giovedì 28 marzo 2013

La Scuola Siciliana: C'era una volta un re seduto sul sofà...


I treni sono dei mezzi di trasporto orribili. No, non voglio rivangare l’annosa questione dei ritardi, anche perché se c’è un punto su cui tutti siamo d’accordo è che Mussolini è stato il più grande ferrotranviere-spurgatore della storia d’Italia: come faceva arrivare i treni in orario e bonificare le paludi lui... C’è da dire però che anche Martin Luther King abbandonerebbe i suoi propositi democratici quando dall’altoparlante della stazione si sente:

«Dlin Dlon. Si avvisano i signori passeggeri che il treno regionale Campobasso-Oslo viaggia con dodicimilasettecentoventicinque minuti di ritardo. Ci scusiamo per il disagio»


Innanzitutto: ma perché calcolano il ritardo in minuti pure quando superano un’ora, devo prendere il treno o risolvere il Quesito della Susi? Ma soprattutto: «Ci scusiamo per il disagio»? Ma dovete ringraziare che siamo in Italia, in un Paese civile come minimo avrebbero tagliato la testa del capotreno e l’avrebbero messa su un palo come monito, stile Kurtz in Cuore di tenebra. Senza contare che i bagni, quando non sono occupati da forme di vita sconosciute che ribollono dalla tazza, sono sistematicamente chiusi. In alcune religioni ti abbuonano settantacinque anni di Purgatorio se fai almeno una volta nella vita la tratta Foggia-Caserta. 

Altro che Mecca.

Vabbè, mi sa che sto un po’ trascendendo.


In realtà l’aspetto fastidioso dei treni è che sei costretto ad ascoltare le conversazioni degli altri. Ora, se avete visto e vi siete immedesimati nel commovente video di Barbara d'Urso che prende il treno non potete capirmi, ma se siete dei pezzenti come il sottoscritto e viaggiate più o meno regolarmente sui Regionali allora non avrete difficoltà a seguirmi nel discorso.

Sui treni Regionali non esistono prima e seconda classe, non esistono cabine e scompartimenti, i posti virtualmente sono illimitati, cioè la biglietteria continua a stampare i titoli di viaggio validi per quel treno fin quando non parte e c’è carta a disposizione, tant’è che quando ormai sei sistemato meglio di un pezzo del Tetris e vedi salire un signore con un trolley grande quanto un frigorifero, ti auguri una rapida e completa deforestazione dell’Amazzonia. Mi è capitato vedere gente svenire sul treno e rimanere perfettamente in piedi perché non c’era nemmeno spazio per cadere (tutto vero, non sto esagerando). Tuttavia, alcune volte, negli equinozi di primavera (ma solo quando Giove si allinea con Urano e Rete 4 non trasmette un film di Bud Spencer e Terence Hill) può capitare che si trovi un posto a sedere. 
E qui comincia il bello.

