domenica 22 novembre 2015

Metti che vado un attimo in Siberia (ovvero #dimmicosaleggi #diecilibri)

Peggio della Cavalleria rusticana, raccolgo l’invito fatto dai
ragazzi di LegendaLetteraria e mi unisco anch’io all’hashtag (sì, davanti alla acca ci vuole l’apostrofo, ho controllato sul sito della Crusca) #dimmicosaleggi e #diecilibri.
Giustamente vi starete chiedendo di cosa stiamo parlando. 
Inizialmente avevo capito che dovevo buttare giù una lista di dieci persone che arei voluto mandare in Siberia, il che mi ha provocato non pochi disagi fra gli amici e in famiglia appena ho reso noti i nominativi. Poi, rileggendo meglio l’invito, ho scoperto l’arcano: dovevo immaginare di andare io in Siberia (ma come, con tutta la gente che ci sta da mandarci devo proprio andarci io?), rinchiuso in una specie di baita, ma senza il fastidio di avere tirolesi intorno che mettono alla prova le tue capacità agiografiche facendo dell’ottimo jodel dalla mattina alla sera. Cosa puoi fare in queste circostanze? Ti unisci alla famiglia di Educazione siberiana? Vai a crepare di mazzate sul cranio dei poveri e indifesi cuccioli di foca? Cavalchi spensierato l’orso polare di Putin?
Capite bene che i divertimenti in queste circostanze sono un po’ pochini, così – sempre nella finzione – sono costretto a portarmi 10 libri di cui proprio non farei a meno.
Sì, lo so che voi starete dicendo «Ma portati il biglietto per il ritorno», «Portati una stufa», «Portati il pisolone», «Portati Barbara D’Urso», «Portati la maglia di lana» (quest’ultima è suggerita da mia madre).
Oh, ma lo scopo dell’hashtag è quello di farmi nominare 10 libri. Per cui ecco la mia Siberian-glacial-c’ho-le-dita-dei-piedi-che-sembrano-calippi-frizz-top-ten:

  1. La Divina Commedia di Dante Alighieri. Che volete, ragioni affettive, culturali, il fatto che essendo bella lunga mi vale già tre libri…
  2. Opinioni di un clown di Heinrich Böll. Nonostante il titolo da filmone sovietico sottotitolato in cecoslovacco, è un libro che consiglio di leggere. Sì, pure a te che leggi il mio blog
  3. Bar sport di Stefano Benni. La prima volta che l’ho letto era in pubblico e la gente mi aveva preso per un imbecille perché ridevo da solo. Poi ho smesso di ridere ma non è che le cose sono cambiate tantissimo
  4. Fiesta di Ernest Hemingway. Lo porterei solo per una ragione: chi viaggia solitamente è tentato di scrivere e pubblicare i suoi pensieri. Ecco, leggendolo capirei che non posso arrivare al suo livello, per cui eviterei di ammorbare la gente con frasi tipo: «Gli ultimi sfavilli sanguigni zampillavano sull’infaticabile lavorio dei flutti» parlando dei 15 giorni che ho trascorso a Mondragone da zia Nunziatina
  5. Fight club di Chuck Palahniuk. Avete presente quando vi dicono che il libro è meglio del film?
  6. Il vangelo secondo Gesù Cristo di José Saramago. Il modo migliore per eliminare ogni tipo di conflitti e preconcetti di natura religiosa
  7. Sostiene Pereira di Antonio Tabucchi. Per questo non ce l’ho una motivazione. È un capolavoro e basta
  8. Il cavaliere inesistente di Italo Calvino. Lo porterei per ricordarmi che in fondo posso pure vivere senza Facebook e social network in generale
  9. Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez. Per ricordarmi i bei tempi in cui esistevano anche Marquez simpatici che non facevano biscotti
  10. Una ballata del mare salato di Hugo Pratt. No, non lo chiamate “fumetto” che vengo a casa vostra a sostituirvi la carta igienica con quella moschicida


Arrivati a questo punto la leggenda vuole che passi la palla a qualcun altro, per cui eccovi le due blogger (serie, non come me) che coinvolgo in questo hashtag (effettivamente Catena di Sant’Antonio faceva un pochettino schifo come nome):

                                                    Appuntuario


















venerdì 11 settembre 2015

Il Deserto dei Tartari: Non il solito parmigiano

Fra di noi ce lo possiamo anche dire liberamente: francamente sta faccenda dell’Expo ci sta sfuggendo un pochettino di mano. Mica lo dico con il solito spirito di quello che deve andare controcorrente per forza, quel posto già me l’ha rubato Andrea Scanzi (maledetto!). È solo che da quando l’hanno inaugurato si parla solo di quello. Dovunque. Ne parla Corrado Augias su Repubblica, ne parla Maurizio Belpietro su Libero, ne parla Selvaggia Lucarelli dove le capita, ne parla la conduttrice di Mezzogiorno Italiano (non lo conosco il nome, ma sono abbastanza sicuro che neanche in Rai lo sanno). Da fonti attendibili sembra che ne parlino anche le donnine nude sui canali privati che pubblicizzano i servizi di hotline (sì, ci sono ancora gli amanti dell’onanismo 1.0).
Insomma, non dico che non se ne debba parlare, ma dopo l’ennesima, quotidiana, intervista al Commissario Unico dell’Expo ti senti un pochino come se qualcuno ti avesse infilato un Nicer Dicer nelle mutande.


A parte questo, non capisco tutte queste polemiche per l’Expo, soprattutto quando il suo obiettivo è quello di dare una mano a risolvere il problema della fame nel mondo: è assolutamente evidente che far pagare una pizza margherita 15 euro o prendere un ottimo sorbetto al fiore sacro dell’Himalaya nel padiglione Nepalese per la modica cifra di 88 euro è il metodo più rapido ed efficiente per aiutare le popolazioni che soffrono la fame. Praticamente è come ambientare la nuova stagione del Boss delle cerimonie direttamente nel quartiere povero di Kabul.
Personalmente, a parte il martellamento costante, quello che mi dà veramente sui nervi è il continuo mettere l’accento sull’eccellenza italiana: va bene quando si parla di parmigiano e anguille fritte, ma se si parla negli stessi termini anche delle persone...

