lunedì 2 marzo 2015

La figura in Dante: Mi hanno puffato la Commedia!

Fin quando succede agli altri sei convinto che a te una cosa del genere non possa accadere mai. Arrivi persino a pensare che si tratti di una leggenda metropolitana, tipo il tizio che cade dalla moto e quando si toglie il casco gli si apre la testa in due come un melone. Insomma, una di quelle cose impossibili da crederci ma che in fondo in fondo un brividino lungo la schiena te lo fanno venire comunque. Sto parlando del lavoro.

La prima proposta di lavoro è un po’ come la pubertà: il giorno prima dici «Che schifo le femmine!» e il giorno dopo ti muri vivo in bagno Monaca di Monza Style che i tuoi genitori devono chiamare i guastatori del Battaglione San Marco per tirati fuori di lì. Accade tutto all’improvviso. Ti coglie di sorpresa mentre la cassiera della salumeria ti sta dando il resto in Goleador sotto tua esplicita richiesta e non importa che tuo padre alla tua età già c’aveva un mutuo sulle spalle e che il resto ammontasse a 38 euro. Le responsabilità ti chiamano quando meno te lo aspetti.

A me hanno chiamato una mattina di novembre. Sul cellulare. 
Quando una scuola ti chiama per la prima supplenza della tua vita ti rendi conto che le giornate intere passate a guardare Ritorno al futuro e Star Wars non sono state del tutto perse. Già, perché capisci subito che le segreterie delle scuole si trovano in una dimensione parallela dove il concetto di spazio-tempo non risponde assolutamente alle leggi della fisica quantistica.

Per farvi capire meglio vi riporto la telefonata.

Io - «Pronto?»

Universo Parallelo delle Segreterie Scolastiche - «Buongiorno, la chiamo dall’Istituto Comprensivo Bilbo Baggins della Terra di Mezzo (ometto il nome e località per evitare ritorsioni). È disponibile per una supplenza?»

Io - «Certo. Quando devo venire?»

UPSS - «La lezione doveva iniziare 10 minuti fa. La aspettiamo»

Io - «Guardi io abito a 300 chilometri da voi, non so se…»

UPSS - «Allora faccia presto».

Clic.

E così abbracci parenti e amici e con una lacrima che scende sulla guancia dai l’ultimo morso alla Goleador e sali in macchina per la prima supplenza della tua vita.

Dopo mezz’ora di viaggio capisci che forse non sei stato proprio oculatissimo nella scelta delle scuole a cui dare la tua disponibilità. Il TomTom infatti dopo appena dieci minuti di viaggio ti fa lasciare l’autostrada per farti prendere una serie di strade di montagna che ti domandi se la tua laurea valga pure nel Wyoming. Finalmente, dopo aver chiesto una settantina di informazioni a passanti affetti da Alzheimer e aver disintegrato le sospensioni dell’auto a causa delle strade sterrate, arrivi a destinazione. Mentre vedi il TomTom in lontananza avviarsi a piedi verso la stazione ferroviaria più vicina.

Guardandoti intorno la prima cosa che ti domandi è se durante la notte qualcuno ha rubato il resto del paese, visto che trattasi di dieci case in una valle in mezzo al nulla più assoluto. Con questo dubbio ti avvii verso la scuola, dove vieni accolto dalla dirigente che ti fa notare ripetutamente che sei arrivato in tempo solo per l’ultima ora, ignorando completamente i tuoi tentativi di spiegarle che nel mondo civilizzato non hanno ancora inventato il teletrasporto e che comunque inserendo le coordinate della scuola su Google Maps appare un immenso, enorme punto interrogativo.

E così scopro che l’Istituto Comprensivo Bilbo Baggins della Terra di Mezzo ha solo una sezione e tre classi. «È la prima» dice laconicamente la dirigente prima di aprire la porta e darmi uno spintone per farmi entrare in aula. Appena mi vedono, i bambini si alzano in piedi per una standing ovation e lì capisco di essere un pochino nel panico, visto che la prima cosa che mi esce di bocca è: «State seduti, mica ho cantato una canzone».

Fra gli sguardi un po’ perplessi dei bambini cerco di prendere tempo tentando di ricordare cosa facevano i miei professori appena entravano in classe. Per cui comincio con l’appello. Essendo la Terra di Mezzo un paesello di 300 abitanti (250 dei quali testimoni oculari del Risorgimento), il registro più o meno era questo:

  1. Pulcini Andrea
  2. Pulcini Annamaria
  3. Pulcini Davide
  4. Pulcini Giovanna 
...

All’ennesimo “Pulcini” non ce l’ho fatta e ho detto: «Tutti figli della stessa gallina?», rendendomi subito conto che il senso dell’umorismo è legato soprattutto all’età. Tuttavia non è che mi fossi sbagliato molto, infatti ho scoperto poco dopo che in classe avevo: la figlia della preside, il figlio della bidella, i gemelli della segretaria, la nipote del sindaco, il nipote del fabbro e un certo Ahmed Akbar che il primo istinto appena letto il suo nome sul registro era di chiedergli: «Ma mamma e papà come hanno fatto a venire qui dall’Egitto che io mi sono perso dodici volte?».