Le categorie di compagni di viaggio che vi possono capitare sono tantissime, per cui cercherò di sintetizzare in ordine crescente di fastidio:
  • Il musicofilo: lo si riconosce perché ha un Ipod nano di 3x3 cm ma delle cuffie delle dimensioni di un casco professionale da parrucchiera. È convinto di essere completamente isolato nel suo mondo, ma tiene il volume talmente alto che, nonostante muova la testa come se stesse ascoltando Marylin Manson che viene operato alla colecisti senza anestesia, tutto il vagone sa che in realtà è un patito di Enrique Iglesias
  •  Il bambino col raffreddore: dovete sapere che in epoca medievale quando si poneva una città sotto assedio e si voleva farla capitolare, non era inusuale che gli assedianti catapultassero all’interno delle mura i cadaveri dei nemici morti di peste, in modo che la malattia si diffondesse fra la popolazione. Ecco, la versione moderna sono queste adorabili creature che vanno in giro per tutto il treno
    starnutendo e pulendosi il naso dove capita (con una forte predilezione per i cappotti), dato che i genitori non conoscono l’esistenza dei fazzoletti di carta generalmente li si riconosce perché hanno un “trucco facciale” vagamente ispirato a Peter Criss, il batterista dei Kiss
  • Il/La fidanzato/a in crisi: ha litigato con il partner appena due secondi prima di partire, solitamente quello che è rimasto in stazione è più propenso a fare pace, per cui l’altro (che è seduto di fronte a voi) deve fare l’offeso facendo squillare il cellulare almeno una decina di minuti prima di rispondere. Quando si è deciso la conversazione procede su questo tono: «Che vuoi? […] No, no, no […] Ah, allora sarebbe colpa mia? […] Guarda che sei stato tu […]» Non vi illudete che prima o poi attacchi, anche se siete diretti a Copenaghen la telefonata durerà tutto il viaggio e comunque non lamentatevi troppo: la suoneria potrebbe essere quella del Pulcino Pio
  • Quello che ha la nipote a… : siete un astrofisico in odore di Nobel che lavora alla NASA? Avete scritto più libri di Stephen King e Isaac Asimov messi insieme? Fate l’idraulico in Olanda? Avete partecipato all’ultimo conclave? Qualunque cosa facciate, sul treno incontrerete una persona pronta a giurare che la nipote fa la stessa cosa vostra, solo che: è più giovane di voi, è laureata con il massimo dei voti (se lo siete anche voi allora vi dirà che però nella sua Facoltà da quando si è laureata hanno ritirato le lauree in quella disciplina come si fa per le maglie dei calciatori), parla dodici lingue, ha rifiutato una cattedra a Oxford per insegnare in America, è sposata con il primo cardiochirurgo al mondo che sia riuscito a trapiantare un cuore di cinghiale in un essere umano (o viceversa)

Ma, come vi dicevo, la sopportazione umana raggiunge il suo apice quando si è costretti ad ascoltare le conversazioni altrui. Intendiamoci, non è che mi dia fastidio che gli altri parlino: mi dà fastidio solo quando parlano per sentito dire e non puoi dare il tuo contributo perché hai la bocca occupata dal gomito del tipo in piedi a fianco a te che sta cercando di prendere la linea con cellulare per guardare Dragon Ball in streaming.
Le conversazioni sul treno riguardano gli argomenti più disparati, ma ci sono tre regole base:
  1. Se si parla di fatti personali si deve accennare a una disgrazia. La legge del treno è spietata, non sono ammesse gioie
  2. Anche se è scoppiata un’autocisterna piena di uranio impoverito liquido, anche se Godzilla ha distrutto la stazione di arrivo, anche se una pioggia di meteoriti ha disintegrato il macchinista, la colpa del ritardo è sempre del controllore. Sempre
  3. Qualsiasi sia l’argomento di conversazione (sport, politica, kung fu, lavaggio strade, fusione termonucleare a freddo), uno dei due interlocutori ha la soluzione per mettere tutto a posto

Quest’ultima regola, in particolare, nasconde la soluzione di tutti i problemi della nostra gloriosa Nazione: basta prendere qualsiasi pendolare di una certa età e fargli fare l’allenatore della Nazionale o il ministro dello Sviluppo Economico e tempo un paio di mesi si risolverebbero tutti i problemi. E risparmieremmo anche un sacco di soldi per le elezioni!


Nei miei lunghi anni da affezionato cliente Trenitalia però ho notato che c’è un argomento che torna sempre a galla, un po’ come la peperonata prima di mettersi a letto: la questione Unità d’Italia.

Adesso, alcuni di voi mi diranno: «Ma che treno prendi? Le discussioni che sento io di solito riguardano la promozione dell’Albinoleffe». Eppure vi dico che questo è un evergreen, anzi dato che ho viaggiato il mondo (una volta sono stato addirittura a Sondrio), vi dirò che è molto sentito sia al nord che al sud. E tutti (e in questo c’è davvero unità) se la prendono con Garibaldi, come se avesse organizzato una simpatica scampagnata con gli amici senza avvisare nessuno, che so tipo Cavour o Vittorio Emanuele. Quando sento ste cose la mia mente disturbata elabora l’immagine di Garibaldi al telefono:

«Ciao caro, sono Peppino, stavo organizzando per Pasquetta, pensavo una cosa al mare, tipo la Sicilia… Se puoi portare pure qualche amico? Ma pure mille, più siamo, meglio è»


Dato che di solito non entro in questo tipo di discussioni onde evitare di essere arrestato dalla polizia ferroviaria per oltraggio al pudore e turpiloquio, approfitto di questo spazio per esporre il mio punto di vista, alla maniera democratica che ultimamente sta andando molto di moda: io parlo-voi ascoltate-domande nada.