Già, non so se ve ne siete accorti, ma da quando è cominciato l’Expo è tutto un invitare gente che dieci anni fa ha lasciato l’Italia perché qui gli avevano detto che tre lauree e cinque master c’erano buone probabilità di essere assunti a tempo determinato, part-time, come rappresentante del Folletto (con tutta la stima e la simpatia per la categoria), mentre adesso si devono accontentare di dirigere il CERN di Ginevra e sparare nano particelle alla velocità della luce per carpire i segreti dell'universo. Cioè, funziona un po’ come quando la ragazza dei vostri sogni si mette finalmente con voi dopo anni passati sulla linea Maginot del corteggiamento-stalking e poi lei non fa altro che parlare del suo ex. Non un’esperienza delle più appaganti.

Ma poi perché si parla solo dell’eccellenza quando qui abbiamo il fior fiore di gente mediocre che insegna nelle università, opera a cuore aperto, fa l’opinionista in televisione o scrive su blog di letteratura parlando delle costole di D’Annunzio? Che forse la mediocrità non sia degna di attenzione? La gente mediocre forse non merita un posto nella storia? «Vabbè - direte voi - se uno è mediocre non ha fatto grandi cose». Eppure, amici miei, il mediocre ha il suo fascino. E non sto parlando di roba intellettuale tipo l’inettitudine di Svevo: lì già siamo a un livello superiore, lì abbiamo persone che almeno ci hanno provato. Mi sto riferendo invece a gente che nella vita è stata assolutamente ferma, non si è mai mossa di un millimetro. Possibile raccontare la storia di un personaggio del genere ed essere annoverati fra gli scrittori più influenti del Novecento?
La risposta è sì e l’uomo che ci è riuscito è Dino Buzzati con Il deserto dei Tartari.


«Dino chi?». Già, purtroppo Dino Buzzati non è fra gli autori più studiati a scuola, pure perché è difficile farlo rientrare in una corrente o una scuola di pensiero ben definita, quindi l’unico modo per conoscerlo è comprare qualche suo libro. 
Come direbbe il protagonista di Rocky Horror Picture Show non bisogna giudicare un libro dalla copertina ma in effetti è quello che facciamo un po’ tutti (provate a scrivere sulle diete e metterci Platinette in copertina e poi ne riparliamo). Di conseguenza il motivo per cui le opere di Dino Buzzati siano un’esclusiva per i cultori della Letteratura, da chiedere in libreria con la stessa discrezione con cui si chiederebbe al farmacista una cassa di Preparazione H, sta nelle scelte che i grafici delle case editrici operano per metterle sul mercato: paesaggi brulli, castelli giallo-ocra, personaggi senza volto… Vabbè che il libro si chiama Il deserto dei Tartari e che una foto di Scarlett Johansson stonerebbe in pochino, però così alla gente le fai addormentare ancora prima di leggerlo sto libro.

Visto che normalmente se durante una conversazione sulla Letteratura si cita Dino Buzzati improvvisamente compare dal nulla un immenso punto interrogativo luminoso di 3x2 metri, prima di capire perché devo comprare un libro con una copertina orribile, ci conviene dare una brevissima occhiata alla vita di questo autore.
Dino Buzzati nacque nel 1906 vicino Belluno da una famiglia di umili origini, infatti il padre era un celebre giurista dell’epoca, la madre apparteneva al patriziato veneziano e il nome Dino gli fu dato in  ricordo di un suo zio scrittore, Dino Mantovani, citato anche da Benedetto Croce in una sua opera (e io che spero ancora di essere taggato un giorno da Gianni Morandi). Il giovane Dino prima ancora di finire i suoi studi in giurisprudenza comincia a lavorare al Corriere della Sera e non come stagista addetto alle fotocopie pagato in caffè e schiacciatine olive e pomodoro del distributore della redazione. No, ci lavora come titolista, cioè quello che sceglie i titoli degli articoli. Un pochettino più in basso del direttore praticamente.
Nel frattempo si dedica anche alla scrittura, stimolata anche dalle esperienze lavorative, infatti lavora al Deserto dei Tartari mentre è corrispondente ad Addis Abeba nel 1940. Tuttavia la sua carriera letteraria era iniziata nel 1933 con Bàrnabo delle montagne, un romanzo che ha una carica di magone pari a 14 R.M.M. (Romanzi di Margaret Mazzantini, scala internazionale per classificare i libri che provocano un irresistibile voglia di aprire i rubinetti del metano e inalarne fortemente l'aroma).
Nel corso degli anni pubblica una serie di romanzi e racconti che vengono quasi ignorati dalla critica italiana, mentre in Francia il nostro Dino diventava quasi un eroe nazionale per Il deserto dei Tartari. Valli a capire i francesi, magari lì i grafici delle case editrici sono un po’ più allegri.
Ma cos’è che spinge i grafici italiani a realizzare delle copertine orrende per il capolavoro di Buzzati?

Effettivamente sulle prime Il deserto dei Tartari è un romanzo che ci lascia un po’ perplessi: non si sa dove è ambientato, non si sa quando è ambientato, fino a un certo punto non è chiaro chi sia il protagonista.
«Ah, ma allora sarà pieno di azione». Bene, mettetevi un attimo seduti perché devo farvi una rivelazione: in tutto il libro non accade quasi nulla.


Ora, so che state pensando che sarà uno di quei polpettoni stile film intimista francese ambientato in una sola stanza in cui i protagonisti si dicono sì e no tre parole ma in compenso si scambiano degli sguardi carichi di significati che per lo più sfuggono al povero spettatore che voleva solo guardare il film dei Minions ma ha sbagliato sala.
Non ci crederete ma non è così. E allora di cosa parla sta benedetto romanzo?


Giovanni Drogo è un giovane ufficiale che viene mandato, come prima destinazione, alla Fortezza Bastiani, un avamposto ai confini dell’impero (di cui non conosceremo mai il nome, ma potrebbe essere l’Impero austro-ungarico) e che si affaccia su una sterminata pianura che tutti chiamano il deserto dei Tartari (in realtà però in tutto il romanzo si vede meno Tartaro che in una pubblicità di dentifrici).
Adesso immaginate sto ragazzo che si trova a due giorni di viaggio a cavallo da casa sua (e qui potremmo pensare che la storia è ambientata fra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento), in mezzo al deserto, senza un piffero da fare. Naturalmente la prima cosa a cui pensa il nostro eroe è tornare a casa il prima possibile, però gli viene fatto capire che chiedere il trasferimento dopo appena un giorno potrebbe pregiudicare la sua carriera di ufficiale, per cui il maggiore Matti, capo della fortezza, gli consiglia di attendere quattro mesi e poi farsi trasferire per motivi di salute.