Nei 45 minuti successivi ho fatto un sacco di scoperte interessanti che all’università mica ti spiegano, eh. Tipo:
  • Le ore scolastiche durano appunto 45 minuti
  • Alla fine di ogni ora i bambini fanno 15 minuti di ricreazione durante la quale tirano fuori dai loro zaini viveri a sufficienza ad eliminare per 10 anni il problema della fame in Darfur
  • Il libro di antologia è diviso in due: antologia vera e propria e approfondimento e se ti sbagli a chiamare entrambi “antologia” rischi un ammutinamento della classe e l’impiccagione all’albero più alto
  • Nelle aule ci sono le LIM, le lavagne interattive multimediali, prodigiosi strumenti su cui si può scrivere, interagire, proiettare video e testi. Peccato che l’età media degli insegnanti sia 86 anni, per cui la voglia di metterti a leggere un manuale d’istruzioni pesante come un disco dei Tiromancino un pochino ti passa
Ma forse la cosa più interessante è stata osservare certe dinamiche che fin quando sei seduto tra i banchi ti sfuggono ma dall’altra parte invece sono chiarissime. Ho notato infatti che ogni bambino in classe ha la sua caratteristica: c’è quello grassottello e simpatico; il belloccio che ha il nome scritto sui diari di tutte le ragazzine della classe; quella al primo banco perennemente innamorata che tira più sospiri di un geyser islandese; i due all’ultimo banco che hanno costituito un principato indipendente…

Mentre chiamavo l’Unità di crisi della Farnesina per tornare a casa, mi sono messo a riflettere sul fatto che in fondo in fondo un insegnante pure se passa cinque anni con la stessa classe alla fine non può mai dire di conoscere i suoi studenti perché fin quando stanno in aula hanno una serie di restrizioni, riescono a esprimere solo una parte del loro carattere, sono “piatti”. Come i personaggi della Commedia di Dante.

Ora, prima di chiamare il Telefono azzurro per il giudizio sui bambini e il Ministero della Pubblica Istruzione (sì, non si chiama così ma se scrivo MIUR pare un antibiotico ad ampio spettro) per farmi togliere la laurea, fatemi spiegare.

Quando ho letto per la prima volta la Commedia (non è che ce l’ho sul comodino e la leggo prima di addormentarmi, è solo che ci ho fatto due tesi), da persona con la coscienza sporca mi è subito sembrata strana una cosa: i peccatori, i penitenti e i beati sono puniti o premiati per un solo peccato o virtù.

Mi spiego meglio.

Mediamente una persona si alza alle 7 di mattina per andare a lavorare o studiare e alle otto meno un quarto ha già commesso peccati tali per cui si è giocato l’eternità sua e di tutti i discendenti fino alla dodicesima generazione. La domanda è: come fa Ciacco, per esempio, a stare solo nel girone dei Golosi? Nella vita sua non ha mai commesso altri peccati? Nessuno gli ha mai tagliato la strada col calesse? Nessun call center l’ha mai chiamato a orario di cena per offrirgli una tariffa vantaggiosissima sui piccioni viaggiatori?

I casi sono due: o effettivamente Ciacco si è seduto a tavola a sei anni e si è alzato direttamente a cinquanta oppure i personaggi di Dante mancano di spessore e quindi siamo costretti a rivalutare tutta la Letteratura italiana da Moccia a Giovanni Veronesi.

Per capire meglio la situazione dobbiamo fare un piccolo salto indietro. Di 2000 anni.

Quando il Cristianesimo ha cominciato a diffondersi in Europa ci si è trovati di fronte a un problema di difficile soluzione. I fedeli avevano due libri sacri: la Bibbia degli Ebrei e i Vangeli. Ora, vaglielo a spiegare un uomo del Medioevo nato in Scandinavia la questione teologica che doveva attenersi a un libro scritto 3000 anni prima in una zona desertica dell’Asia perché Gesù nella sua vita vi fa continuo riferimento… l’uomo del Medioevo era un tipo che andava abbastanza per le spiccie, il suo ragionamento di base era: «Ok, tutto molto interessante. Ma io che c’entro con un popolo che gira per 40 anni nel deserto se io manco uno stabilimento balneare ho mai visto?». Insomma, considerato il contesto, tutti i torti non ce l’aveva.
Gira che ti rigira, pensa che ti ripensa, la soluzione fu data dai Padri della Chiesa ed effettivamente fu davvero un colpo di genio. I santi uomini infatti se ne uscirono così: «Gente, l’Antico Testamento non è altro che il prequel del Nuovo». Ecco, magari non proprio in questi termini, ma ci siamo capiti.

