Fra di noi ce lo possiamo anche dire liberamente: francamente sta faccenda dell’Expo ci sta sfuggendo un pochettino di mano. Mica lo dico con il solito spirito di quello che deve andare controcorrente per forza, quel posto già me l’ha rubato Andrea Scanzi (maledetto!). È solo che da quando l’hanno inaugurato si parla solo di quello. Dovunque. Ne parla Corrado Augias su Repubblica, ne parla Maurizio Belpietro su Libero, ne parla Selvaggia Lucarelli dove le capita, ne parla la conduttrice di Mezzogiorno Italiano (non lo conosco il nome, ma sono abbastanza sicuro che neanche in Rai lo sanno). Da fonti attendibili sembra che ne parlino anche le donnine nude sui canali privati che pubblicizzano i servizi di hotline (sì, ci sono ancora gli amanti dell’onanismo 1.0).
Insomma, non dico che non se ne debba parlare, ma dopo l’ennesima, quotidiana, intervista al Commissario Unico dell’Expo ti senti un pochino come se qualcuno ti avesse infilato un Nicer Dicer nelle mutande.
A parte questo, non capisco tutte queste polemiche per l’Expo, soprattutto quando il suo obiettivo è quello di dare una mano a risolvere il problema della fame nel mondo: è assolutamente evidente che far pagare una pizza margherita 15 euro o prendere un ottimo sorbetto al fiore sacro dell’Himalaya nel padiglione Nepalese per la modica cifra di 88 euro è il metodo più rapido ed efficiente per aiutare le popolazioni che soffrono la fame. Praticamente è come ambientare la nuova stagione del Boss delle cerimonie direttamente nel quartiere povero di Kabul.
Personalmente, a parte il martellamento costante, quello che mi dà veramente sui nervi è il continuo mettere l’accento sull’eccellenza italiana: va bene quando si parla di parmigiano e anguille fritte, ma se si parla negli stessi termini anche delle persone...
Già, non so se ve ne siete accorti, ma da quando è cominciato l’Expo è tutto un invitare gente che dieci anni fa ha lasciato l’Italia perché qui gli avevano detto che tre lauree e cinque master c’erano buone probabilità di essere assunti a tempo determinato, part-time, come rappresentante del Folletto (con tutta la stima e la simpatia per la categoria), mentre adesso si devono accontentare di dirigere il CERN di Ginevra e sparare nano particelle alla velocità della luce per carpire i segreti dell'universo. Cioè, funziona un po’ come quando la ragazza dei vostri sogni si mette finalmente con voi dopo anni passati sulla linea Maginot del corteggiamento-stalking e poi lei non fa altro che parlare del suo ex. Non un’esperienza delle più appaganti.
Ma poi perché si parla solo dell’eccellenza quando qui abbiamo il fior fiore di gente mediocre che insegna nelle università, opera a cuore aperto, fa l’opinionista in televisione o scrive su blog di letteratura parlando delle costole di D’Annunzio? Che forse la mediocrità non sia degna di attenzione? La gente mediocre forse non merita un posto nella storia? «Vabbè - direte voi - se uno è mediocre non ha fatto grandi cose». Eppure, amici miei, il mediocre ha il suo fascino. E non sto parlando di roba intellettuale tipo l’inettitudine di Svevo: lì già siamo a un livello superiore, lì abbiamo persone che almeno ci hanno provato. Mi sto riferendo invece a gente che nella vita è stata assolutamente ferma, non si è mai mossa di un millimetro. Possibile raccontare la storia di un personaggio del genere ed essere annoverati fra gli scrittori più influenti del Novecento?
La risposta è sì e l’uomo che ci è riuscito è Dino Buzzati con Il deserto dei Tartari.
«Dino chi?». Già, purtroppo Dino Buzzati non è fra gli autori più studiati a scuola, pure perché è difficile farlo rientrare in una corrente o una scuola di pensiero ben definita, quindi l’unico modo per conoscerlo è comprare qualche suo libro.