Ma andiamo per gradi.

Che il processo di unificazione dell’Italia sia incompleto è un dato riconosciuto da giuristi e filosofi, ma su un treno, alle 6.45 di mattina, non ci si può aspettare un ragionamento lucido da nessun essere umano mentalmente stabile, perciò di solito se la prendono con Garibaldi perché, cito testualmente, «nord e sud sono culturalmente diversi». Solitamente chi fa questa profonda analisi viene da quartieri come Vomero o Parioli, che non solo non si sentono integrati nella città, ma vorrebbero essere dichiarati principati autonomi come Monaco. Cercare di far ragionare un vomerese o un pariolino fondamentalista è come cercare di convincere l’Ayatollah Khomeini a mangiare le spuntature di maiale, ma se proprio la mattina siete in vena di risse potete tirare in ballo la prova inconfutabile che l’Italia, almeno sotto il punto di vista culturale, è davvero unita: la Scuola Siciliana.


Ebbene, c’è stato un fugace momento nella Storia in cui tedeschi e italiani andavano d’accordo senza tirare in ballo gli stereotipi sui crauti e sulla pizza, questo momento si ebbe fra il 1230 e il 1250, sotto Federico II di Svevia, imperatore e re di Sicilia.

Federico II era un sovrano illuminato, per capire che tipo fosse basta citare la Sesta Crociata: papa Onorio III gli affidò l’incarico di conquistare la Terra Santa, ma Federico proprio non se la sentiva, tant’è che mentre si organizzava il papa morì e gli successe Gregorio IX. Proprio quando il papa lo scomunicò, l’imperatore decise di partire, ma invece di uccidere i musulmani si mise d’accordo con loro e oltre a garantire la sicurezza dei pellegrini introdusse in Europa l’uso dello zero, senza il quale le partite a Uno diventerebbero più monotone ed io dovrei cambiare nome a questo blog.

Ma Federico II fu anche un grande appassionato di poesia. L’imperatore era affascinato in particolar modo dalle poesie provenzali, per cui cercò di ricreare qualcosa di simile in Sicilia, con delle piccole varianti:
  • I rimatori provenzali non erano legati alla corte, perciò avevano una scelta più ampia di temi, come per esempio la politica del signore (vabbè che Federico II era illuminato, ma non allarghiamoci troppo)
  •  I componimenti dei provenzali erano accompagnati dalla musica, cosa che invece non avveniva per quelli siciliani
  • I poeti provenzali erano dei professionisti

Chiariamo questo ultimo punto. Avete presente nei film di Fantozzi, quando il direttore megagalattico decide di coinvolgere tutti i dipendenti nel suo hobby, tipo il ciclismo, le barche o il cinema d’autore (La corazzata Potemkin)? È esattamente quello che fa Federico II: non avendo a disposizione rimatori in volgare siciliano di professione, decide di coinvolgere i funzionari della sua corte facendogli scrivere delle poesie. Ora, se siete degli estimatori delle poesie di Sandro Bondi e sperate in uno scenario post-apocalittico in cui i nostri nipoti le studieranno a scuola, beh mi spiace deludervi perché Federico II a corte aveva gente che si chiamava Jacopo da Lentini, Pier della Vigna, Stefano Protonotaro, Cielo d’Alcamo, Re Enzo… insomma, il fior fiore dell’intellighenzia italiana che all’epoca occupava posti di rilievo internazionale e che oggi lavorerebbe tranquillamente in un call center al salario minimo.


«Sì, tutto bello e commovente, ma che c’entra con Garibaldi?» 

C’entra, c’entra.


