domenica 12 ottobre 2014

I poeti provenzali: Rap medievistico

Ci passiamo tutti, prima o poi. È quel momento della vita in cui non ci si sente più piccoli ma nemmeno grandi, in cui si vive un profondo disagio, in cui si cerca la propria indipendenza, in cui ci si chiede quale sia il nostro posto nel mondo e in cui si affrontano le proprie fragilità.
No, non sto parlando della pubertà, ma di quella landa desolata che va dai 30 ai 35 anni. Come avrete capito, quest’età ha molto in comune con l’adolescenza. Compresi i cambiamenti fisici. Una sera ti addormenti sentendoti come Marty McFly in Ritorno al futuro, la mattina ti svegli e ti senti come Doc. Sempre in Ritorno al futuro
Inizia tutto in bagno: sei lì che ti sei appena ripreso da una serata scasso (nel mio gergo significa guardare tutte le stagioni di Scrubs in una sola botta abboffandoti di saccottini al cioccolato innaffiati da latte e menta) e, passando davanti allo specchio, noti un particolare che solo tu, tre volte campione condominiale di Aguzzate la vista sulla Settimana Enigmistica, potevi notare: il tuo primo capello bianco! La prima reazione è una forte tachicardia accompagnata da una un goccia di sudore freddo che corre lungo la schiena, poi cominci a respirare come se ti si fossero rotte le acque e infine inizi a cercare altri segni del declino, nella vana speranza di non trovarne. Ma il destino è beffardo e te le fa scorgere quasi subito, sono lì, proprio vicino agli occhi: le zampe di gallina. In realtà non saranno più di una o due, ma sei talmente agitato che ti sembra ti sia passato sulla faccia tutto l’allevamento di Francesco Amadori. Preso dallo sconforto, a quel punto cadi in ginocchio e, alzando le braccia al cielo come nella locandina di Platoon, urli a squarciagola: «Perché? Perché proprio a me?».

Tale reazione è dovuta al fatto che noi siamo una generazione particolare, che non ha conosciuto né la guerra né le grandi manifestazioni di piazza: per noi la libertà mica era fare l’InterRail e visitare mezza Europa; non era partire per il Chiapas e lottare a fianco degli indios messicani; no, per noi la libertà era trovare un lavoro per comprare al supermercato tutti i pacchi di Girelle che volevamo (cosa che effettivamente dà grandi soddisfazioni). 
Ora, ci sono due categorie di persone che affrontano questa situazione di indicibile disperazione con approcci totalmente differenti:
  1. Il Nonno di Heidi: è il/la tipo/a tutto d’un pezzo che prende atto della cosa e si avvia verso una maturità luminosa passando, senza soluzione di continuità, da giocare con la casa di Barbie allo stipulare un mutuo di 75 anni che pagheranno i discendenti fino alla XVIII generazione, stile maledizione Azteca
  2. Gigi la trottola: è il/la tipo/a che ha visibilmente salutato l’adolescenza da decenni ma si ostina a usare un abbigliamento e uno slang giovanile, provocando non poco imbarazzo a parenti e amici

Ma vediamo nel dettaglio.




Personalmente combatto la mia crociata contro il tempo (sì, sono un Gigi la trottola) cercando di tenermi aggiornato sulle novità musicali e in particolar modo sulla scena rap, che ultimamente sta dando grandi soddisfazioni. Premetto che il genere non mi ha mai affascinato particolarmente (sono fermo a Eminem, 99 Posse e Caparezza) ma mi sono dovuto ricredere su alcuni luoghi comuni del rap. Credevate che questo genere trattasse tematiche sociali? Che si occupasse degli emarginati? Che muovesse severe critiche alla società contemporanea?
Niente di tutto questo: l’occupazione principale del rapper è spalare badilate di materiale biologico sugli altri rapper in appositi contesti chiamati dissing. Giusto per farvi capire a che livello siamo:

Tu invece Fibra sei di una noia mortale (Tormento su Fabri Fibra)
Mi sta sul c… Grido, i Gemelli, il cugino (Fabri Fibra su Grido, i Gemelli Diversi e sinceramente non so chi sia sto cugino, ma dubito che si riferisse ai Cugini di campagna)
L’oscar della rima scontata però lo merita il rapper Kaos che a proposito di J Ax dice:
Sei pesante come Dante

Praticamente l’80% delle canzoni rap sono delle riunioni di condominio messe in rima. Cioè, se devo pagare 23 euro per un disco in cui devo ascoltare gente che si lamenta di come i colleghi e i vicini si comportano, a sto punto vado a casa di mia nonna che per lo meno è gratis e il pranzo è compreso.