Controvoglia allora Drogo decide di rimanere alla fortezza e scopre che al suo interno la vita si svolge secondo dei riti quotidiani sempre uguali. Ma la cosa che stupisce di più Giovanni è il fatto che quasi nessuno dei suoi nuovi compagni sembra desideroso di essere trasferito, anzi tutti sembrano sperare che prima o poi dal deserto un giorno arrivino i nemici e tutti potranno avere il proprio momento di gloria.
«Ma com’è che un romanzo pieno di soldati viene considerato appartenente al genere fantastico?». Un attimo che ci arrivo.


Passano quattro mesi e finalmente Giovanni ha l’occasione di tornare a casa, ma nel momento in cui il medico sta per firmare il certificato di inabilità Drogo lo ferma: da una finestra la fortezza gli appare bellissima e immensa. Ha contratto anche lui la malattia della fortezza, un morbo che sembra colpire tutti gli abitanti dell’avamposto, un misto di amore e odio che rende quasi impossibile abbandonare la fortezza.
E qui già stiamo praticamente a metà del libro e non è successo nulla. Il vuoto pneumatico.


Dopo quattro anni Giovanni torna a casa ma tutto è cambiato: i fratelli vivono ormai lontano, la madre si è disabituata alla sua presenza, quando va a trovare la sorella di un suo amico per cui nutriva una certa simpatia si svolge un dialogo che nemmeno nei migliori ascensori condominiali quando incontri la vecchietta del terzo piano, mentre il suo Yorkshire sta vivendo un’intesa storia d’amore col tuo polpaccio.
Durante questa vacanza però decide comunque di fare un tentativo, senza troppa convinzione, presso un generale per essere trasferito e qui scopre che il personale della fortezza sta per essere drasticamente diminuito, infatti molti suoi compagni avevano fatto domanda di trasferimento, senza che lui ne sapesse nulla. 


A un’ottantina di pagine dalla fine sembra che finalmente ci sia una svolta: fra le nebbie del deserto qualcosa si muove. Tutti sono euforici, forse è la grande occasione che stanno aspettando (sono pacifista ma immagino che qualsiasi cosa fosse meglio di stare alla fortezza senza sapere come va a finire The Big Bang Theory). La grande eccitazione però è destinata a durare poco, infatti si scopre che “il nemico” (no, non sono i Tartari) sta costruendo una strada per motivi civili.
Gli anni continuano a passare e Drogo ormai è vecchio e ammalato, convinto che la sua vita sia trascorsa invano. Eppure qualcosa accade: l’esercito del Nord muove guerra contro l’impero. Giovanni vorrebbe dare una mano, riscattare la sua vita, dare un senso a tutti quegli anni passati alla fortezza.
Lo aspetta una morte in battaglia?
Lo aspetta guidare l’esercito alla carica contro i nemici?
Gli tocca gridare «Questa è Sparta!» vestito da generale austro-ungarico con tanto di pennacchio in testa?


No. Semplicemente viene rispedito a casa che manco un pacco della DHL e non tanto perché è malato, ma perché, visto che la fortezza sarà l’epicentro della guerra che sta per iniziare, serve spazio per accogliere i soldati che stanno arrivando.
Insomma, bastava chiamare un architetto dell’IKEA che ti spiegava come sfruttare tutti gli spazi e  il gioco era fatto.

E questo era Il deserto dei Tartari.
Sinceramente raccontato così non è che sto romanzo sia un granché. Ma prima di archiviarlo alla voce: Cose che fa figo citare senza averle lette mai, vediamo perché uno si dovrebbe prendere la briga di affrontare un autore che a scuola non viene nominato neanche sotto tortura.

Il problema del Deserto dei Tartari è che appartiene a quella categoria di libri di cui è impossibile raccontare la trama senza fare un’accurata quanto abrasiva (sapete a cosa mi riferisco) analisi delle tematiche.
Nonostante per tutto il tempo non accada un fico secco (ci sono due morti: una per assideramento e un’altra per un incidente), arrivati alla fine di un capitolo non possiamo fare a meno di leggere quello successivo. Vi concedo che questo può accadere per vedere dove vuole arrivare l’autore, che in ogni caso ha portato a casa il risultato.

Spesso si cita questo libro come un esempio di letteratura fantastica, eppure le uniche cose “magiche” che accadono sono la fantomatica malattia della fortezza, per la quale onestamente basterebbe un bravo psicologo, e un sogno premonitore fatto da Drogo a proposito della morte di un suo compagno.
Giovanni Drogo non è bello, non è particolarmente coraggioso, non ha capacità speciali, non possiede poteri sovrumani. È un ragazzotto della buona borghesia del suo Paese, qualunque sia, che per paura di fare cattiva impressione sui suoi superiori decide di restare alla fortezza.

Siete ancora meno convinti e non comprereste un libro del genere nemmeno se si decidessero a mettergli una copertina decente?
Allora mettiamola così: senza voler andare troppo ad analizzare la poetica di Buzzati, senza voler troppo andare a ravanare nei temi dell’angoscia, della solitudine, della magia e così via… quanti pensate siano gli autori capaci di scrivere un libro dove non c’è azione e allo stesso tempo tenere il lettore incollato fino all’ultima pagina?


Ecco, stiamo cominciando a capirci. Nonostante le case editrici cerchino a tutti i costi di spacciarlo per un mattone impossibile da leggere, Il deserto dei Tartari è un’opera di una modernità allucinante. Se per un bambino è facile immedesimarsi in Harry Potter perché il gioco e la fantasia sono il suo pane quotidiano, quanto può essere difficile identificarsi in Drogo per una stagista che si sente non valorizzata dai suoi superiori, per un operaio che deve subire i capricci del suo datore di lavoro, per un impiegato che subisce in silenzio le angherie del suo capoufficio e comunque ha troppa paura di lasciare tutto e cambiare vita?
Allora capiamo davvero che Buzzati in un certo senso ha percepito in che direzione stavamo andando e ha saputo costruire una storia basata su un uomo mediocre e della cui mediocrità si riscatterà solo troppo tardi, al momento della morte, quando nella sua stanza scoprirà di non aver più paura di essa, dell’ignoto, dopo una vita passata ad osservarlo attraverso le nebbie del deserto dei Tartari.


