mercoledì 13 febbraio 2013

Tutorial: Come ti divento insegnante


Premetto subito: questo è un OT. Per mia nonna che mi segue con affetto dal suo IPad, OT significa Off Topic, cioè questo post non è conforme alle regole del blog, ma dato che sono l’unico a scriverci: chissenefrega (ma vi prometto che dalla prossima volta tornerò a parlare di Letteratura in senso stretto).

Visto che ultimamente si fanno tutorial su tutto, dalla torta di mele alla bomba a neutroni (tra l’altro il procedimento è abbastanza simile), quest’oggi voglio illuminarvi su come si diventa insegnanti.
Lo so che può sembrare strano, ma l’iter preciso l’ho scoperto solo la settimana scorsa, in un attacco di lucidità improvvisa, ma che fortunatamente si è subito dileguato.


Chi ha intenzione di diventare insegnante normalmente crede che basti iscriversi all’università, laurearsi, fare un po’ di pratica privatamente, quei ventiquattro/venticinque anni di supplenze… et voilà a settantacinque anni, senza che nemmeno ve ne siate accorti, siete diventati insegnanti di ruolo e potrete fare progetti per il futuro, sempre che l’artrite reumatoide ve lo permetta.
Semplice, semplice, no?


Invece non è semplice proprio per niente. La procedura corretta è custodita peggio dell’antico vaso dell’Amaro Montenegro. La leggenda narra che sia scritta su una pergamena fatta di pelle di insegnanti di sostegno, vergata per mano dell’ex ministro Fioroni con sangue di supplenti e sapientemente occultata in un tunnel segretissimo sotto il Gran Sasso, che collega l’Abruzzo alla Svizzera, la cui esistenza è stata rivelata solamente poco tempo fa dalla Gelmini.

Stavo per desistere ma, proprio mentre cercavo di fare un efficientissimo aeroplanino con la mia pergamena di laurea (fare lo scientifico mi è servito a qualcosa), mi è venuta un’illuminazione: «E se chiedo al sindacato?».
Per ovvie ragioni non dirò a quale sindacato mi sono rivolto, anche perché senza un particolare tipo di navigatore satellitare attualmente in dotazione alla NATO difficilmente potrete trovarlo. Dopo aver percorso una decina di volte la strada che mi era stata indicata, finalmente lo trovo: un palazzone in cui ci sono le sedi di varie associazioni.


Una volta entrato nell’androne mi dirigo sicuro verso l’ascensore e, mentre inveisco contro una divinità assiro-babilonese perché non riesco ad aprirlo, mi si avvicina una vecchina dolce, di quelle simpatiche e affabili come un principio di emorroidi il giorno in cui hai deciso di andare al maneggio.
«Guardi, che l’ascensore è solo per i condomini. Ci vuole la chiave per aprirlo»
«Ah, mi sa dire a che piano si trova il sindacato XXX?»
«Undicesimo».


Appena ripresomi dalla svenimento provocato dalla notizia che la gentile vecchietta mi aveva dato non senza un pizzico di malcelato sadismo, ho cominciato a salire le scale.
Ora, non so se abbiate presente cosa significhi salire fino all’undicesimo piano di un palazzo, vi dico solo che nel tragitto ho incontrato due Autogrill e all’altezza del sesto piano un signore ha cominciato a seguirmi e a battere le mani, incoraggiandomi come si fa con i corridori al Giro d’Italia.

Raggiunto l’undicesimo piano vedo due porte separate solo dall’ascensore maledetto: una era quella del sindacato, l’altra di una delegazione di Confindustria.

Provenendo da un’educazione di tipo classicista, ed essendo perciò abituato a trarre gli auspici dalle stelle, dal volo degli uccelli e da varie frattaglie di animali, non prendo come buon segno il fatto che dalla porta di Confindustria si sentano risate e persino una musichetta, mentre quella del sindacato giace sotto un silenzio tombale.

Prendendo il coraggio a due mani finalmente entro, vorrei dire «Permesso?» con un certo contegno, ma dato che soffro d’asma dopo undici piani sembro Darth Vader di Star Wars.

Ad accogliermi trovo un simpatico sindacalista con la tipica faccia dello schiavo egiziano costretto a portare i massi per la costruzione della Piramide di Cheope, sintomo inequivocabile degli anni di angherie subite dalla burocrazia. Mi fa accomodare alla scrivania.