Innanzitutto è stato uno dei poeti della Scuola Siciliana, Jacopo da Lentini, ad inventare il componimento italiano per eccellenza: il sonetto, su cui potrei dilungarmi per ore, ma purtroppo ho la pastiera in forno.
Non vi ho ancora convinti? Allora considerate il fatto che la situazione linguistica in Italia nel 1200 sembrava un quadro di Jackson Pollock, praticamente ogni venti metri c’era un volgare diverso. Ebbene, queste poesie arrivano nelle mani dei copisti toscani che ne intuiscono la grandezza e cominciano a diffonderle, purtroppo però nel farlo le “traducono”, cioè le riscrivono in volgare toscano, dando vita a due grandi equivoci:
  • I poeti toscani (compreso Dante) non sapevano tutta sta storia dei copisti, perciò erano convinti che Jacopo da Lentini e compagnia parlassero esattamente come loro
  • Non sempre nel “tradurre” era possibile rispettare la rima, perciò a volte capitava che la i rimasse con la e chiusa (dire/vedere) e la u con la o chiusa (tutto/sotto). Quello che era un errore dei copisti è passato alla storia come un artificio stilistico chiamato rima siciliana

Nonostante questi inconvenienti però i poeti toscani e bolognesi apprezzano enormemente la Scuola Siciliana e proprio ispirandosi a questi componimenti (oltre a quelli provenzali) che nasce il Dolce Stil Novo grazie a Guido Guinizelli, che Dante definirà lo padre/mio e de li altri miei miglior (citazione necessaria che serve principalmente a salvare lo studente quando si viene interrogati su Guinizelli).

Avete il cuore di pietra e non vi siete commossi leggendo questa storia? Pensate che ci sia bisogno di qualcosa di più “politico” per affermare che culturalmente siamo una nazione unita?

Adesso vi sistemo io.

Nel 1478 a Firenze ci fu una sorta di colpo di stato: la congiura dei Pazzi. I Pazzi, contrariamente a quanto si pensa comunemente non erano degli esagitati, ma una famiglia di banchieri fiorentini avversi a Lorenzo de’ Medici. Un bel giorno, con l’appoggio del Papa e del re di Napoli Ferrante d’Aragona, decisero di eliminare Lorenzo, ma fallirono. Essendo questo detto il Magnifico e non il Fesso, fece impiccare i congiurati, ma non si mise contro il re di Napoli. Anzi, all’indomani della congiura si recò proprio da Ferrante e gli portò in dono l’Antologia Palatina, una voluminosa raccolta della poesia siciliana e toscana pesante come un autotreno carico di pentola a pressione. In pratica Lorenzo de’ Medici stava dicendo al suo acerrimo nemico «veniamo dalla stessa radice, non possiamo essere in guerra».
Immagino che adesso vi starete asciugando i lacrimoni pensando a come la letteratura e la poesia siano un linguaggio universale e che se ascoltassimo di più il nostro cuore non ci sarebbero guerre. E per non rompere l’atmosfera eviterò di accennare ai loschi patti politico-economici che Lorenzo e Ferrante misero in atto ai danni del Papa.

Qual è dunque la morale di questa storia? Che nonostante ci possano essere differenze insormontabili, alla fine non c’è niente di irrisolvibile se ci mettiamo d’accordo sotto il punto di vista economico.

E mi raccomando, portate sempre con voi una copia dell’Antologia Palatina quando prendete il treno: potrete sempre colpire violentemente il vostro interlocutore sulla testa. Magari non si convincerà sul vostro punto di vista riguardo l’unità d’Italia, ma almeno per un po’ non sarà in grado di sparare immani minchiate. 

giovedì 14 marzo 2013

Decameron di Boccaccio: ragazzi, venite che c'ho la villa libera


I letterati sono gente strana. Non mi riferisco al fatto che crediamo di poterci fare una vita con la cultura, quello sarebbe il meno, è che noi abbiamo la scala dei problemi totalmente sfasata. La crisi economica, la questione mediorientale, le energie rinnovabili? Per uno che ha studiato Lettere quella è roba da Miss Italia, tipo quando vince e Carlo Conti le  chiede:

«Allora cosa ti senti di dire?»
«Vorrei ringraziare la mia mamma, il mio papà e vorrei la pace nel mondo»

Un letterato ti tiene segregato due ore a parlare della Congiura di Catilina, si commuove per la peste del Seicento descritta da Manzoni manco l’avesse vissuta in prima persona e quando inizia un discorso sul ruolo della Francia nell’economia europea non vi lasciate ingannare: quasi sicuramente sta parlando di Vercingetorige.

