure non tutto il male viene per nuocere, infatti è
proprio vedendo questi filmini che ho capito la causa di una buona percentuale
delle mie idiosincrasie. Per essere più chiaro è necessario che vi parli di
Cassandra.
Cassandra è il nome che diedi a una mia parente non tanto per una precoce (e inverosimile)
passione per le opere classiche, quanto perché da bambino vidi un film tratto
dall’Iliade, sinceramente non è che
capivo proprio tutto tutto e, non sapendo gli antefatti, per me Cassandra era
una che diceva cose spiacevoli che puntualmente si avveravano. Una che portava
sfiga, insomma. Proprio come questa mia parente. Per capire il tipo: facevi un
colpo di tosse? Lei ti guardava fisso negli occhi e, con un tono di voce da
Sibilla cumana, diceva che era l’influenza che stava girando e che prendeva
anche all’intestino. Tempo 24/48 ore che ti trovavi in bagno a produrre concime
sufficiente a risollevare l’agricoltura di tutto il Sud-est asiatico.
Ebbene, è proprio guardando il filmato di una festa di compleanno che mi sono
improvvisamente ricordato di una profezia di Cassandra: compivo 8 anni, giocavo
con i miei amichetti di scuola, lei amorevolmente rivolge lo sguardo a mia
madre e le dice: «Certo che lui è il più alto della classe». Zac! L’anno
successivo mi ritrovo circondato da una tribù di Watussi.
Direte: «Ma come, credi a queste stupidaggini?». No che non
ci credo, almeno fin quando non mi riguardano direttamente. Ripensandoci però
ho constato che tutta la mia esistenza è stata costellata da problemi di
altezza. Non la mia, quella degli altri. Già, perché non sono mai stato
particolarmente basso, purtroppo però ho sempre avuto la caratteristica di
circondarmi di persone più alte di me dai 15 ai 20 centimetri.
Quando ci si trova nella mia situazione puoi fare solamente due cose:
- Scappare con un circo e circondarsi di nani
- Prenderla con filosofia
Naturalmente ho scelto la strada più logica. Anche se a
volte penso avrei fatto meglio a prenderla con filosofia.
Tradizionalmente chi ha problemi di altezza si consola
chiamando in causa i più grandi personaggi storici bassi di statura: Napoleone,
Gandhi, Arafat, Pupo, Renato Brunet… ehm già l’ho detto Pupo?
L’alternativa è rispondere agli sfottò con la frase: «Nella botte piccola c’è
il vino buono». Ebbene, amici miei, in verità in verità vi dico che questo
detto vale anche per la Letteratura, pensate alla Fattoria degli animali di Orwell, diventato un classico dal basso
delle sue 140 pagine, Il piccolo principe
(123 pagine), Cuore di tenebra di
Conrad (103 pagine). Tuttavia il caso più emblematico (paradigmatico faceva troppo blog di Selvaggia Lucarelli) è il Vecchio e il mare, con queste 142 pagine
Hemingway ci ha vinto il Nobel e il Pulitzer, io non ci faccio nemmeno la lista
della spesa.
Ma chi era questo simpatico signore che ha segnato tutta la
Letteratura del Novecento?
Ernest Hemingway nasce a Oak Park (Stati Uniti) nel 1899 da un medico e da una
aspirante cantante d’opera. Il padre gli instilla fin da bambino l’amore per la
natura lo porta ad appassionarsi all’avventura, agli animali e alla caccia (non
ci fate caso, per Hemingway le cose erano compatibili).
Fate i fighi perché avete fatto tre mesi di Erasmus in Spagna? Hemingway a 18
anni parte per l’Italia per diventare autista di ambulanza per la Croce Rossa.
Era il 1917 e l’Europa si trovava nel bel mezzo della Prima guerra mondiale.
Non vi basta? Dopo pochi mesi il nostro futuro scrittore fa domanda per essere
trasferito in trincea perché vuole vedere da vicino la guerra, il sangue dei
soldati che sprizzava dalle ferite. Mica la sangria!
Tornato in patria comincia a scrivere per un giornale canadese che, stranamente
invece di proporgli di lavorare almeno due anni senza stipendio per prendere il
tesserino da giornalista-pubblicista, vista la sua bravura, lo manda di nuovo
in Europa come corrispondente. In questo periodo Hemingway vive fra Italia,
Francia, Spagna e Svizzera e saranno gli anni che lo avvicineranno alle sue
grandi passioni: la corrida e la Letteratura.