Se non vi fidate di quello che sto dicendo e credete che Buzzati sia il solito sopravvalutato che qualche critico ha rispolverato per scriverci un saggio da affibbiare ai suoi studenti, considerate che nel 1969 pubblicò un libro dal titolo Poema a fumetti, che può essere considerata la prima graphic novel italiana (se consideriamo la Ballata del mare salato di Hugo Pratt strettamente come un fumetto) e comunque anticipando di parecchi anni gli americani.
E con questo vi ho dato un buon motivo per citare Dino Buzzati in un duello all’ultimo autore con qualsiasi blogger che tratti Letteratura (siamo la categoria di persone più litigiose dopo i motociclisti ubriachi dell’Alabama).

Ora però devo lasciarsi. Altrimenti mi si scioglie il sorbetto al fiore sacro dell’Himalaya.

domenica 7 giugno 2015

Luigi Pirandello: Misterioso nella notte va...

Ritratto pirandello
Gli esimi economisti intervistati da Unomattina in un orario comodo solo per i latitanti ce lo ricordano: è necessario che ognuno di noi faccia uno sforzo per far circolare la moneta e attivare quel circolo virtuoso che permetta di uscire da questo Medioevo economico e creare milioni e milioni di posti di lavoro.
Per questo motivo qualche mese fa, animato da fervente spirito patriottico e a fronte di decine e decine di lezioni private a studenti che mi chiedevano come facevano i crociati a pagarsi le crociere (sic), ho preso il coraggio a due mani e, sganciando 31,50 euro, ho comprato un Chromecast: il miglior acquisto della mia vita dopo il pupazzo di Darth Vader che muove il testone a ogni vibrazione (45 euro a Disneyland Paris, mi auguro che con quei soldi abbiano comprato solo supposte effervescenti).

DISCLAIMER

Se già conoscete il funzionamento del Chromecast potete saltare il seguente paragrafo. Se siete della Guardia di Finanza potete considerare la spiegazione che segue come frutto della mia fervida immaginazione.

Il Chromecast è un prodigioso apparecchio che somiglia a una penna USB che si collega alla presa HD del vostro TV (combo di sigle +900000 punti). In breve: attraverso questa pennetta potete navigare in internet col vostro televisore e vedere filmati da YouTube.
«Eh, bella scoperta! I nuovi televisori già lo fanno!».
Sì, caro amico con uno stipendio fisso che cerchi di mortificarmi mettendo in bella mostra la tua posizione sociale, hai assolutamente ragione, però, come dice San Marzullo, protettore dei metronotte e dei panettieri, fatti una domanda e datti una risposta: secondo te, facendo lezioni a 3 euro/ora due volte a settimana, posso permettermi una Smart TV? Ecco, ci sei arrivato da solo.
Ma andiamo avanti.
La leggenda narra che collegando questo apparecchio al telefonino (non fate come mio fratello che me l’ha riportato indietro perché il suo Nokia 3310 non gli si collegava) sia possibile navigare sui siti di streaming e vedere i film direttamente sul vostro televisore.

Ora, date queste premesse, non so voi, ma per me il Chromecast è stato come i Beatles per la generazione degli anni 60, come Sulla strada per quella degli anni 70, come Jeeg Robot d'Acciao per quella degli anni 80, come Postal Market per quella degli anni 90 (ma questo vale solo per i maschietti e nemmeno per tutte le pagine). Insomma, mi ha aperto le porte della percezione e mi ha rivelato un mondo di cui conoscevo l’esistenza ma ne ignoravo le delizie: l’universo delle serie TV.
Dal momento in cui ho montato questa pennetta dall’aria innocente ho visto tutte le stagioni di: GomorraOrange is the new black, Breaking Bad, Big Bang Theory, How I met your mother, The Walking Dead, 1992 (da un’idea, un tantinello discutibile, di Stefano Accorsi) e un’altra decina di cui non vi riporto i nomi perché già così non so se le major mi possono fare causa (o Stefano Accorsi).
Come un tossicomane vagavo per la rete alla ricerca di nuove serie di cui nutrirmi, quando ho iniziato a cercare su Google: CentoVetrine streaming ho capito di aver toccato il fondo e, piangendo in posizione fetale, ho urlato: «Come sono arrivato fino a questo punto?», mentre una pioggia scrosciante mi batteva. Nonostante fossi in casa e facesse 32 gradi.

Dopo aver riadattato gli occhi alla luce del sole mi sono reso conto che mentre ero nel mio limbo di camorristi zombie impasticcati in tute arancioni laureati in fisica che cercano di sposarsi facendosi venire idee da Stefano Accorsi, il mondo intorno a me era cambiato. Ho scoperto che:
  • L’astronave-madre è tornata a riprendersi Andreotti
  • La ruspa è diventata una filosofia di vita
  • La Cristoforetti ha dato una nuova sfumatura alla locuzione fuga di cervelli
  • Salvini ha fatto la stessa cosa
  • Colorado è considerato un programma comico
A parte tutto, quello che mi è dispiaciuto di più è stato perdermi tutti quei bei omicidi nostrani. Ah, quelle belle interviste al criminologo di turno, quelle pugnalate ruspanti, quelle martellate alla nuca, le interviste ai vicini che, con una faccia basita, dicono di fronte alla telecamera «Era una così brava persona», i sondaggi fatti ai vecchietti davanti ai cantieri della metropolitana che presi alla sprovvista non possono che affermare «Non si capisce più nulla. Ai miei tempi non succedevano queste cose».

Momento, momento, momento. Siamo sicuri che quello-che-saluta-sempre-la-vicina-ottantenne-ma-nel-frattempo-ha-fatto-a-pezzi-la-nonna-e-l’ha-congelata-nei-sacchetti-gelo-come-la-peperonata sia un fenomeno nuovo?

Ebbene amici miei, a confutare questa tesi non sarò io ma nientemeno che Luigi Pirandello.

Luigi Pirandello nasce ad Agrigento nel 1867 da una famiglia benestante, il padre, ex garibaldino, infatti si occupava della gestione di una miniera di zolfo.

