martedì 18 dicembre 2012

Eneide: Omero rmx feat. Dj Virgilio


Mio cugino è sposato da dieci anni. Lui è un tipo esigente, dice che LA macchina è la Mercedes, LE scarpe sono le Hogan, IL computer è Apple… ma dove mio cugino si supera è in cucina: non mangia pasta se non è di marca, trafilata al bronzo, quella che si vende a carati, in quei negozi in cui ti danno quei vasetti con i funghi dalla carta scura e spessa, dall’aria talmente autorevole che non sai se mangiarli o metterli sul caminetto al posto delle ceneri di nonna. Ebbene, è da quando è sposato che la moglie compra la pasta al discount e la mette negli involucri della pasta “buona”, senza che lui si sia mai accorto di nulla.

Quali preziosi insegnamenti possiamo dunque trarre da questa edificante storiellina?

  1.    Che mio cugino non guarda le scadenze, altrimenti si sarebbe accorto che la sua pasta “trafilata al bronzo” è scaduta da almeno sette anni
  2.    Che a volte non conta quello che fai ma come lo presenti


Ora, non sappiamo se Virgilio guardasse o meno le scadenze (la critica tace clamorosamente su questo punto), senza dubbio però possiamo dire che è stato capace di realizzare un grande capolavoro con dei materiali di recupero.
Se dopo questa affermazione non siete subito corsi sul blog della brunetta dei Ricchi e Poveri, lasciate che mi spieghi.

Publio Virgilio Marone nasce a Mantova nel 70 a.C., come regola avrebbe dovuto disperarsi perché la mortalità infantile era al 90%, non avevano ancora inventato gli antibiotici, le patatine fritte, internet, la bomba atomica, le mine antiuomo, il gioco dei pacchi… insomma non si aveva ancora raggiunto l’elevatissimo grado di civilizzazione attuale. Nonostante tutto però il fato gli sorride e lo fa nascere in una famiglia sufficientemente ricca da poterlo mandare a studiare nella migliore scuola di eloquenza di Roma. Mica era un bamboccione, lui.
Proprio mentre si trova nella capitale, fra un happy hour e l’altro (ok, non si chiamavano così ma il principio era lo stesso), lo stato gli confisca tutto per darlo ai veterani della guerra civile (e pensare che appena tornato dal Vietnam a Rambo lo schiaffano in galera).

Adesso spiegherò un concetto che a noi persone moderne può risultare difficile da comprendere: a quel tempo se avevi amici influenti potevi avere un po’ di agevolazioni, occupare posti di potere, fare parecchi soldi.
Ebbene, il nostro Virgilio, che fra gli amici su Facebook aveva gente come Mecenate, Pollione e Augusto, riesce non-si-sa-come a farsi revocare la confisca. 
Altro che richieste di Farmville.

Tuttavia come ogni associazione a delinquere che si rispetti i favori vanno restituiti. Per questo motivo Augusto commissiona a Virgilio un’opera che lo magnificasse. Non è che le scelte fossero tantissime, avrebbe dovuto scrivere: o quanto era bravo in battaglia, o quanto la sua famiglia fosse nobile/predestinata/favorita. Dato che Augusto non era proprio famoso per le sue doti belliche, la scelta era obbligata.

Per far fare bella figura ad Augusto perciò Virgilio decide di narrare le gesta di Enea, presunto antenato dell’imperatore, personaggio talmente sfigato che se fosse morto nell’incendio di Troia avrebbe fatto comunque una figura migliore. Enea nell’Iliade è una specie di comparsa, cugino di trentottesimo/trentanovesimo grado di Paride, la sua rilevanza è tale che anche il regista di Troy non se l’è sentita di pagare un attore serio per impersonarlo. 
La storia dell’Eneide è in pratica la stessa dell’Odissea, per i più scettici ho preparato una comoda tabella:

               

Mettiamola così: Virgilio avrebbe vinto l’Oscar come migliore sceneggiatura non originale.

Vi starete chiedendo se ci sia qualche differenza con il poema di Omero, sennò perché a scuola ci scartavetrano gli zebedei con l’Eneide? Effettivamente una differenza c’è: Enea è figlio di Venere ed è lo stereotipo dell’italiano mammone che non riesce a staccarsi dalla sottana di mammà.
Per tutto il poema infatti Venere compare continuamente e solo per fare interventi del tipo: «Enea, parti e vai nel Lazio», «Enea, lascia Didone che non è la ragazza per te. Oltretutto è pure vedova», «Enea, fai la guerra contro questo», «Enea, fai la guerra contro quello», «Enea, mettiti la maglia di lana che se buschi un raffreddore poi le prendi».