Con la pubblicazione dei primi racconti il nostro eroe
capisce di avere la stoffa per diventare uno scrittore di successo, perciò si
comporta di conseguenza conducendo una vita sregolata e venendo a contatto con
alcune leggende come Francis Scott Fitzgerald con cui stringerà una grande
amicizia.
Per capire che tipo di vita facesse Hemingway basta leggere Festa mobile, in cui racconta il suo
soggiorno nella Parigi negli anni Venti. Riassumo per chi non l’avesse letto:
festini, risse, ubriacature. Se non fosse per il fatto che ogni tanto compaiono
Ezra Pound e James Joyce e per la totale assenza di escort sembrerebbe la
biografia di Lapo Elkann.
Alla vigilia della Seconda guerra mondiale Hemingway è a
Cuba e sta scrivendo Per chi suona la
campana. Fa le carte false per tornare in Europa e documentare il tutto? Ma
non ci pensa nemmeno, però i nazisti e i fascisti gli stanno talmente sulle
scatole che diventa un agente segreto al servizio degli Stati Uniti per impedire
infiltrazioni naziste a Cuba (Effettivamente «Fammi un nazi libre» non suonava granché).
Appena terminato il secondo conflitto mondiale Ernest torna in Italia (qui
intraprende anche una relazione extraconiugale con una nobildonna di una
trentina d’anni più giovane) e poi di nuovo a Cuba, dove scrive Il vecchio e il mare, con cui vince il
Nobel.
Gli ultimi anni della sua vita li passa in depressione e affetto da manie di
persecuzione e gli psichiatri dell’epoca come decidono di curare la mente più
brillante del secolo? Con delle salutari sedute di elettroshock (anche venti al
giorno). Praticamente è come presentarsi davanti al Partenone con una ruspa da
demolizioni e dire: «Allora, lo cominciamo questo restauro?».
Ormai preda della depressione (e volevo vedere voi), Hemingway decide di porre
fine alla sua vita nel più hemingwayano dei modi: nel 1961 si spara con un
fucile da caccia.
Ma veniamo all’argomento principale.
Il problema de Il vecchio e il mare è
superare le prime cinque pagine: conosco persone che leggono mattoni di 2800
pagine sulla figura di fra Galdino
nei Promessi sposi ma non riescono a
superare la sonnolenza dovuta a questo capolavoro della Letteratura
contemporanea. Effettivamente non hanno tutti i torti, pur essendo una via di
mezzo fra un romanzo e un racconto lungo, Il
vecchio e il mare ha un ritmo un po’ lento, in pratica è la versione
cartacea de La grande bellezza di
Sorrentino: bello bello bello, ma se non stai attento rischi di svegliarti dopo
i titoli di coda, costringendoti a cimentarti in avvilenti recensioni alla Vanity Fair: «Finalmente un grande film
italiano», «Rispecchia a pieno la situazione attuale dell’Italia» e via
dicendo.
Una volta superata pagina 5 il gioco è fatto, a quel punto
potete leggerlo tutto. La trama de Il
vecchio e il mare è abbastanza semplice: Santiago è un anziano pescatore
cubano molto sfortunato che un giorno cattura un marlin.
Come si fa a vincere un Nobel, un Pulitzer e ricavarci un film di un’ora e
mezzo con questi presupposti? Ve lo spiego io.
Come abbiamo detto, il protagonista del libro è Santiago, un pescatore di Cuba
appassionato di baseball (il suo mito è Joe Di Maggio), segnato dal tempo e dal
sole. Il suo unico amico è il giovane Manolin, un ragazzo i cui genitori hanno
proibito di assistere il vecchio nel corso delle sue battute di pesca perché
ritenuto quasi maledetto dal destino, visto che non riesce mai a portare a
terra un bottino decente.
Un giorno Santiago decide di partire da solo in mare aperto per dimostrare a
coloro che lo prendono in giro che su di lui non c’è alcuna maledizione ed
effettivamente riesce a catturare un grosso marlin di cinque metri e mezzo.
Torna al villaggio, tutti si ricredono e finisce a tarallucci e vino?
Toglietevelo dalla testa gente, questo è Hemingway, mica Twilight!