Il bello di tutta sta storia è che i rapper si sentono veramente originali ad insultarsi in rima nei dissing, peccato però che qualcosa di molto simile (e pure parecchio più scurrile) è stata inventata un po’ di secoli fa: dai poeti provenzali.

La Provenza è una ridente regione nel sud della Francia nota al grande pubblico soprattutto per il sapone di Marsiglia che, puntualmente, chiunque ci sia stato in vacanza ti porta come souvenir assicurandoti che ci puoi fare tutto, ma proprio tutto: da lavarci i piatti a farti il bidet. Contravvenendo a qualsiasi regola sul pH.
Prima però che questa regione fosse invasa da orde di igienisti, nel Medioevo vi si potevano trovare decine e decine di castelli appartenenti ai signori locali. Che facevano questi signorotti oltre a lavarsi dalla mattina alla sera? 
Se quando la linea ADSL cade per appena 5 minuti vi sentite tagliati fuori a mondo, vi viene il latte alle ginocchia e siete pervasi da improvvise manie autolesionistiche peggio di un emo, immaginate cosa poteva essere stare isolato in un castello sulle montagne per 12 mesi a guardare sempre lo stesso arazzo (no, non è un eufemismo).
Per cui i signori provenzali si inventano un bel passatempo: in primavera e in estate si fanno la guerra fra loro. E le cose più o meno dovevano andare così:

«Pronto?»
«Ciao Amilcare, sono Venceslao»
«Carissimo, dimmi pure»
«Senti, visto che ancora devono inventare il paintball e mi è scaduta la tessera di Mediaset Premium, ti va se sabato ci incontriamo per farci la guerra?»
«Guarda, sabato sono a cena da mia suocera, ma domenica per me va benissimo»
«Ok. Perfetto. A domenica allora»
«A domenica. Un bacione»

Così, per sei mesi all’anno se le davano di santa ragione con il sorriso sulle labbra, con grande soddisfazione non solo degli uomini, ma soprattutto delle donne, contentissime di tenere fuori dal castello un branco di pirla che si pigliavano a colpi di spada dalla mattina alla sera.
I problemi seri però iniziavano nella seconda parte dell’anno, quando le giornate si accorciavano e le temperature diventavano più rigide. Aveva voglia la signora del castello a dire al marito: «Ma perché non vai a giocare un po’ fuori con i tuoi amichetti, anche se fa buio presto un morticino ci scappa sempre, no?». Niente, quello non si schiodava dalla sedia.
Ed è qui che entrano in scena i nostri eroi: i poeti provenzali. 

Innanzitutto chiariamo che il nome “professionale” dei poeti provenzali era trovatori, una parola che deriva dal provenzale trobar cioè “poetare”.
I trovatori sono i professionisti dell’intrattenimento medievale, visto che per tutto l’inverno, tutti i giorni dovevano inventarsi qualcosa di nuovo per allietare i signori del castello e la loro corte. E tutto questo senza intervistare la cognata della moglie del cugino dell’assassino che però si proclama innocente nonostante trentasei testimoni e le tracce di DNA.
Sebbene nell’immaginario collettivo siano visti come una sorta di giullari e simpatici nullafacenti, i trovatori in realtà provenivano dalle classi sociali più disparate: fra loro potevi trovare quello che effettivamente lo faceva per pagare le bollette (in senso figurato), ma c’era pure il nobile, ossia il figlio di papà che si sentiva artista e voleva esprimere il suo estro (ogni epoca ha avuto i suoi Povia). E non era rarissimo trovare fra loro anche delle donne, le trobairiz.