L’istruzione elementare di Pirandello-baby avviene in casa, con dei maestri privati, successivamente si iscrive prima ad un istituto tecnico e poi al ginnasio. Qui il giovane Luigi si appassiona alla letteratura (la leggenda narra che all’epoca con la cultura ci si campasse abbastanza bene) e perciò decide di iscriversi prima all’università di Palermo, poi a quella di Roma ma si laureerà a Bonn.

Ma perché Pirandello finisce per laurearsi in Germania?

Tutto nasce durante una lezione di latino in cui un professore sbaglia a tradurre un passo, Pirandello e un suo amico prete se ne accorgono e cominciano a ridacchiare. Con il proverbiale aplomb del professore universitario (mi auguro che nessuno di loro legga questo post), questo comincia a urlare e ad insultare il giovane prete. Data l’evidente ingiustizia, Pirandello allora decide di alzarsi e rivelare a tutti il motivo di quelle risatine. Applausi a scena aperta.

Peccato che all’epoca non ci fossero gli smartphone, ragion per cui nessuno ha potuto caricare il video su YouTube e farlo circolare su Facebook e quindi farlo finire di diritto sulla pagina di Repubblica.it con il titolo: «Questo studente universitario si è tolto una bella soddisfazione. Ha detto al prof che…» costringendoti a cliccare sul link.

Il povero Luigi quindi finisce davanti Consiglio di disciplina dell’Università di Roma che lo obbliga ad abbandonare l’ateneo. Tuttavia un altro suo docente si era accorto delle potenzialità del giovane, per cui gli consiglia ad iscriversi all’Università di Bonn, in cui insegnava un suo carissimo amico che a quanto pare si occupava di meritocrazia.

Tornato in Italia, nel 1894 Pirandello sposa Maria Antonietta Portulano. E qui iniziano i guai.

Infatti nel 1903 la famiglia di Pirandello viene ridotta praticamente in miseria a causa di una frana in una miniera gestita dal padre. Il tracollo economico non aiuta la situazione psicologica di Maria Antonietta che già di suo circolava per casa di notte con un coltello in mano (provateci voi a dormire tranquilli con Jack Nicholson di Shining a fianco), in più le sue crisi di gelosia diventano patologiche, tanto che viene rinchiusa in un ospedale psichiatrico dove morirà nel 1959.

Ora, la domanda più stupida che si può fare a uno scrittore è: «C’è qualcosa di autobiografico nei tuoi romanzi?». Anche se mi metto a scrivere un racconto di fantascienza è ovvio che qualcosa di autobiografico c’è: l’ho scritto io! Quindi figuratevi se tutta sta storia della miniera e della moglie che andava in escandescenza non poteva non influenzare le opere di Pirandello.
Ragione per cui nel 1908 Luigi Pirandello pubblica un saggio dal titolo L’umorismo. Arrivati a questo punto del programma lo studente medio, già piagato da un anno scolastico all’insegna dell’allegria, in cui si è sciroppato Manzoni, Verga, D’Annunzio e Carducci, pensa: «Finalmente adesso si ride un po’». Sbagliato!

Dopo la lettura del saggio solitamente si prova un senso di solitudine e smarrimento che nemmeno in un documentario sovietico sulla vita sociale del lemure artico.

Pirandello in pratica dice: mettiamo che ipoteticamente un giorno inventino la televisione e mettiamo che trasmettano dei programmi. Mettiamo che fra questi programmi ce ne sia uno in cui persone di una certa età per arrotondare la pensione minima di 450 euro si prestino a fare determinate cose. Mettiamo anche che queste ipotetiche persone, dopo una vita di onesto lavoro, debbano truccarsi e vestirsi come dei dodicenni, nemmeno particolarmente brillanti, per far ridere il pubblico. Alla fine qual è il risultato?

  1. Il comico, cioè l’avvertimento del contrario: in pratica è la risata spontanea, di pancia. È quando ridiamo della situazione perché avvertiamo che c’è qualcosa che non va ovvero che va in contrasto con la realtà
  2. L’umorismo, cioè il sentimento del contrario: in pratica avvertiamo che c’è qualcosa che non quadra però dopo la risata spontanea ci mettiamo un attimo a riflettere sul perché un’ottantenne si veste come una delle Winx e questo ci provoca un sorriso malinconico perché, in fondo in fondo, la paura che prima o poi facciamo la stessa fine per mettere il piatto a tavola un pochino ce l’abbiamo
In pratica Pirandello si riferiva più o meno a questo:

Angela favolosa 1 586x332

Oh, naturalmente mi sono permesso di parafrasare un pochino.

Nel frattempo Pirandello, dopo una breve parentesi verista, scrive anche dei romanzi come  Il fu Mattia Pascal Uno, nessuno e centomila. Tuttavia non essendo ancora deceduto, requisito minimo per avere recensioni positive dai critici letterari italiani, le sue opere letterarie non vengono apprezzate, ma il nostro eroe ha un’altra passione, forse anche più forte della Letteratura: il teatro.
In pochi anni Pirandello sforna una produzione teatrale sconfinata: Liolà, Così è (se vi pare), Il berretto a sonagli, Sei personaggi in cerca d’autore e tantissimi altri titoli che porta in scena nei più grandi teatri italiani e stranieri, tanto che addirittura Albert Einstein volle conoscerlo nel corso di una tournée teatrale negli Stati Uniti.
Il successo di Pirandello fu tale che nel 1934 viene insignito del Premio Nobel. E io mi vanto ancora per la targa vinta alla corsa coi sacchi a nove anni. 


Veniamo però alla nostra rubrica dal titolo Controversie. Nel 1924 Luigi Pirandello scrive una lettera a Benito Mussolini pregandolo di accettare la sua iscrizione al Partito Fascista.
Adesso, sta cosa del rapporto tra fascismo e Pirandello non si è mai risolta né la risolveremo su questo blog (eddai, vi sembro il tipo?) però vi riporto le interpretazioni che sono state fatte.

  • Pirandello aderì al fascismo perché era di famiglia risorgimentale e forse considerava Mussolini l’uomo della provvidenza (non sarebbe stato l’unico), capace di risollevare la situazione italiana
  • Pirandello aderì al fascismo per non avere problemi col regime (se fosse vera questa ipotesi Pirandello oltre a prevedere la deriva della televisione italiana avrebbe previsto anche quella del regime fascista)

Forse si tratta di un po’ tutte e due i fattori, non lo sapremo mai. Fatto sta che nonostante l’omicidio Matteotti (dopo il quale addirittura Giovanni Gentile prenderà le distanze da Mussolini), nonostante Pirandello fosse tra i primi firmatari del Manifesto degli intellettuali fascisti e nonostante avesse donato la medaglia del Nobel per la raccolta dell’oro alla patria (a dire la verità partecipò pure Benedetto Croce che era antifascista), il regime lo trattò sempre con un certo distacco.