Sindacalista: «Allora, in cosa posso esserle utile?»
Io: «Sono un neolaureato e vorrei sapere come si diventa insegnanti»
S: «…»
Io: «Ehmm»
S: «…»
Io: «(Colpo di tosse)»
S: «…»
Io: «(Mi guardo intorno)»
S: «…»


Adesso, l’ostinato silenzio del sindacalista e il suo stato di trance apparente potevano essere interpretati in due modi:
  1. Evidentemente fa parte anche lui del complotto e vuole mantenere il segreto del tunnel del Gran Sasso
  2. Sta ripensando al fatto che a quarantacinque anni è ancora costretto a fare le supplenze in un paesino del Molise che deve raggiungere a dorso di mulo cinque giorni a settimana, mentre suo cugino architetto vive a Los Angeles con una modella brasiliana

Non so perché, ma credo che il pensiero prevalente fosse il secondo.

A un certo punto finalmente decide di rompere il silenzio e mi risponde serafico:

«Appena esce il concorso fallo»
«Si, ma non ho fatto il TFA»
«Fallo lo stesso, tanto poi si fa ricorso»

Per chi avesse poca dimestichezza in fatto di concorsi pubblici, cerco di spiegare quel poco che ho capito:

  • Il Ministero ha indetto il famoso Concorsone che avrebbe dovuto dare una cattedra a dodicimila insegnanti abilitati
  • Gli insegnanti non abilitati e i neolaureati hanno fatto ricorso perché, essendo un concorso pubblico, non dovrebbe escludere solo in base ad un’abilitazione persone che hanno lo stesso titolo di studio (ma stiamo parlando in linea teorica)
  • A questo si aggiunge che invece di fare il concorso bastava assumere i precari della scuola, senza contare che ci sono persone che hanno vinto il precedente concorso del 1999 e ancora devono vedersi assegnata la cattedra


Se state pensando «Evvai, mo faccio il concorso senza TFA», smorzate subito l’entusiasmo: potete essere dei geni quanto volete, ma senza i punti supplementari (la definizione è mia) non riuscirete a passare nessun concorso.  
Come si acquisiscono questi punti?

  • Facendo dei master: prezzo di partenza 1000 euro, fino a 22.000 euro (gli zeri sono giusti, avete capito bene). Danno diritto a sei punti
  • Corsi di perfezionamento: costano qualche centinaio di euro, ma danno diritto solo a tre punti
  • Esperienza: ogni 180 giorni di insegnamento in una scuola danno diritto alla bellezza di dodici punti

Chiariamo ora un po’ di cose: master e corsi di perfezionamento sono per lo più erogati da privati (ma và?), spesso anche quando sono sotto il patrocinio di un Ateneo (ma ri-và?).

L’esperienza è fondamentale, ci sono diversi modi per farsi assumere da una scuola privata:

  • Presentare la MAD (Messa a disposizione) un modulo in cui ci si mette a disposizione della scuola indicando la classe di insegnamento. Il problema è che spesso anche le scuole private preferiscono attingere dalle graduatorie, quindi quello delle MAD è un sistema che porta benefici solamente al vostro psicoterapeuta (non ce l’avete ancora? Ce l’avrete, ce l’avrete…)
  • Aspettare che si aprano le graduatorie di istituto (le prossime sono previste per il 2014), ma anche nel caso riusciste a rientrare in graduatoria avrete il posto assicurato solo per tre anni
  • Lavorare GRATIS. Curiosamente le scuole private quando sentono che pur di fare punteggio siete disposti a lavorare gratis vi spalancano le porte, vi abbracciano, aprono lo spumante, uccidono il vitello grasso per il figliol prodigo. Così in cambio dei dodici punti dovrete lavorare almeno 180 giorni e a fine mese firmare una busta paga di 1200-1300 euro, di cui però non vedrete mai un centesimo, con forti conseguenze per il vostro fegato che si ingrosserà come la camera d’aria di un trattore

In verità ci sarebbe un terzo metodo: Lavorare PAGANDO. Se siete fortunati la scuola privata vi farà pagare solo i contributi (30-40 euro mensili), altrimenti vi farà pagare anche il “servizio” che vi offre (i dodici punti) e qui la tariffa varia da 150 a 200 euro mensili (parlo per esperienza personale). Questo “servizio” che da noi è ampiamente condiviso e apprezzato, in altri Paesi ha un nome specifico: peculato. 