Gli studenti con una coscienza critica e alto spirito civile diranno: «Virgilio era servo del potere e ha scritto un’opera da lecchino. Organizziamo un sit-in per non studiare l’Eneide». Lo so, vi piacerebbe, ma è qui che lo scrittore latino ci frega tutti.
Virgilio non è un lecchino, lui ci crede davvero nella politica di Augusto (dopo i favori che gli ha fatto volevo vedere), inoltre, anche se incompleta, l’Eneide è scritta splendidamente, alla faccia di chi dice che bisogna avere una storia originale per sfondare come scrittori (già, Virgilio è il modello di riferimento di Moccia).

Se può esservi di aiuto per invogliarvi allo studio dell’Eneide o per sfrattare i ragni che vi hanno costruito un condominio nella libreria, considerate che l’opera di Virgilio può essere comodamente usata per fare citazioni latine a vanvera.

 Esempi:
  •  La persona che schifate a morte vi fa un regalo? Ditele: Timeo Danaos et dona ferentes (Temo i Greci anche quando portano doni) [Libro II, 49]
  • State guardando Porta a Porta e vostro suocero inveisce contro il politico di turno? Ab uno disce omnis (Da uno capisci come sono fatti tutti) [Libro III, 64-65]
  • La polizia vi chiede come mai siete incaprettati nudi sul bordo dell’autostrada che porta al confine Messicano? Horresco refens (Inorridisco nel raccontare) [Libro II, 204]
  • Mentre fate benzina con il motore acceso date fuoco al distributore? Adgnosco veteris vestigia flammae (Conosco i segni dell’antica fiamma) [Libro IV, 23]
  •  Il tom tom si è scaricato e la vostra ragazza è intenzionata ad uccidervi con il cric e a seppellirvi nel bosco perché non avete seguito i suoi consigli? Fata via invenient (I fati troveranno la via) [Libro III, 395]

Rassegniamoci quindi ad amare questo capolavoro della letteratura latina, anche perché altrimenti non capiremmo la letteratura italiana. L’Eneide è stato il modello a cui hanno guardato Dante e Petrarca, l’incipit della Gerusalemme Liberata di Tasso («Canto l’arme pietose e ’l capitano») è praticamente la traduzione di quello virgiliano «Arma virumque cano».
E se l’hanno fatto non erano fessi.

Ah, dimenticavo: un saluto a mio cugino. 

martedì 4 dicembre 2012

I Promessi Sposi - Part Three: The Breaking Dawn


Organizzata la fuga manco fossero due ex SS che scappano in Argentina, Renzo e Lucia prendono strade diverse. La ragazza va a finire prima in un convento di Cappuccini e poi, secondo l’antica usanza milanese di “rimbalzare” i poveracci dai luoghi più cool, spedita a Monza.

Arrivati a questo punto gli studenti più smaliziati, cioè quelli che guardando le immagini sul libro di testo riescono a distinguere con una buona approssimazione Leopardi da Petrarca, fiutano che può esserci materiale interessante. Cominciano a sfogliare avidamente le pagine del libro, gli ormoni segnalano chiaramente che lì, da qualche parte, sono nascoste descrizioni piccanti, corpi sudati e aggrovigliati, un campionario a luci rosse tale da far sembrare Tinto Brass il regista delle messe domenicali su Rai Uno. Ebbene, lasciatemi dire che se si confonde I Promessi Sposi con Cinquanta sfumature di grigio, non ce la possiamo prendere con Manzoni, ma piuttosto con gli anni Ottanta e tutti i film con Alvaro Vitali ed Edwige Fenech, in cui la Monaca di Monza passava la giornata a farsi la doccia mentre il resto del convento la spiava dal buco della serratura.