In realtà tutto ciò non è sintomo di profonda cultura, quanto piuttosto del fatto che non avendo un lavoro come tutta la gente normale è costretto a passare il tempo e a sfogarsi in questo modo, almeno quando non è impegnato a piangersi addosso dicendo frasi del genere: «Dovevo nascere cinquant’anni fa, all’epoca sì che i laureati in Lettere erano apprezzati». Naturalmente in questa profonda analisi storico-sociale non tiene conto che attualmente ci sono precari della scuola ultrasettantenni.

Per quanto mi riguarda, io sfogo la mia frustrazione nel modo più molesto che un letterato possa concepire: correggendo gli altri. A dire la verità questa fastidiosa abitudine si manifesta nel soggetto molto prima che si laurei, come quando a quattordici/quindici anni ci si scambiano gli sms fra fidanzatini:



Ecco perché ci riproduciamo più lentamente dei panda e dei gorilla di montagna.

Chi soffre di questa patologia conduce una vita triste, nell’attesa di infierire crudelmente sull’apparato riproduttivo del povero malcapitato che abbia messo una Z in più in civilizzazzione. E non si limita ai conoscenti: frequenta blog che legge attentamente nemmeno fossero contratti Telecom, spulcia i tweet di giornalisti e politici per coglierli in fallo e poi postare al mondo il risultato, frequenta pagine Facebook correggendo amministratori e commentatori facendo emergere in loro i più brutali istinti forcaioli. Il buon senso non serve a niente, quando vediamo un errore diventiamo cani da caccia, una volta fiutato il sangue dobbiamo attaccare. Una volta ho discusso per tre giorni con il frequentatore di un gruppo (no, non era Gli ossessivo-compulsivi dell’ospedale psichiatrico) perché usava in maniera impropria la parola fandonia, come ogni buon tossicomane che si rispetti mi sono reso conto dell’atrocità delle mie azioni solamente dopo.

Ma signori miei, questo è niente, dove noi diamo il massimo, dove raggiungiamo l’apice di questa malata soddisfazione è quando sbagliano i professionisti, come i telegiornali. Non mi riferisco agli errori di battitura della striscia del Tg2 del tipo:

«Il presidento Nappolitano ha chiesto di abasare i tonni»

Quello che ci fa infuriare è più sottile, come l’uso di assolutamente:

«Lei è d’accordo con questa decisione?»
«Assolutamente»

Assolutamente cosa? Assolutamente è un avverbio, ci devi mettere qualcosa vicino, un sì, un no, un panino col salame, una qualsiasi cosa, ma da solo non ci può stare.

Personalmente ciò che mi provoca una serie di tic a ripetizione è l’uso scorretto dell’aggettivo boccaccesco, nel senso di pruriginoso, sporcaccione. Questa piccola parolina ha dato origine a uno dei più grandi equivoci della storia della Letteratura: Boccaccio è stato il maestro spirituale di Martufello.
Tuttavia la questione non è priva di aspetti positivi, infatti negli studenti più smaliziati, quando si parla di Boccaccio, si attivano nientemeno che tutti i diciotto neuroni dell’ACIDA (Area delle Cose Inutili Da Assimilare). In un adolescente medio di sesso maschile questa zona rappresenta il 2% del cervello e qui vengono immagazzinate le materie scolastiche e le raccomandazioni dei genitori, il restante 98% serve per la ricerca, catalogazione e archiviazione dei video di Belèn Rodriguez (non vi illudete anche le femminucce hanno l’ACIDA). Così mentre i giovani virgulti appena sentono nominare il Decameron sono convinti sia la versione medievale dei film dei fratelli Vanzina, il professore, manco fosse Morpheus in Matrix, può approfittare di questa falla del sistema per rifilare loro un pippone di due ore sul grandissimo autore fiorentino.

Ma vediamo effettivamente cos’è il Decameron.