Come direbbe il protagonista di Rocky Horror Picture Show non bisogna giudicare un libro dalla copertina ma in effetti è quello che facciamo un po’ tutti (provate a scrivere sulle diete e metterci Platinette in copertina e poi ne riparliamo). Di conseguenza il motivo per cui le opere di Dino Buzzati siano un’esclusiva per i cultori della Letteratura, da chiedere in libreria con la stessa discrezione con cui si chiederebbe al farmacista una cassa di Preparazione H, sta nelle scelte che i grafici delle case editrici operano per metterle sul mercato: paesaggi brulli, castelli giallo-ocra, personaggi senza volto… Vabbè che il libro si chiama Il deserto dei Tartari e che una foto di Scarlett Johansson stonerebbe in pochino, però così alla gente le fai addormentare ancora prima di leggerlo sto libro.
Visto che normalmente se durante una conversazione sulla Letteratura si cita Dino Buzzati improvvisamente compare dal nulla un immenso punto interrogativo luminoso di 3x2 metri, prima di capire perché devo comprare un libro con una copertina orribile, ci conviene dare una brevissima occhiata alla vita di questo autore.
Dino Buzzati nacque nel 1906 vicino Belluno da una famiglia di umili origini, infatti il padre era un celebre giurista dell’epoca, la madre apparteneva al patriziato veneziano e il nome Dino gli fu dato in ricordo di un suo zio scrittore, Dino Mantovani, citato anche da Benedetto Croce in una sua opera (e io che spero ancora di essere taggato un giorno da Gianni Morandi). Il giovane Dino prima ancora di finire i suoi studi in giurisprudenza comincia a lavorare al Corriere della Sera e non come stagista addetto alle fotocopie pagato in caffè e schiacciatine olive e pomodoro del distributore della redazione. No, ci lavora come titolista, cioè quello che sceglie i titoli degli articoli. Un pochettino più in basso del direttore praticamente.
Nel frattempo si dedica anche alla scrittura, stimolata anche dalle esperienze lavorative, infatti lavora al Deserto dei Tartari mentre è corrispondente ad Addis Abeba nel 1940. Tuttavia la sua carriera letteraria era iniziata nel 1933 con Bàrnabo delle montagne, un romanzo che ha una carica di magone pari a 14 R.M.M. (Romanzi di Margaret Mazzantini, scala internazionale per classificare i libri che provocano un irresistibile voglia di aprire i rubinetti del metano e inalarne fortemente l'aroma).
Nel corso degli anni pubblica una serie di romanzi e racconti che vengono quasi ignorati dalla critica italiana, mentre in Francia il nostro Dino diventava quasi un eroe nazionale per Il deserto dei Tartari. Valli a capire i francesi, magari lì i grafici delle case editrici sono un po’ più allegri.
Ma cos’è che spinge i grafici italiani a realizzare delle copertine orrende per il capolavoro di Buzzati?
Effettivamente sulle prime Il deserto dei Tartari è un romanzo che ci lascia un po’ perplessi: non si sa dove è ambientato, non si sa quando è ambientato, fino a un certo punto non è chiaro chi sia il protagonista.
«Ah, ma allora sarà pieno di azione». Bene, mettetevi un attimo seduti perché devo farvi una rivelazione: in tutto il libro non accade quasi nulla.
Ora, so che state pensando che sarà uno di quei polpettoni stile film intimista francese ambientato in una sola stanza in cui i protagonisti si dicono sì e no tre parole ma in compenso si scambiano degli sguardi carichi di significati che per lo più sfuggono al povero spettatore che voleva solo guardare il film dei Minions ma ha sbagliato sala.
Non ci crederete ma non è così. E allora di cosa parla sta benedetto romanzo?
Giovanni Drogo è un giovane ufficiale che viene mandato, come prima destinazione, alla Fortezza Bastiani, un avamposto ai confini dell’impero (di cui non conosceremo mai il nome, ma potrebbe essere l’Impero austro-ungarico) e che si affaccia su una sterminata pianura che tutti chiamano il deserto dei Tartari (in realtà però in tutto il romanzo si vede meno Tartaro che in una pubblicità di dentifrici).