A dispetto di ogni speranza Manzoni non fa scoprire nemmeno una caviglia alla Monaca di Monza (per gli amici Gertrude o “La Signora”). Ignorando i richiami della natura, l’autore infatti, nella descrizione del personaggio, anticipa non solo le teorie psicoanalitiche di Freud e Jung, ma anche le prime dieci stagioni di Criminal Minds e CSI Miami, fornendo un profilo psicologico fatto di soprusi familiari, amori contrastati e impossibili, violenze dirette e indirette di ogni sorta, al termine del quale il lettore che si trovi a guardare in televisione le immagini dei campi di concentramento nazisti non può che esclamare: «Beh, bisogna vedere cos’è che gli hanno fatto a quell’Hitler lì, da bambino». 

Ma il punto che tengo a sottolineare è la genialità dei confratelli di Fra Cristoforo. Per apprezzarla appieno è necessario fare un piccolo riepilogo: Lucia è una ragazza che si deve sposare ma è ostacolata da un signorotto locale. Loro a chi l’affidano? A una che giornalmente produce l’equivalente di dodici silos di bile perché si voleva sposare, ma la famiglia ha fatto rinchiudere in convento e che per giunta ha una tresca con un conoscente di Don Rodrigo. 
Come minimo oggi farebbero i consulenti al Ministero per le Pari Opportunità.
Com’è prevedibile Gertrude un po’ perché costretta dal suo amante Egidio, un po’ perché effettivamente la ragazza, con la sua prorompente simpatia, le sta proprio lì, sotto la tonaca, consegna Lucia all’Innominato, noto boss del lecchese affiliato al cartello di Don Rodrigo.


Avete presente quando portate la macchina dal meccanico e vi prende la netta sensazione che lui non l’abbia vista nemmeno col binocolo, mentre ci ha messo sicuramente le mani il ragazzo di bottega? Ecco, in letteratura questa fastidiosa sensazione si chiama straniamento. È esattamente quello che succede con le pagine dedicate all’Innominato. Fino adesso abbiamo avuto a che fare con un rispettabile romanzo storico, ma quando entra in scena questo personaggio Manzoni diventa Samantha (o Jessica, o Katiusha, fate voi), una specie di ragazzina quattordicenne che passa le giornate a guardare serie sui vampiri su Sky. Del resto gli ingredienti ci sono tutti:

  •      Un castello diroccato su una montagna
  •      Il cattivo che poi così cattivo non è
  •      La “bella” imprigionata nelle segrete

Il lupo mannaro non è che me lo sono dimenticato, è che proprio non c’è.

Lucia passa una notte tormentata nelle segrete del castello e pur di salvarsi fa voto di castità alla Madonna, ma l’Innominato (che si comporta pari pari a Marlon Brando nel Padrino), colpito dalla purezza e dal candore della fanciulla, con un colpo di spugna degno solo dei migliori regimi autocratici coreani, cancella tutte le ragazze violentate, le rapine, le usure, il contrabbando fin a quel momento commessi e si somministra da solo l’assoluzione plenaria e l’amnistia. Ditemi se non vi viene voglia di farlo Presidente del Consiglio seduta stante.

Ma passiamo a Renzo. Lui viene “rimbalzato” perché il suo PR (metaforicamente parlando) aveva dimenticato di avvisare quelli del locale. Il nostro si trova suo malgrado coinvolto in una sommossa popolare provocata dall’aumento del prezzo del pane, dato che manca poco che l’arrestino decide di andare da suo cugino che abita in un altro stato. Con grande disappunto dei tour operator dell’epoca, il concetto di “estero” nel Seicento è un tantinello diverso dal nostro, infatti Renzo si rifugia a Bergamo, che a quel tempo si trovava nel territorio della Repubblica di Venezia. Qui il giovane riprende il suo lavoro di tessitore sotto il nome falso di Antonio Rivolta, che è un po’ come girare per New York la mattina dell’undici settembre presentandosi alla gente dicendo: «Piacere, Pasquale Kamikaze».
Comunque, dopo una serie di alterne vicende, fra cui la calata dei lanzichenecchi che come special guest si portavano dietro la peste, finalmente Renzo e Lucia si rincontrano nel lazzaretto dove Don Rodrigo sta tirando le cuoia, non prima però di avere ottenuto il perdono dalla coppietta. In realtà nella prima versione della dipartita di Don Rodrigo, questi doveva salire a cavallo delirante credendo di essere in mezzo a una battaglia, ma evidentemente Manzoni deve essersi reso conto che un finale del genere avrebbe messo in imbarazzo anche i fan più accaniti di Massimo Boldi e Christian De Sica.