Certo, a Mussolini faceva comodo un nome di risonanza internazionale che si dichiarava apertamente fascista, però gli preferì sempre D’Annunzio, tant’è vero che gli verrà imposto di curare la regia teatrale della Figlia di Jorio di D’Annunzio. Che è un po’ come comprare quei dischi Mina canta Toto Cutugno. Solo che a Mina nessuno l’ha costretta, le canta davvero lei per scelta!

Ma perché i fascisti non apprezzavano Pirandello più di tanto?
Il problema stava nel fatto che Pirandello aveva una concezione della vita considerata dal regime troppo borghese, in particolare non era ben vista la poetica delle maschere.

Il nostro Luigi è vissuto nel periodo d’oro della psicanalisi, per di più la malattia della moglie aveva molto influenzato il suo modo di vedere il mondo.
Pirandello ritiene che ognuno di noi indossa una maschera che gli viene imposta dalla famiglia, dalla società, dal nostro datore di lavoro o addirittura da noi stessi. Vale a dire che nessuno è ciò che sembra, ci conformiamo all’idea che gli altri si sono fatti di noi: studente, impiegato, maestra, ingegnere… Ecco perché salutiamo sempre quando incontriamo qualcuno nell’androne del condominio ma nel frattempo abbiamo macellato il nostro salumiere.

Quindi tutti sono infelici perché non sono liberi di essere loro stessi? Per Pirandello è proprio così, siamo destinati a trascinarci su questa terra facendo finta di essere ciò che non siamo, per cui potrebbe essere che Lapo Elkann nel chiuso della sua stanzetta legga saggi di fenomenologia dello spirito, Salvini sogni di viaggiare per il mondo in roulotte e Alberto Angela in gran segreto non si è perso un solo concerto di Miley Cyrus.
Naturalmente sta storia della maschera non è che possiamo utilizzarla con la Guardia di Finanza dicendo «Scusate, ma allora non avete letto Pirandello!» quando scoprono che mentre dichiariamo un reddito di 375 euro l’anno nel frattempo abbiamo la Lamborghini in garage.

Tuttavia una via d’uscita c’è. Per Pirandello infatti esistono tre possibili reazioni quando ci rendiamo conto che viviamo con una maschera appiccicata sul viso: 
  1. Reazione passiva: aspetto che la natura faccia il suo corso e mi rassegno
  2. Reazione umoristica: cerco di trarre vantaggio dalla maschera che indosso evidenziandone alcuni aspetti (è in pratica quello che accade nel Fu Mattia Pascal)
  3. Reazione drammatica: non mi rassegno e cerco di strapparmi la maschera, tuttavia non ci riuscirò mai per cui o divento matto o mi suicido (Uno, nessuno e centomila)

Lo so, lo so, in realtà nessuna di queste è una via d’uscita ma Pirandello appena gli toccavano le maschere si incazzava come Kenshiro a una riunione di condomino.

«Insomma, dobbiamo chiudere pure quest’anno scolastico col magone?» si domandano giustamente gli studenti di terza media e quinto superiore. Non proprio.
Le commedie di Pirandello sono piene di un umorismo vivace, il problema non sta tanto nel lessico di inizio Novecento, quanto nel trovare biglietti per il teatro a prezzi accessibili a studenti di scuole medie e superiori (e ai loro insegnanti precari).

Insomma Pirandello va letto e studiato perché più di altri è riuscito a prevedere l’evoluzione della società fino ai giorni nostri, fatta di profili Facebook falsi e fotografie a ogni singola pietanza per far vedere agli altri che ci stiamo divertendo, solo che contemporaneamente non riusciamo a godere veramente del momento. Le maschere di Pirandello sono ancora vive e vegete e le indossiamo ogni giorni senza saperlo.

E poi, oh, le sue opere vengono rappresentate ancora oggi in tutti i teatri del mondo. E non sono nemmeno nate da un’idea di Stefano Accorsi.


lunedì 2 marzo 2015

La figura in Dante: Mi hanno puffato la Commedia!

Fin quando succede agli altri sei convinto che a te una cosa del genere non possa accadere mai. Arrivi persino a pensare che si tratti di una leggenda metropolitana, tipo il tizio che cade dalla moto e quando si toglie il casco gli si apre la testa in due come un melone. Insomma, una di quelle cose impossibili da crederci ma che in fondo in fondo un brividino lungo la schiena te lo fanno venire comunque. Sto parlando del lavoro.

La prima proposta di lavoro è un po’ come la pubertà: il giorno prima dici «Che schifo le femmine!» e il giorno dopo ti muri vivo in bagno Monaca di Monza Style che i tuoi genitori devono chiamare i guastatori del Battaglione San Marco per tirati fuori di lì. Accade tutto all’improvviso. Ti coglie di sorpresa mentre la cassiera della salumeria ti sta dando il resto in Goleador sotto tua esplicita richiesta e non importa che tuo padre alla tua età già c’aveva un mutuo sulle spalle e che il resto ammontasse a 38 euro. Le responsabilità ti chiamano quando meno te lo aspetti.

A me hanno chiamato una mattina di novembre. Sul cellulare. 
Quando una scuola ti chiama per la prima supplenza della tua vita ti rendi conto che le giornate intere passate a guardare Ritorno al futuro e Star Wars non sono state del tutto perse. Già, perché capisci subito che le segreterie delle scuole si trovano in una dimensione parallela dove il concetto di spazio-tempo non risponde assolutamente alle leggi della fisica quantistica.

Per farvi capire meglio vi riporto la telefonata.

Io - «Pronto?»

Universo Parallelo delle Segreterie Scolastiche - «Buongiorno, la chiamo dall’Istituto Comprensivo Bilbo Baggins della Terra di Mezzo (ometto il nome e località per evitare ritorsioni). È disponibile per una supplenza?»

Io - «Certo. Quando devo venire?»