Adesso immaginate sto ragazzo che si trova a due giorni di viaggio a cavallo da casa sua (e qui potremmo pensare che la storia è ambientata fra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento), in mezzo al deserto, senza un piffero da fare. Naturalmente la prima cosa a cui pensa il nostro eroe è tornare a casa il prima possibile, però gli viene fatto capire che chiedere il trasferimento dopo appena un giorno potrebbe pregiudicare la sua carriera di ufficiale, per cui il maggiore Matti, capo della fortezza, gli consiglia di attendere quattro mesi e poi farsi trasferire per motivi di salute.
Controvoglia allora Drogo decide di rimanere alla fortezza e scopre che al suo interno la vita si svolge secondo dei riti quotidiani sempre uguali. Ma la cosa che stupisce di più Giovanni è il fatto che quasi nessuno dei suoi nuovi compagni sembra desideroso di essere trasferito, anzi tutti sembrano sperare che prima o poi dal deserto un giorno arrivino i nemici e tutti potranno avere il proprio momento di gloria.
«Ma com’è che un romanzo pieno di soldati viene considerato appartenente al genere fantastico?». Un attimo che ci arrivo.
Passano quattro mesi e finalmente Giovanni ha l’occasione di tornare a casa, ma nel momento in cui il medico sta per firmare il certificato di inabilità Drogo lo ferma: da una finestra la fortezza gli appare bellissima e immensa. Ha contratto anche lui la malattia della fortezza, un morbo che sembra colpire tutti gli abitanti dell’avamposto, un misto di amore e odio che rende quasi impossibile abbandonare la fortezza.
E qui già stiamo praticamente a metà del libro e non è successo nulla. Il vuoto pneumatico.
Dopo quattro anni Giovanni torna a casa ma tutto è cambiato: i fratelli vivono ormai lontano, la madre si è disabituata alla sua presenza, quando va a trovare la sorella di un suo amico per cui nutriva una certa simpatia si svolge un dialogo che nemmeno nei migliori ascensori condominiali quando incontri la vecchietta del terzo piano, mentre il suo Yorkshire sta vivendo un’intesa storia d’amore col tuo polpaccio.
Durante questa vacanza però decide comunque di fare un tentativo, senza troppa convinzione, presso un generale per essere trasferito e qui scopre che il personale della fortezza sta per essere drasticamente diminuito, infatti molti suoi compagni avevano fatto domanda di trasferimento, senza che lui ne sapesse nulla.
A un’ottantina di pagine dalla fine sembra che finalmente ci sia una svolta: fra le nebbie del deserto qualcosa si muove. Tutti sono euforici, forse è la grande occasione che stanno aspettando (sono pacifista ma immagino che qualsiasi cosa fosse meglio di stare alla fortezza senza sapere come va a finire The Big Bang Theory). La grande eccitazione però è destinata a durare poco, infatti si scopre che “il nemico” (no, non sono i Tartari) sta costruendo una strada per motivi civili.
Gli anni continuano a passare e Drogo ormai è vecchio e ammalato, convinto che la sua vita sia trascorsa invano. Eppure qualcosa accade: l’esercito del Nord muove guerra contro l’impero. Giovanni vorrebbe dare una mano, riscattare la sua vita, dare un senso a tutti quegli anni passati alla fortezza.
Lo aspetta una morte in battaglia?
Lo aspetta guidare l’esercito alla carica contro i nemici?
Gli tocca gridare «Questa è Sparta!» vestito da generale austro-ungarico con tanto di pennacchio in testa?
No. Semplicemente viene rispedito a casa che manco un pacco della DHL e non tanto perché è malato, ma perché, visto che la fortezza sarà l’epicentro della guerra che sta per iniziare, serve spazio per accogliere i soldati che stanno arrivando.