Lieto fine quindi? Non proprio, infatti c’è ancora la questione voto di castità. L’autore con un colpo da maestro (e forse anche perché la cosa andava un po’ troppo per le lunghe) decide di far ritornare in scena Fra Cristoforo che, non si capisce in virtù di quali poteri conferitigli (romanzo alla mano eh, andate a controllare), scioglie il voto di Lucia e i due finalmente possono sposarsi, facendo una caterva di figli. Dopo che Don Abbondio si è assicurato che Don Rodrigo è morto, s’intende.

Arrivati a questo punto dovremmo tirare le conclusioni, parlare del ruolo della Provvidenza, del giansenismo insito nella visione della vita di Manzoni, del fatto che non si tratti di un romanzo formativo… ma per quello, nella sua infinita bontà, Dio ha inventato internet e i riassunti già fatti.
Piuttosto mi piace immaginare un possibile seguito, una cosa all’americana come va di moda adesso. Uno spin off sulla Monaca di Monza o sulla giovinezza dell’Innominato, oppure Manzoni avrebbe potuto terminare con un bel finale aperto, tipo la mano di Don Rodrigo che esce dalla tomba, mentre i due sposini lasciano la chiesa. E lì giù di merchandising: le spille de I Promessi Sposi, il blu-ray, le tovagliette, i copriwater, gli status su Facebook con le frasi più romantiche tratte dal libro…   

Ma forse è proprio per questo che Manzoni è molto più figo di Twilight.

martedì 27 novembre 2012

I Promessi Sposi - Part Two: Eclipse


Non mi dilungherò sulla «splendida carrellata quasi cinematografica ecc… ecc…» tanto Manzoni l’ha copiata da Dante che a sua volta l’aveva copiata da Virgilio, quindi passiamo ad altro.
Il primo personaggio che incontriamo è Don Abbondio che il 7 novembre del 1628 (tutto si può dire a Manzoni, ma non che non fosse preciso) se ne sta tornando a casa e si imbatte in due scagnozzi di Don Rodrigo, i bravi. Ora, la leggenda vuole che si trattasse del Nibbio e del Griso, in realtà però Manzoni non esplicita mai i loro nomi, tanto più che il Nibbio era il bravo dell’Innominato. Per chi non l’avesse capito questa è la chicca da sparare durante le interrogazioni/esami e fare il figo con la prof.
Ad ogni modo le due brave personcine intimano al prete di non sposare Renzo e Lucia il giorno seguente, cosa che il religioso, seppur con un po’ di riluttanza, è ben disposto a fare pur di non pigliarle di santa ragione. Bisogna fare a questo punto una riflessione: non c’è critico al mondo che non consideri Don Abbondio un personaggio con forti sfumature negative. Personalmente non sono affatto d’accordo: Don Abbondio è un tipo pacifico, che ha scelto di fare il prete per stare tranquillo, mica per andare in missione in Congo. Se poi ci aggiungiamo che la zona di Lecco nel ‘600 aveva un tasso di criminalità così alto che le Vele di Scampia a confronto sono dei graziosi chalet sul Lago di Ginevra, potete capire che il pover’uomo tutti i torti non li aveva.

Comunque il prete, da bravo ecclesiastico vecchio stile, pensa bene di non fare nemmeno un colpo di telefono (si fa per dire) ai futuri sposi, così la mattina dopo Renzo, che già pregustava le gioie coniugali, recatosi dal sacerdote si sente dire che mancano ancora delle formalità. A questo punto del romanzo lo studente e il lettore medio rimangono un attimo spiazzati, la scena che si presenta è la seguente: mi devo sposare, Lucia sta agghindata peggio di una gallina padovana e io che faccio? Urlo un po’ e me ne vado? La spiegazione è semplice: innanzitutto non è che Renzo poteva andare dai carabinieri a denunciare Don Rodrigo, in secondo luogo la reazione relativamente composta del giovane dipende dai seguenti fattori:
  •          Non ha dovuto spendere 20.000 euro in bomboniere di purissimo cristallo di Boemia
  •           Non è stato costretto consumare l’intera liquidazione per prenotare il ristorante per 350 persone
  •          Lucia non l’ha tenuto dodici ore in ostaggio all’Ikea per decidere quale colore dei mobili della cucina si intonasse meglio con quello del ramo del lago di Como