UPSS - «La lezione doveva iniziare 10 minuti fa. La aspettiamo»

Io - «Guardi io abito a 300 chilometri da voi, non so se…»

UPSS - «Allora faccia presto».

Clic.

E così abbracci parenti e amici e con una lacrima che scende sulla guancia dai l’ultimo morso alla Goleador e sali in macchina per la prima supplenza della tua vita.

Dopo mezz’ora di viaggio capisci che forse non sei stato proprio oculatissimo nella scelta delle scuole a cui dare la tua disponibilità. Il TomTom infatti dopo appena dieci minuti di viaggio ti fa lasciare l’autostrada per farti prendere una serie di strade di montagna che ti domandi se la tua laurea valga pure nel Wyoming. Finalmente, dopo aver chiesto una settantina di informazioni a passanti affetti da Alzheimer e aver disintegrato le sospensioni dell’auto a causa delle strade sterrate, arrivi a destinazione. Mentre vedi il TomTom in lontananza avviarsi a piedi verso la stazione ferroviaria più vicina.

Guardandoti intorno la prima cosa che ti domandi è se durante la notte qualcuno ha rubato il resto del paese, visto che trattasi di dieci case in una valle in mezzo al nulla più assoluto. Con questo dubbio ti avvii verso la scuola, dove vieni accolto dalla dirigente che ti fa notare ripetutamente che sei arrivato in tempo solo per l’ultima ora, ignorando completamente i tuoi tentativi di spiegarle che nel mondo civilizzato non hanno ancora inventato il teletrasporto e che comunque inserendo le coordinate della scuola su Google Maps appare un immenso, enorme punto interrogativo.

E così scopro che l’Istituto Comprensivo Bilbo Baggins della Terra di Mezzo ha solo una sezione e tre classi. «È la prima» dice laconicamente la dirigente prima di aprire la porta e darmi uno spintone per farmi entrare in aula. Appena mi vedono, i bambini si alzano in piedi per una standing ovation e lì capisco di essere un pochino nel panico, visto che la prima cosa che mi esce di bocca è: «State seduti, mica ho cantato una canzone».

Fra gli sguardi un po’ perplessi dei bambini cerco di prendere tempo tentando di ricordare cosa facevano i miei professori appena entravano in classe. Per cui comincio con l’appello. Essendo la Terra di Mezzo un paesello di 300 abitanti (250 dei quali testimoni oculari del Risorgimento), il registro più o meno era questo:

  1. Pulcini Andrea
  2. Pulcini Annamaria
  3. Pulcini Davide
  4. Pulcini Giovanna 
...

All’ennesimo “Pulcini” non ce l’ho fatta e ho detto: «Tutti figli della stessa gallina?», rendendomi subito conto che il senso dell’umorismo è legato soprattutto all’età. Tuttavia non è che mi fossi sbagliato molto, infatti ho scoperto poco dopo che in classe avevo: la figlia della preside, il figlio della bidella, i gemelli della segretaria, la nipote del sindaco, il nipote del fabbro e un certo Ahmed Akbar che il primo istinto appena letto il suo nome sul registro era di chiedergli: «Ma mamma e papà come hanno fatto a venire qui dall’Egitto che io mi sono perso dodici volte?».

Nei 45 minuti successivi ho fatto un sacco di scoperte interessanti che all’università mica ti spiegano, eh. Tipo:
  • Le ore scolastiche durano appunto 45 minuti
  • Alla fine di ogni ora i bambini fanno 15 minuti di ricreazione durante la quale tirano fuori dai loro zaini viveri a sufficienza ad eliminare per 10 anni il problema della fame in Darfur
  • Il libro di antologia è diviso in due: antologia vera e propria e approfondimento e se ti sbagli a chiamare entrambi “antologia” rischi un ammutinamento della classe e l’impiccagione all’albero più alto
  • Nelle aule ci sono le LIM, le lavagne interattive multimediali, prodigiosi strumenti su cui si può scrivere, interagire, proiettare video e testi. Peccato che l’età media degli insegnanti sia 86 anni, per cui la voglia di metterti a leggere un manuale d’istruzioni pesante come un disco dei Tiromancino un pochino ti passa
Ma forse la cosa più interessante è stata osservare certe dinamiche che fin quando sei seduto tra i banchi ti sfuggono ma dall’altra parte invece sono chiarissime. Ho notato infatti che ogni bambino in classe ha la sua caratteristica: c’è quello grassottello e simpatico; il belloccio che ha il nome scritto sui diari di tutte le ragazzine della classe; quella al primo banco perennemente innamorata che tira più sospiri di un geyser islandese; i due all’ultimo banco che hanno costituito un principato indipendente…

Mentre chiamavo l’Unità di crisi della Farnesina per tornare a casa, mi sono messo a riflettere sul fatto che in fondo in fondo un insegnante pure se passa cinque anni con la stessa classe alla fine non può mai dire di conoscere i suoi studenti perché fin quando stanno in aula hanno una serie di restrizioni, riescono a esprimere solo una parte del loro carattere, sono “piatti”. Come i personaggi della Commedia di Dante.

Ora, prima di chiamare il Telefono azzurro per il giudizio sui bambini e il Ministero della Pubblica Istruzione (sì, non si chiama così ma se scrivo MIUR pare un antibiotico ad ampio spettro) per farmi togliere la laurea, fatemi spiegare.

Quando ho letto per la prima volta la Commedia (non è che ce l’ho sul comodino e la leggo prima di addormentarmi, è solo che ci ho fatto due tesi), da persona con la coscienza sporca mi è subito sembrata strana una cosa: i peccatori, i penitenti e i beati sono puniti o premiati per un solo peccato o virtù.

Mi spiego meglio.

Mediamente una persona si alza alle 7 di mattina per andare a lavorare o studiare e alle otto meno un quarto ha già commesso peccati tali per cui si è giocato l’eternità sua e di tutti i discendenti fino alla dodicesima generazione. La domanda è: come fa Ciacco, per esempio, a stare solo nel girone dei Golosi? Nella vita sua non ha mai commesso altri peccati? Nessuno gli ha mai tagliato la strada col calesse? Nessun call center l’ha mai chiamato a orario di cena per offrirgli una tariffa vantaggiosissima sui piccioni viaggiatori?

I casi sono due: o effettivamente Ciacco si è seduto a tavola a sei anni e si è alzato direttamente a cinquanta oppure i personaggi di Dante mancano di spessore e quindi siamo costretti a rivalutare tutta la Letteratura italiana da Moccia a Giovanni Veronesi.