Giusto per dare a questo post l'aspetto di un vero tutorial, faccio una breve ricapitolazione, e allora:





La mia reazione una volta acquisite queste informazioni è stata di vivo sgomento e per non cadere nel triviale vi propongo la versione edulcorata del successivo scambio di battute fra me e il sindacalista:

Io: «Perbacco! Bisogna essere ben birichini per mettere in essere siffatte regole»

Sindacalista: «Talvolta chi legifera non lo fa con la sede dell’intelletto, ma con organi che presiedono a ben altre funzioni. È per evitare simili inconvenienti che in alcune religioni praticano la circoncisione»


Inutile dirvi che dalla sede del sindacato sono uscito che somigliavo anch’io a uno schiavo egiziano addetto alla Piramide di Cheope. La mia faccia era talmente sconsolata che il signore del Giro d’Italia, mentre scendevo le scale, ha cominciato a farmi pat-pat sulla spalla.


A questo punto della narrazione ci starebbe bene il colpo di scena, la trovata geniale, ma da quello che ho capito la stanno aspettando tutti gli aspiranti insegnanti.
L’unica cosa che possiamo sperare è che Chuck Norris abbia un figlio laureato in filosofia del linguaggio all’Università di Cassino e si decida una buona volta a far saltare quel maledetto tunnel sotto il Gran Sasso.


Nel prossimo post torno a parlare di Letteratura. Mi sa che è meglio.

giovedì 31 gennaio 2013

Giacomo Leopardi: un poeta emo...zionante


Ognuno di noi ha una nemesi: Superman e la kriptonite, Topolino e Gambadilegno, Luca Giurato e la grammatica, mio nonno e la risintonizzazione del digitale terrestre… La mia di nemesi si presenta un paio di volte all’anno sotto forma di telefonata stile The Ring, solo che purtroppo dall’altra parte non c’è Samara Morgan che mi dà sette giorni di vita, ma mi invitano alla rimpatriata con i compagni di scuola.

Premetto che non ho niente contro di loro, anzi. È che in certe situazioni non so proprio come comportarmi. Il fatto è che i miei ex-compagni di scuola hanno preso strade più pragmatiche della mia: c’è chi fa l’avvocato, chi l’ingegnere, chi il medico, il professionista… tutti rigorosamente precari a tempo determinato, beninteso, ma almeno sono sollevati dall’incombenza di litigare a fine mese con le madri dei ragazzi per farsi pagare le ripetizioni. Insomma, l’unico che è rimasto fedele a sé stesso sono io (che è un modo elegante per dire che la mia situazione a trent’anni è identica a quando ne avevo sedici).
Per evitare quelle tre/quattro ore di agonia sociale, la soluzione più logica sarebbe quella di declinare gentilmente l’invito e passare la serata a dondolarsi sul divano in posizione fetale ripetendo all’infinito il mantra: «anch’io ce la posso fare, anch’io ce la posso fare, anch’io ce la posso fare…».
Sfortunatamente però alla fine prevale l’innato masochismo, tipico di chi si iscrive a una facoltà umanistica, e perciò si decide di andare. Per darti un contegno abbandoni a malincuore la tua comoda felpa post-adolescenziale e le scarpe da ginnastica e metti una camicia, evento talmente raro che tuo padre corre a prendere la telecamera, mentre tua madre chiama tutti i parenti per sapere se è morto qualcuno.

E così, mentre ti allontani fra i singhiozzi di tuo padre che urla: «Questo, è mio figlio!», raggiungi il luogo dell’appuntamento. Solitamente è una pizzeria di periferia che normalmente farebbe ribrezzo anche ai frequentatori dei peggiori bar di Caracas, ma diventata clamorosamente cool da un giorno all’altro perché il proprietario ha avuto un’illuminazione: piazzare all’esterno uno di quei funghi caloriferi che fanno tanto Milano-Vende-Moda.
Per metà della serata stai in piedi con un bicchiere in mano e con un sorriso sulle labbra che all’esterno purtroppo viene interpretato come una paresi, maledicendo il giorno che non sei diventato astrofisico come il tuo compagno di banco, che ora lavora alla NASA. Quando all’improvviso qualcuno si avvicina e ti chiede: «Allora, di cosa ti occupi di bello?».


A questo punto hai solo due opzioni:

  • Dire la cruda verità, attirando la compassione di tutti i presenti e spingendo qualcuno, mosso a pietà, a darti di nascosto un sacchetto con gli avanzi, a fine serata
  • Inventare delle balle talmente inverosimili che a confronto Spielberg è lo sceneggiatore dell’Albero Azzurro

Generalmente si procede con l’opzione 2. Per cui ostenti improbabili collaborazioni con una rivista di critica letteraria.
«Ah, e come si chiama?»
«La Sineddoche», rispondi prontamente, mentre ti chiedi com’è che ti è venuto in mente un nome così idiota.