Cosa volevano dire? Semplicemente che tutto quello che è scritto nell’Antico Testamento è figura del Nuovo, cioè è una prefigurazione di quello che poi sarebbe accaduto con Gesù e gli Apostoli. 

«Quindi tutto il Vecchio Testamento è un’allegoria del Nuovo?» direte voi (e l’ho detto pure io quando l’ho letto per la prima volta). No, se così fosse i Padri della Chiesa non si meriterebbero l’Oscar per la Miglior sceneggiatura non originale.
La figura non è un’allegoria, ma è qualcosa che accaduto realmente che anticipa qualcosa che avverrà in futuro. La figura in pratica è Dio che gioca con un puzzle: fa avvenire determinate cose, cioè incastra determinati pezzi, in modo che altri pezzi possano essere inseriti, cioè che altri avvenimenti possano verificarsi.

Per farvi un esempio: Abramo stava veramente per accoppare suo figlio perché una voce gliel’aveva ordinato tipo Charles Manson (fosse successo ai giorni nostri già avrebbero fatto il plastico della pietra sacrificale e la ricostruzione disegnata dell’angelo che blocca la mano di Abramo), ma il suo gesto non era altro che la prefigurazione del sacrificio di Cristo sulla croce.

«E che c’entra tutto questo con Dante?», c’entra, c’entra.
Nel Medioevo sta cosa della figura era di dominio pubblico, i preti ci facevano i sermoni, quindi la conoscevano sia i letterati che i contadini (quindi fate poco gli splendidi quando parlate di concezione figurale), anche se non è che fosse ben chiaro dov’è che finiva l’allegoria e dove invece iniziava la figura.
Chi aveva le idee chiare in proposito era proprio il nostro amico Dante, che sulla figura ci ha costruito tutto il poema dimostrando ancora una volta che il diritto di essere il primo autore che si studia a scuola te lo devi meritare.

La Commedia praticamente è tutta incentrata sulla figura, come ha dimostrato Erich Auerbach (non l’ho citato perché fa figo, ma per un fatto affettivo visto che ci ho fatto la tesi della triennale), solo che Dante ha un’idea geniale: applica la figura non solo ai personaggi biblici ma la estende a tutta l’umanità. Lui per primo. Infatti Enea, San Paolo e Ulisse, cioè tutti quelli che erano scesi negli Inferi prima di lui, sono figura di Dante (e Dante quindi è compimento). Allo stesso modo la Madonna è figura di Beatrice, visto che è portatrice di salvezza.

Senza la figura i personaggi della Commedia soffrirebbero della sindrome del Villaggio dei Puffi, come l’ha chiamata coso. Nel Villaggio dei Puffi ogni abitante ha una e una sola caratteristica: Quattrocchi, Forzuto, Vanitoso, Golosone, Inventore, Brontolone… dimostrando tra l’altro che i genitori dei Puffi avevano una grandissima fantasia in fatto di nomi.
Allo stesso modo i personaggi di Dante hanno una sola caratteristica che li contraddistingue: Ciacco è goloso, Farinata è eretico, Stazio è avaro, Guido Guinizzelli è lussurioso… insomma, come se sta gente dalla mattina alla sera facesse sempre la stessa cosa.

Pier della Vigna con alcuni colleghi nel Girone dei Suicidi
In realtà nella visione dantesca ognuno di noi è figura di ciò che sarà nell’aldilà. In pratica noi sulla terra siamo come delle ombre, il nostro adempimento, la nostra essenza, il nostro compimento, è quello che saremo dopo il trapasso. Se la nostra ragione di vita è stata accumulare denaro, poco importa che pesiamo 300 chili o che abbiamo tradito la fiducia dei familiari: il girone che ci attende è quello degli Avari. Solo guardando le cose in questo modo possiamo spiegarci come mai Dante trasforma Pier della Vigna in una pianta grassa perché si era suicidato e Catone per lo stesso motivo viene promosso a guardia del Purgatorio (che tra l’altro era pure pagano).

Dante ha saputo costruire il più grande capolavoro dell’umanità (adesso sto in piedi sulla sedia mentre applaudo commosso) non solo per la struttura metrica, per il simbolismo numerico o semplicemente per la fantasia. Dante ha composto per davvero un poema sacro perché ha voluto dimostrare che c’è una scintilla divina in ognuno di noi, che siamo tutti parte di un immenso puzzle in cui ci incastriamo perfettamente gli uni con gli altri, che tutto l’universo è costruito su un formidabile e delicatissimo equilibrio ma nonostante tutto non c’è predestinazione perché il destino non esiste, esistono solo delle scelte e la vita di Dante stesso lo dimostra. Tutti possiamo perderci nella selva oscura e tutti possiamo uscirne se abbiamo la volontà necessaria e se permettiamo di farci aiutare.

A tal proposito mandatemi qualcuno a prendere, che il TomTom è già arrivato a casa e in giro non si vedono elicotteri della Farnesina. Mi riconoscete subito: sono quello che sta masticando una Goleador in mezzo al nulla.


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