Per capire meglio la situazione dobbiamo fare un piccolo salto indietro. Di 2000 anni.

Quando il Cristianesimo ha cominciato a diffondersi in Europa ci si è trovati di fronte a un problema di difficile soluzione. I fedeli avevano due libri sacri: la Bibbia degli Ebrei e i Vangeli. Ora, vaglielo a spiegare un uomo del Medioevo nato in Scandinavia la questione teologica che doveva attenersi a un libro scritto 3000 anni prima in una zona desertica dell’Asia perché Gesù nella sua vita vi fa continuo riferimento… l’uomo del Medioevo era un tipo che andava abbastanza per le spiccie, il suo ragionamento di base era: «Ok, tutto molto interessante. Ma io che c’entro con un popolo che gira per 40 anni nel deserto se io manco uno stabilimento balneare ho mai visto?». Insomma, considerato il contesto, tutti i torti non ce l’aveva.
Gira che ti rigira, pensa che ti ripensa, la soluzione fu data dai Padri della Chiesa ed effettivamente fu davvero un colpo di genio. I santi uomini infatti se ne uscirono così: «Gente, l’Antico Testamento non è altro che il prequel del Nuovo». Ecco, magari non proprio in questi termini, ma ci siamo capiti.

Cosa volevano dire? Semplicemente che tutto quello che è scritto nell’Antico Testamento è figura del Nuovo, cioè è una prefigurazione di quello che poi sarebbe accaduto con Gesù e gli Apostoli. 

«Quindi tutto il Vecchio Testamento è un’allegoria del Nuovo?» direte voi (e l’ho detto pure io quando l’ho letto per la prima volta). No, se così fosse i Padri della Chiesa non si meriterebbero l’Oscar per la Miglior sceneggiatura non originale.
La figura non è un’allegoria, ma è qualcosa che accaduto realmente che anticipa qualcosa che avverrà in futuro. La figura in pratica è Dio che gioca con un puzzle: fa avvenire determinate cose, cioè incastra determinati pezzi, in modo che altri pezzi possano essere inseriti, cioè che altri avvenimenti possano verificarsi.

Per farvi un esempio: Abramo stava veramente per accoppare suo figlio perché una voce gliel’aveva ordinato tipo Charles Manson (fosse successo ai giorni nostri già avrebbero fatto il plastico della pietra sacrificale e la ricostruzione disegnata dell’angelo che blocca la mano di Abramo), ma il suo gesto non era altro che la prefigurazione del sacrificio di Cristo sulla croce.

«E che c’entra tutto questo con Dante?», c’entra, c’entra.
Nel Medioevo sta cosa della figura era di dominio pubblico, i preti ci facevano i sermoni, quindi la conoscevano sia i letterati che i contadini (quindi fate poco gli splendidi quando parlate di concezione figurale), anche se non è che fosse ben chiaro dov’è che finiva l’allegoria e dove invece iniziava la figura.
Chi aveva le idee chiare in proposito era proprio il nostro amico Dante, che sulla figura ci ha costruito tutto il poema dimostrando ancora una volta che il diritto di essere il primo autore che si studia a scuola te lo devi meritare.

La Commedia praticamente è tutta incentrata sulla figura, come ha dimostrato Erich Auerbach (non l’ho citato perché fa figo, ma per un fatto affettivo visto che ci ho fatto la tesi della triennale), solo che Dante ha un’idea geniale: applica la figura non solo ai personaggi biblici ma la estende a tutta l’umanità. Lui per primo. Infatti Enea, San Paolo e Ulisse, cioè tutti quelli che erano scesi negli Inferi prima di lui, sono figura di Dante (e Dante quindi è compimento). Allo stesso modo la Madonna è figura di Beatrice, visto che è portatrice di salvezza.

Senza la figura i personaggi della Commedia soffrirebbero della sindrome del Villaggio dei Puffi, come l’ha chiamata coso. Nel Villaggio dei Puffi ogni abitante ha una e una sola caratteristica: Quattrocchi, Forzuto, Vanitoso, Golosone, Inventore, Brontolone… dimostrando tra l’altro che i genitori dei Puffi avevano una grandissima fantasia in fatto di nomi.
Allo stesso modo i personaggi di Dante hanno una sola caratteristica che li contraddistingue: Ciacco è goloso, Farinata è eretico, Stazio è avaro, Guido Guinizzelli è lussurioso… insomma, come se sta gente dalla mattina alla sera facesse sempre la stessa cosa.

Pier della Vigna con alcuni colleghi nel Girone dei Suicidi
In realtà nella visione dantesca ognuno di noi è figura di ciò che sarà nell’aldilà. In pratica noi sulla terra siamo come delle ombre, il nostro adempimento, la nostra essenza, il nostro compimento, è quello che saremo dopo il trapasso. Se la nostra ragione di vita è stata accumulare denaro, poco importa che pesiamo 300 chili o che abbiamo tradito la fiducia dei familiari: il girone che ci attende è quello degli Avari. Solo guardando le cose in questo modo possiamo spiegarci come mai Dante trasforma Pier della Vigna in una pianta grassa perché si era suicidato e Catone per lo stesso motivo viene promosso a guardia del Purgatorio (che tra l’altro era pure pagano).

Dante ha saputo costruire il più grande capolavoro dell’umanità (adesso sto in piedi sulla sedia mentre applaudo commosso) non solo per la struttura metrica, per il simbolismo numerico o semplicemente per la fantasia. Dante ha composto per davvero un poema sacro perché ha voluto dimostrare che c’è una scintilla divina in ognuno di noi, che siamo tutti parte di un immenso puzzle in cui ci incastriamo perfettamente gli uni con gli altri, che tutto l’universo è costruito su un formidabile e delicatissimo equilibrio ma nonostante tutto non c’è predestinazione perché il destino non esiste, esistono solo delle scelte e la vita di Dante stesso lo dimostra. Tutti possiamo perderci nella selva oscura e tutti possiamo uscirne se abbiamo la volontà necessaria e se permettiamo di farci aiutare.

A tal proposito mandatemi qualcuno a prendere, che il TomTom è già arrivato a casa e in giro non si vedono elicotteri della Farnesina. Mi riconoscete subito: sono quello che sta masticando una Goleador in mezzo al nulla.