La prima cosa che ci insegnano a scuola riguardo i poeti provenzali, oltre al fatto che scrivessero quasi esclusivamente in lingua d’oc, è che, a differenza di quelli della scuola siciliana, avevano una certa libertà nel trattare tematiche politiche. Le cose però sono un ciccinino più complicate: i poeti siciliani erano tutti funzionari di corte dell’imperatore, ossia la massima carica politica dell’epoca, vale a dire che sopra di lui non c’era nessuno; i trovatori invece non sono dipendenti statali, sono un po’ gli animatori del villaggio, oggi sono al servizio di un signore ma domani potrebbero benissimo cambiare castello e questo consente loro una maggiore libertà di espressione, sparlando un po’ di tutto e tutti (imperatore compreso). Insomma i trovatori parlano di politica non perché hanno maggiore libertà intellettuale, quanto perché, in effetti, non gliene fregava niente e non si lasciavano sfuggire l’occasione di fare qualche battutina sul signore vicino o sull’imperatore stesso.

A parte la politica, i componimenti dei trovatori trattano anche altri argomenti come il ciclo bretone (Re Artù e la ricerca del Santo Graal, molto prima che se ne occupasse Indiana Jones) e quello carolingio (le avventure dei paladini di Carlo Magno), tuttavia dove davano il massimo era sull’argomento amore.
Per capire appieno questo argomento è necessario parlare dell’amor cortese.

Il concetto di amore inteso dai trovatori è abbastanza differente dal nostro: siete dei romanticoni cresciuti a Una mamma per amica e romanzi Harmony credendo che lasciare bigliettini sul parabrezza dell’auto della ragazza che vi piace fosse un gesto carino, ma tutto quello che avete ottenuto è una denuncia per molestie e un’ordinanza restrittiva del tribunale? Bene, i poeti provenzali stavano messi molto peggio di voi.
L’amor cortese infatti si basava su pochi e semplici concetti:
  • Il servitium amoris: la completa e totale dedizione all’amata e soprattutto ad Amore, inteso come una sorta di entità astratta, una facoltà capace di innalzare l’animo umano (non è che ci volesse molto, stiamo parlando di un’epoca in cui il massimo del bon ton era un rutto a fine pasto)
  • Il culto della donna: vista come un essere al limite del trascendentale, concetto poi ripreso anche dal Dolce stil novo
  • Assenza di pari opportunità: l’uomo sempre è inferiore alla donna, anche se si tratta di un ibrido fra Vanna Marchi e Daniela Santanchè
  • L’amore fedifrago: la donna amata è sempre sposata e il marito è pure contento perché…
  • Non si quaglia mai: il trovatore non fa mai vedere la sua “collezione di farfalle” alla donna amata
  • La religione: il poeta vive in un continuo stato di tormento perché è consapevole che il suo amore è in pieno contrasto con la religione cattolica (ricordiamo che siamo in pieno Basso Medioevo)

In pratica l’amor cortese è la versione medievale della Regola dell’amico degli 883.

Il trovatore, una volta timbrato il cartellino e preso servizio nel castello, si sceglieva una Domina, cioè una donna che fosse sua musa e protettrice. Come abbiamo detto, requisito indispensabile per essere una domina era essere sposata, in modo da giustificare l’amore struggente e insoddisfatto del trovatore che gli dava quella perenne espressione da ulcera gastro-duodenale.
Sebbene per il marito della domina fosse lusinghiero che sua moglie fosse oggetto dei componimenti di un poeta, c’è da dire che comunque il trovatore non si poteva certo permettere di scrivere: «Oh moglie di Gigi, con te farei certi numeri che nemmeno all’ISTAT», per cui cercava di celare l’oggetto del suo desiderio modificando il nome, ma talvolta anche l’aspetto fisico, ragion per cui nelle poesie provenzali troviamo una sfilza di donne bionde e con gli occhi chiari che manco in Svezia. Altro artificio usato dai trovatori per non farsi sgamare era quello di usare una particolare tecnica poetica: il trobar clus, che consisteva nel parlare per allegorie e metafore difficilmente comprensibili. Inutile dire che tutta sta manfrina era solo una scusa per dimostrare agli altri trovatori quanto si era bravi a padroneggiare un modo di poetare così ostico.
Tra l’altro il trobar clus è all’origine di un grosso equivoco. Il fatto che questi poeti parlassero per metafore non sempre chiarissime ha fatto nascere la convinzione che esistesse una sorta di “lingua segreta” che serviva per celare misteri esoterici e che il servitium amoris fosse una specie di culto pagano. E poi è questo blog che non parla seriamente di Letteratura.