Il fatto è che il pesce è troppo grosso per essere issato sulla barca, perciò,
dopo tre giorni di lotta in cui il marlin si porta a spasso Santiago per tutto
il Mar dei Caraibi, il vecchio è costretto a legarlo in acqua, cosa che
ovviamente attira i pescecani che divoreranno tutta la preda e giungerà perciò
a terra solo lo scheletro.
A parte le evidenti analogie con Sampei, Il vecchio e il mare
è tutta una grande metafora sulla vita e, che ci crediate o no, Santiago, pur
essendo un pescatore, è il personaggio più ambientalista mai concepito. Giusto
per dirne qualcuna: a un certo punto Santiago finisce la scorta di cibo, perciò
è costretto a nutrirsi di pesci crudi pescati sul momento, perlopiù tuna e lampuga. Hemingway insiste
parecchio sul fatto che Santiago uccide i pesci solo per nutrirsene e non ha
alcun motivo per odiarli, e il protagonista in più occasioni arriva persino a
scusarsi con le su prede per averle catturate. Lo stesso rapporto con il grosso
marlin è quasi alla pari, lottano entrambi per la sopravvivenza e si rispettano
(non chiedetemi come fa un pesce spada a mostrare rispetto) e lo stesso pesce,
dopo tre giorni di combattimento, decide di lasciarsi andare, di arrendersi al
pescatore piuttosto che venire mangiato dagli squali.
Non che voglia fare psicologia da salotto, ma se ci riflettiamo Il vecchio e il mare è la dimostrazione
di come un essere umano dovrebbe vivere: lottare fino alla fine contro le
avversità, ma avere, nello stesso tempo, il coraggio di dichiararsi sconfitto
quando l’avversario lo merita davvero, piuttosto che cedere a tutti i pescecani
che ci ruotano attorno mentre siamo agonizzanti.
Paradossalmente però lo scrittore sostenne sempre che si trattava solo di una
storia di pesca che non mascherava alcun simbolismo (ma secondo me lo disse
solo per fare il figo con quelli del comitato del Nobel).
Tutto qui? Tutto qui. È vero che stiamo parlando di
Hemingway, ma in 140 pagine spiega il segreto della vita, che doveva mettere
più, pure dove si trova il Santo Graal?
Piccola curiosità per gli amanti della filologia più spinta.
La traduzione italiana del romanzo è stata curata da Fernanda Pivano, la grande
traduttrice però, vuoi perché era amica di Hemingway, vuoi per eccesso di
fiducia, fece un errore abbastanza grossolano: rese dolphinfish (lampuga) con delfino.
Fatto sta che, nell’edizione italiana, Santiago pesca un delfino e gli leva le
branchie (che ovviamente non ha).
Ma cosa ci resta di Hemingway alla fine di questo libro?
Beh, stando a una recente statistica, in Italia ci sono più scrittori che
lettori (il fatto che stia scrivendo questo post invece di leggermi l’ultimo
libro dei Cesaroni ne è la prova più
evidente). Lo scrittore statunitense però può essere un rimedio a tutto ciò,
per esempio quando ci viene voglia di prendere la penna e scrivere qualcosa di
diverso da «Ci vediamo più tardi. Il cane ha già fatto pipì», apriamo un libro
di Hemingway e leggiamo due pagine a caso, poi ci porgiamo la domanda: «Sono in
grado di scrivere qualcosa che assomigli anche solo molto lontanamente a
questo?». Se la risposta è no, allora chiudiamoci in uno sgabuzzino a
vergognarci per aver inviato il nostro manoscritto a Masterpiece (non mentite, so che lo avete fatto).
Già, perché Hemingway è la quintessenza della Letteratura; è il Novecento che
risponde all’Ottocento che l’epoca dei grandi romanzi non è ancora finita; è il
prototipo dello scrittore sopra le righe prima che Andrea Pinketts si rovinasse
con Mistero; è la coerente contraddizione
che ama la natura ma non disdegna di farsi una corsettina coi tori a Pamplona;
è Picasso un po’ più alcolista e un po’ meno allegro.
Questa è naturalmente solo la mia opinione, ma, essendo il blog per sua natura
l’istituzione più vicina alla monarchia teocratica, fatevela andare bene così.
Allora, la prossima
volta che vi prenderanno in giro per la
vostra statura ricordate che un
raccontino di manco 200
pagine ha vinto il Nobel e soprattutto ricordate dove è
arrivato Brunetta nonostante il suo evidente problema (oltre
il fatto che sia
anche basso).
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