Giovanni Boccaccio nasce a Certaldo nel 1313, probabilmente da una donna di umili origini e da Boccaccio Boccaccino (che, nonostante il nome, non era parente né del Cappuccino, né del Mocaccino). Il padre lavorava per la Compagnia de’ Bardi, che all’epoca era l’equivalente di una holding multinazionale con affari in tutto il mondo. A quattordici anni Giovanni e il padre si trasferiscono a Napoli per affari e qui il futuro scrittore inizia prima a cercare di apprendere i segreti del mestiere paterno, poi si dedica al diritto canonico, in realtà però il ragazzo non ne vuole sapere e invece di iscriverlo alla Scuola Radio Elettra per farne un eccellente consulente dell’Expo di Milano, il padre decide di lasciarlo libero di dedicarsi alla sua passione per la scrittura. Pensate che sfortuna per i milanesi!
Durante questo soggiorno nasce la figura di Fiammetta che solo per uno sfortunato caso del destino ha lo stesso nome della conduttrice di Wild, programma che costringerebbe Gandhi a rivedere le sue posizioni sulla non violenza e sul diritto di espressione. Come altre donne della letteratura (vedi Beatrice e Laura), Fiammetta è naturalmente solo un destinatario ideale delle poesie, probabilmente non è mai esistita e se è esistita magari si chiamava Concetta e nemmeno sapeva dell’esistenza di Boccaccio.

Ma veniamo alla parte interessante: com’è che il nome di Boccaccio è diventato sinonimo di indicibili zozzonerie? Perché nel 1349 inizia a scrivere la sua opera più famosa: il Decameron, la raccolta di novelle più importante della storia della Letteratura.
Giovanni Boccaccio non si limita a scrivere delle novelle a casaccio, ma le ordina all’interno di una struttura comunemente denominata cornice, cioè fornisce un pretesto per raccontare le storielle (che nella maggior parte dei casi non hanno nulla di pruriginoso).
Siamo nel 1348 e Firenze è devastata da un’epidemia di peste (in cui muore anche Boccaccino). Qui si vede il genio italiano: uno sceneggiatore americano avrebbe tirato fuori da questa situazione:
  •  Dieci stagioni di The Walking Dead 
  • Nel peggiore dei casi un originalissimo film catastrofico in 3D in cui uno dei genitori cerca il figlio e dopo tre ore e mezza di effetti speciali e dialoghi scritti da un opossum che cammina a caso sulla tastiera, finalmente i due riescono a riabbracciarsi.


Invece Boccaccio (a costo zero) piazza sette ragazze e tre ragazzi in una villa fuori città. L’allegra combriccola durante il giorno fa varie attività, ma il problema è svagarsi la sera dato che non si sono portati dietro nemmeno una Settimana Enigmistica. E cosa possono fare di sera dieci ragazzi in una villa abbandonata, senza alcun controllo? Esattamente il contrario di quello che state pensando. Infatti i giovani decidono di scegliere un argomento per ogni giorno e di raccontare una storiella in tema, ad eccezione di Dioneo che è il più giovane e perciò gli viene concesso di non attenersi all’argomento della giornata.

Per i personaggi della cornice Boccaccio sceglie dei nomi “parlanti” che non sto qui ad elencarvi, pure perché non è che appena finito di leggere vi trovate in salotto un professore di Cambridge pronto a interrogarvi.

Il nome Decameron invece viene dal greco e significa “dieci giorni”, cioè l’arco di tempo in cui si svolge la vicenda, facendo due rapidi calcoli capiamo bene che l’opera è composta da cento novelle, numero tondo tondo che richiama l’opera che Boccaccio ammirava di più: la Commedia di Dante Alighieri (sì, lo so che nel Medioevo il cento era un numero particolare, ma a me piace pensare che l’abbia fatto per Dante).