«Fammi capire: questi si innamoravano di una donna sposata; non dormivano la notte per il rimorso verso la religione; non concludevano mai e forse forse ste poesie servivano solo per farsi belli agli occhi degli altri poeti?», direte voi a questo punto. Non proprio.
Ogni tanto i trovatori (e anche le trobairiz) qualche risultato lo portavano a casa, cioè dimenticavano tutte le questioni etico-religiose e ci si metteva più o meno su questo livello:




Non mi credete? Allora beccatevi una perla di Daude de Pradas, scritta evidentemente in un momento in cui il ragazzo era veramente in crisi:

non faccia discussioni [la donna]
quando si toglie blusa e gonna, 
ma ch'ella danzi giusta musica 
di chi non bada che d'amore 
s'evitin giochi più golosi: 
e s'ella più ne avesse appresi, 
nell'ammaestrare che non esiti!

E vi risparmio di citare altri componimenti in cui il trovatore riesce finalmente ad entrare nella camera da letto della domina: stiamo parlando di cose che al confronto il «biscottone inzupposo» di Banderas sembra roba innocente…

Ma veniamo alla questione centrale di questo post: che c’entrano i poeti provenzali con i rapper moderni? Molto più di quello che immaginate.
Abbiamo detto che i rapper si prendono a pesci in faccia con i dissing, ebbene i poeti provenzali facevano la stessa identica cosa, solo che le chiamavano tenzoni.
La tenzone era un tipo di componimento in cui due o più trovatori discutevano di argomenti più disparati: religione, etica, filosofia, poesia e via dicendo. La più antica è quella fra Ugo Catola e Marcabruno che si misero a discutere sulla natura dell’amore (non essendoci ancora il campionato di calcio non potevano discutere per 6 mesi di nobili argomenti tipo: «era o non era rigore?»). Detta così sembra una cosa civile, ma, come ogni discussione che si rispetti, presto le cose sono degenerate e in alcuni casi sono diventate tutto un: «Tu hai mi hai copiato», «E tu non sai scrivere», «Ti puzza l’alito», fino ad arrivare agli insulti sulle madri e le sorelle. E questi sarebbero i grandi poeti della tradizione.

Solitamente quando si parla di tenzone non si può citare quella celeberrima fra Dante Alighieri e Forese Donati. E infatti non la citerò. Tuttavia, giusto per farvi avere un’idea, vi riporto la tenzone fra Cecco Angiolieri e Dante Alighieri, purtroppo del Sommo non ci sono pervenute le risposte ma, parliamoci chiaro, nella Commedia si è tolto parecchi sassolini dalle scarpe, quindi ha poco da lamentarsi sulla par condicio


Dante Alighier, s’i’ so bon begolardo,
tu mi tien’ bene la lancia a le reni,
s’eo desno con altrui, e tu vi ceni;
s’eo mordo ’l grasso, tu ne sugi ’l lardo;

s’eo cimo ’l panno, e tu vi freghi ’l cardo:
s’eo so discorso, e tu poco raffreni;
s’eo gentileggio, e tu misser t’avveni;
s’eo so fatto romano, e tu lombardo.

Sì che, laudato Deo, rimproverare
poco pò l’uno l’altro di noi due:
sventura o poco senno cel fa fare.

E se di questo vòi dicere piùe,
Dante Alighier, i’ t’averò a stancare;
ch’eo so lo pungiglion, e tu se’ ’l bue.


Se il massimo dell’insulto per Fabri Fibra è «Mi stai sul c…», qui Cecco dice a Dante che, nell’ordine, è un: approfittatore, accattone, avido, maldicente, pezzente, rinnegato. Insomma, i dissing dei rapper, in confronto alle tenzoni, sembrano scritti dagli sceneggiatori di Pingu.
Altro punto di vantaggio dei trovatori sui rapper è che i primi non iniziano i loro componimenti sempre con «Yo, yo».

Molto ci sarebbe ancora da scrivere sulla poesia provenzale e sull’amore cortese, come il trobar ric, il sirventese e tutti i tipi di composizioni di questo tipo di poetica. Tuttavia, proprio perché vi voglio bene, è meglio finirla qui. Mi basta solo che, se proprio avete voglia di sentire delle parolacce, vi mettiate a cercare su Google Peire Vidal invece di ascoltare Emis Killa. 
Adesso però devo proprio andare, anche perché mi chiude il supermercato e ho finito le Girelle.


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