Venuto a sapere che il responsabile di tutto è Don Rodrigo (anche grazie a una mezza confessione di Lucia), Renzo decide di affidarsi alla consulenza di un esperto: l’avvocato Azzeccagarbugli. Questo personaggio è un esempio della modernità di Manzoni, oltre a dimostrare quanto la professione forense sia rimasta coerente nel corso dei secoli perché:
    •         Non ha la minima idea di cosa si stia parlando
    •         Gli interessano solo i soldi
    •         Appena capisce che si può compromettere politicamente lascia perdere

Capito che non si cava un ragno dal buco Agnese, madre di Lucia, finalmente prende le redini della situazione, mette da parte i due imbranati e decide di chiedere aiuto a un altro religioso: Fra Cristoforo. Com’è noto San Cristoforo è il protettore degli automobilisti (ma anche dei viandanti), ironicamente il frate, che all’ “anagrafe” faceva Lodovico, decide di prendere i voti proprio per una questione di viabilità stradale, roba del tipo: «c’ho io la precedenza», «non sai chi sono io», «forse non hai capito con chi stai parlando» e altre amenità del genere. A seguito della suddetta discussione Lodovico fa secco l’altro e per il rimorso decide di fare il Cappuccino (e qui le facili battute si sprecano).

Dopo il tentativo fallito da parte del frate di convincere Don Rodrigo che Lucia non è poi mica Miss Universo, e quello di Renzo di mettere Don Abbondio davanti al fatto compiuto (e non è quello a cui state pensando), Fra Cristoforo consiglia ai due di scappare presso alcuni suoi confratelli. Con questo pretesto Manzoni costruisce una delle pagine più commoventi della storia della letteratura: il cosiddetto Addio ai monti, di cui non posso esimermi dal parlare, almeno non prima che abbiate letto questo disclaimer:



Bòn, adesso che abbiamo messo in chiaro le cose possiamo discutere serenamente. Ora vi dovrei parlare di questo addio lacerante, che strazia il cuore solo a ricordarlo, di come esso rappresenti la spiritualità di Lucia tramite il movimento verticale, ma sento già russare. Non voglio entrare nel merito della meravigliosa poetica dell’ Addio ai monti, però è un dato di fatto che studiarlo a scuola sia controproducente. Lo studente medio infatti alla fine del capitolo VIII del romanzo cade in uno stato di trance neurovegetativa: rivoli di bava fuoriescono dalle bocche semiaperte di quelle che una volta erano giovani testoline avide di sapere. La verità (la MIA verità) è che l’Addio ai monti è una palla mortale che si può apprezzare solo si verifica almeno una delle seguenti circostanze:

  1. Se si è della provincia di Lecco
  2. Se si legge I Promessi Sposi senza essere costretti dalla scuola, dal professore o dal Papa

E ora possono partire i 92 minuti di applausi.

Nel prossimo post ci avvieremo verso la parte centrale e (finalmente) la conclusione del romanzo.  

lunedì 19 novembre 2012

I Promessi Sposi: New Moon


Solitamente nella vita di uno studente arriva il momento in cui ci si chiede: “Perché devo studiare I Promessi Sposi?”. I motivi sono almeno due: innanzitutto è l’opera fondante dell’italiano moderno, poi nel 1868 il ministro dell’Istruzione Broglio creò una commissione per la questione delle lingua e… indovinate chi era il presidente? Vabbè, comunque principalmente perché è l’opera fondante dell’italiano moderno.
I Promessi Sposi è un romanzo storico, cioè i protagonisti sono inventati ma incontrano personaggi esistiti davvero e si muovono in uno scenario reale, cioè, nel nostro caso, la Lombardia del 1600 (si, lo so che Bergamo all’epoca non era in territorio lombardo, ma devo semplificare, o no?). Manzoni sceglie proprio questo periodo probabilmente per un’affinità con la sua epoca (per chi non lo sapesse il XIX secolo), cioè Manzoni vive nella Milano occupata dagli austriaci, perciò decide di ambientare il suo romanzo nella Milano del XVII secolo, quando la città era occupata dagli spagnoli, quindi il nostro furbacchione nell’Introduzione dice di aver trovato un manoscritto che lui pubblica in buona fede.  Gli austriaci si sono mai accorti dell’astuto stratagemma, o erano del tutto deficienti? Non ci è dato saperlo.
Prima di affrontare questo poderoso romanzo è necessario fare almeno tre precisazioni:

1.      Il ramo del lago di Como, non ha niente a che fare con gli alberi
2.      Lucia non è moscia, il che tradotto in termini letterari significa «non è un personaggio passivo»
3.      La Monaca di Monza non è una specie di prostituta. Ma forse questo punto sarebbe da approfondire…

Ora, cos’è che ci dicono a scuola fino alla nausea? Che tutta la baracca la manda avanti la Provvidenza. Potrò sembrarvi prosaico e scurrile, ma vi posso assicurare che il vero motore dell’azione, il perno su cui la struttura della trama ruota, è uno solo: la patata.
Prima di catalogarmi come quello che vuole scioccare a tutti i costi (e di questi tempi per riuscirci dovrei sposare un alpaca cileno con il permesso di soggiorno scaduto mentre Barbara D’Urso ci chiede come abbiamo fatto a superare le barriere culturali che ci dividono), vi invito a considerare che l’impianto narrativo dei Promessi Sposi si può sintetizzare nel modo seguente:

-          Lucia vuole darla a Renzo
-          Lucia non vuole darla a Don Rodrigo
-          Lucia non può darla né a Renzo né a Don Rodrigo
-          Lucia finalmente la dà a Renzo

E sfido chiunque a contraddirmi.

Ma veniamo ai personaggi principali: Renzo, promesso sposo di Lucia con l’attitudine a voler massacrare, uccidere, liquefare ma in tutto il romanzo non schiaccia nemmeno una mosca, avendo un mestiere di filatore alle spalle, Manzoni gli affibbia il cognome Tramaglino; Lucia, ragazza che solo alla fine del libro scopriremo di una bellezza talmente scialba da far rimanere delusi anche i cugini di Renzo (e non è che fossero abituati a rimorchiare al Billionaire), l’autore per il candore del personaggio le dà il cognome Mondella; Don Rodrigo, simpaticissimo perdigiorno di origini spagnole che ha come hobby quello di insidiare le fanciulle del villaggio ai piedi del suo castello, che ci vuoi fare, so giovani.
Come potete capire ci troviamo davanti al classico schema di Bachtin che ripropongo qui sotto:



Il che ci porta a fare due considerazioni: Twilight non è altro che il remake malriuscito dei Promessi Sposi; Mario Merola era un formalista russo.

Nel prossimo post entreremo nel vivo della storia.

mercoledì 14 novembre 2012

Le dovute presentazioni...

Si sentiva la mancanza di un altro blog? Probabilmente la risposta che state per darvi è: No! Eppure eccomi qui, nel bene, o se preferite, nel male.
Senza entrare inutilmente in dinamiche di tipo freudiano, permettetemi di dirvi chi sono.
Laureato in Filologia Moderna (non andatelo a cercare su Wikipedia, ve lo dico io, è tipo Lettere Moderne) con 110 e lode e dopo un percorso di studi aberrante (un anno di biologia e tre di medicina), eccomi qui giovane promessa (di che?) in cerca del suo primo impiego.
Che poi la questione "primo impiego" è forse ancora più aberrante della mia vita universitaria: devi avere esperienza per lavorare e lavorare per avere esperienza. Sto maturando la convinzione che quelli che lavorano provengano da un universo parallelo in cui si nasce già con l'esperienza...
Ma forse sto un po' divagando.
Ho deciso di cominciare a scrivere su un blog per due motivi: innanzitutto una volta mandato quei 2500-3000 curricula al giorno non so poi che fare; in secondo luogo per una considerazione sulla mia attività professionale.

Già, perché seppure "giovane promessa" qualcosa la so fare, cioè do lezioni private a domicilio (la tentazione di scrivere "faccio il ripetitore" è stata forte). Ebbene, nella mia decennale esperienza, ho notato che spesso gli studenti equivocano la letteratura italiana, dando vita a leggende metropolitane difficili da seppellire (non avete mai sentito parlare della costola di D'Annunzio, no eh?).
Adesso io non ho la presunzione di mettermi lì a insegnare la letteratura, pure perché prima che un neolaureato insegni ne devono passare di cammelli per la cruna dell'ago, tuttavia vorrei semplicemente dare una lettura un po' meno istituzionale dei grandi classici. Se poi ci riesca effettivamente è tutto da vedere...