Insomma, bastava chiamare un architetto dell’IKEA che ti spiegava come sfruttare tutti gli spazi e il gioco era fatto.
E questo era Il deserto dei Tartari.
Sinceramente raccontato così non è che sto romanzo sia un granché. Ma prima di archiviarlo alla voce: Cose che fa figo citare senza averle lette mai, vediamo perché uno si dovrebbe prendere la briga di affrontare un autore che a scuola non viene nominato neanche sotto tortura.
Il problema del Deserto dei Tartari è che appartiene a quella categoria di libri di cui è impossibile raccontare la trama senza fare un’accurata quanto abrasiva (sapete a cosa mi riferisco) analisi delle tematiche.
Nonostante per tutto il tempo non accada un fico secco (ci sono due morti: una per assideramento e un’altra per un incidente), arrivati alla fine di un capitolo non possiamo fare a meno di leggere quello successivo. Vi concedo che questo può accadere per vedere dove vuole arrivare l’autore, che in ogni caso ha portato a casa il risultato.
Spesso si cita questo libro come un esempio di letteratura fantastica, eppure le uniche cose “magiche” che accadono sono la fantomatica malattia della fortezza, per la quale onestamente basterebbe un bravo psicologo, e un sogno premonitore fatto da Drogo a proposito della morte di un suo compagno.
Giovanni Drogo non è bello, non è particolarmente coraggioso, non ha capacità speciali, non possiede poteri sovrumani. È un ragazzotto della buona borghesia del suo Paese, qualunque sia, che per paura di fare cattiva impressione sui suoi superiori decide di restare alla fortezza.
Siete ancora meno convinti e non comprereste un libro del genere nemmeno se si decidessero a mettergli una copertina decente?
Allora mettiamola così: senza voler andare troppo ad analizzare la poetica di Buzzati, senza voler troppo andare a ravanare nei temi dell’angoscia, della solitudine, della magia e così via… quanti pensate siano gli autori capaci di scrivere un libro dove non c’è azione e allo stesso tempo tenere il lettore incollato fino all’ultima pagina?
Ecco, stiamo cominciando a capirci. Nonostante le case editrici cerchino a tutti i costi di spacciarlo per un mattone impossibile da leggere, Il deserto dei Tartari è un’opera di una modernità allucinante. Se per un bambino è facile immedesimarsi in Harry Potter perché il gioco e la fantasia sono il suo pane quotidiano, quanto può essere difficile identificarsi in Drogo per una stagista che si sente non valorizzata dai suoi superiori, per un operaio che deve subire i capricci del suo datore di lavoro, per un impiegato che subisce in silenzio le angherie del suo capoufficio e comunque ha troppa paura di lasciare tutto e cambiare vita?
Allora capiamo davvero che Buzzati in un certo senso ha percepito in che direzione stavamo andando e ha saputo costruire una storia basata su un uomo mediocre e della cui mediocrità si riscatterà solo troppo tardi, al momento della morte, quando nella sua stanza scoprirà di non aver più paura di essa, dell’ignoto, dopo una vita passata ad osservarlo attraverso le nebbie del deserto dei Tartari.
Se non vi fidate di quello che sto dicendo e credete che Buzzati sia il solito sopravvalutato che qualche critico ha rispolverato per scriverci un saggio da affibbiare ai suoi studenti, considerate che nel 1969 pubblicò un libro dal titolo Poema a fumetti, che può essere considerata la prima graphic novel italiana (se consideriamo la Ballata del mare salato di Hugo Pratt strettamente come un fumetto) e comunque anticipando di parecchi anni gli americani.
E con questo vi ho dato un buon motivo per citare Dino Buzzati in un duello all’ultimo autore con qualsiasi blogger che tratti Letteratura (siamo la categoria di persone più litigiose dopo i motociclisti ubriachi dell’Alabama).
Ora però devo lasciarsi. Altrimenti mi si scioglie il sorbetto al fiore sacro dell’Himalaya.