A questo punto dovrei farvi il riassunto di ogni novella, analizzarla, mettere in risalto i temi e esplicitare le fonti, ma già sento il caratteristico tintinnio delle compresse di barbiturico, quindi mettete giù i tubetti e tirate un sospiro di sollievo.
Quello che voglio dimostrare è che il Decameron non è affatto un’opera vietata ai minori. Per farlo non è necessario che lo leggiamo tutto, non che faccia male, ma sinceramente non riesco a immaginarmi nessuno che dopo dieci ore di fabbrica torna a casa e dice alla moglie:

«Ah, finalmente posso leggermi in santa pace il Decameron scritto in fiorentino del Trecento»

Ci basterà perciò fare un esperimento in tre semplici passi:
  1.  Trovare il Decameron in casa
  2. Toglierlo dal tavolo sotto cui lo avevamo messo per evitare che ballasse
  3. Aprire una pagina a caso


La legge dei grandi numeri ci insegna che se apriamo una pagina a caso dieci volte, almeno un paio di volte dobbiamo trovare una caviglia, una coscia, insomma qualcosa di licenzioso, invece con nostro grande stupore leggeremo solo di gente furba, pazza, stupida, fortunata.
A ben vedere le novelle “erotiche” (e non è comunque il termine più esatto) saranno cinque o sei, però tanto per cambiare sono quelle che si ricordano di più e che hanno dato origine all’accezione di boccaccesco che normalmente mi fa cadere le braccia (e sto usando un eufemismo).

Se invece volete una prova scientifica di quello che sto dicendo, basterà dare un’occhiata ai temi delle giornate:
  •  Prima giornata: Tema libero
  • Seconda giornata: Avventure a lieto fine
  • Terza giornata: Ritrovamento o ottenimento di una cosa che si desidera
  • Quarta giornata: Amori infelici
  • Quinta giornata: La felicità raggiunta dagli amanti dopo aver vissuto avventure incredibili
  • Sesta giornata: Risposte argute
  • Settima giornata: Beffe fatte dalle donne nei confronti dei mariti
  • Ottava giornata: Beffe di ogni genere
  • Nona giornata: Tema libero
  • Decima giornata: Avventure di ogni genere vissute con cortesia e magnanimità


Quindi il vero problema di tutto è la Settima Giornata che ha ispirato indimenticabili film come Decameron Pie, che ricordiamo per la magistrale interpretazione di Elisabetta Canalis, superata finora solamente dall’espressione delle triglie surgelate sul banco del pescivendolo.

Non che la situazione a scuola sia migliore, infatti dopo che la prof ha sudato come uno sherpa tibetano per spiegare il Decameron, alla fine è costretta a far leggere sempre la stessa novella da quarantacinque anni: Chichibio e la gru. Roba che anche la più animalista delle professoresse a un certo punto si sarà augurata la completa estinzione di questi simpatici volatili.

Il Decameron è un’opera per tutti, anzi alcune novelle potrebbero essere tranquillamente lette ai bambini al posto delle favole (Hans e Gretel bruciano viva una vecchina dopo essere stati abbandonati dai genitori, per dire). L’importanza di questa opera è tale che ne è stato affascinato anche Chaucer e ne ha fatto un modello per i suoi Racconti di Canterbury, quindi dovremmo considerarci abbastanza fortunati a poterla leggere in lingua originale.

E se proprio non ci va di leggerlo tutto, almeno pensiamoci due volte prima di dire boccaccesco. Potreste salvare la vita a un letterato evitando di fargli partire un embolo.


Aggiornamento e (inopportune) precisazioni...

In seguito alla pubblicazione di questo post mi sono arrivate delle mail simpatiche in cui mi hanno fatto le pulci per tutti i refusi, altre invece non proprio carine in cui ci si chiedeva come mai non mi avessero accompagnato a calci non-mi-ricordo-bene-dove fuori dall'università.
A questi ultimi voglio precisare che:

  1. Questo blog è ignorant-friendly, cioè si rivolge agli studenti con poca voglia di mettersi sui libri, ai miei nonni (che hanno fatto fino alla terza elementare), così come ai puristi della lingua italiana. Per questo motivo, a parte clamorose sviste (ce ne sono, anch'io sono figlio del Creato), tendo ad utilizzare l'italiano dell'uso medio, cioè la lingua parlata dai comuni mortali (confessatelo che anche voi non usate così spesso i congiuntivi)
  2. Se proprio siete dei puristi della lingua italiana, tenete presente che Tullio De Mauro e l'Accademia della Crusca hanno un sito ufficiale che potete leggere beatamente come un eroinomane si fa di metadone per disintossicarsi



Detto questo, vi prometto che in futuro non vi triturerò più le scatole col minipimer con queste  (inutili) precisazioni.