E così, mentre tutti parlano del futuro radioso che li aspetta, dei contratti a tempo indeterminato (che per i laureati in Lettere equivalgono non solo a trovare l’Arca dell’Alleanza, ma scoprire che dentro c’è pure il Santo Graal); a un certo punto il tuo cervello disattiva lo screen-saver perché qualcuno ha parlato di letteratura.
Ora, la mia maledizione è essere circondato da persone informatissime sulla letteratura contemporanea: vi sanno dire vita morte e miracoli di Dan Brown; perché, già che c’era, la Yoshimoto ha scelto come pseudonimo Banana e non Kaki; come mai i numeri di Paolo Giordano si sentano così soli. Purtroppo però a questa profonda erudizione si accompagna una solida e ferma convinzione: la letteratura italiana non ha prodotto nulla da Italo Svevo a Tiziano Terzani.

E qui finalmente venite coinvolti in una discussione, che inizia con questa frase:
«Ma chiedilo a lui, che è laureato in Lettere!».

Frase che mi costringe a parlarvi dello IUSP, l’Indice di Utilità Sociale Percepita (non lo googlate, tanto me lo sono inventato io, in anni di rimpatriate).
Lo IUSP indica, in una scala da 1 a 10, come la società considera l’utilità di certi soggetti, facciamo un esempio:

Domanda: «Ingegnere?»
Società: «9»
D: «Architetto?»
S: «8»
D: «Idraulico?»
S: «10»
D: «Fisico?»
S: «4»
D: «Ma senza di loro non ci sarebbero i telefonini»
S: «Allora 15»


Ecco, in questa scala i laureati in materie umanistiche hanno voto 3, cioè per consultarvi non si devono scomodare a prendere il dizionario in libreria, ma comunque siete meno utili di Wikipedia (ma solo per le pagine di storia e letteratura, ovviamente).

È proprio a questo punto che qualcuno se ne esce con una frase del tipo:
«Oh, io non ne capisco niente, mi ricordo solo che Leopardi era un depresso del …».
La reazione seguente del letterato dipende dal suo temperamento:


  •  Attivo: attacca con una filippica in cui se la prende con tutti i ministri dell’Istruzione dall’Unità d’Italia fino a ieri, con il governo, con gli americani, le scie chimiche, la tv spazzatura, i parcheggiatori abusivi, gli autovelox sulle statali…
  • Passivo/Passivo: sorride bonariamente, ma nel frattempo gli è venuta un’ulcera gastro-duodenale e comincia a sanguinare dal naso, dissimulando con un «Eh, mi succede sempre»
  • Passivo/Attivo: sorride bonariamente, ma appena uscito si sfoga dando calci ai bidoni della spazzatura e picchiando moglie e figli appena rientra a casa

Vi starete chiedendo dove sia quello che discute pacatamente, facendo capire le sue ragioni. Semplicemente NON ESISTE.

Ma vediamo perché Leopardi non era un depresso, almeno non nel senso più stretto del termine.
Il conte Giacomo Leopardi nasce nel 1798 a Recanati, ridente cittadina delle Marche famosa anche per… no vabbè è famosa solo per Leopardi. 
Il giovane Leopardi cresce nella famiglia che tutti i bambini desiderano: un padre autoritario e reazionario che arriva quasi a frustare i contadini che lavorano per lui, una mamma affettuosa e comprensiva come la signorina Rottermeier di Heidi e che gli ripete in continuazione: «Giacomo, non mettere i gomiti sul tavolo», «Giacomo, tieni la schiena dritta sennò diventi gobbo», «Giacomo, non avvicinarti troppo a Silvia ché ha sempre la tosse e ti becchi qualcosa».
Roba che a confronto Alcatraz sembra un villaggio Alpitour.

Essendo i suoi genitori persone attente e sensibili, notano che il piccolo Giacomo fa fatica a relazionarsi con gli altri e perciò invece di mandarlo a scuola, in un collegio, al campeggio estivo, insomma in un posto qualsiasi pur di farlo socializzare, decidono di educarlo in casa, stando bene attenti ad evitargli qualsiasi contatto umano. E mica chiamano SOS Tata, no, loro si affidano a due gesuiti che al posto di fargli fare una paginetta di A, le tabelline o la fotosintesi clorofilliana, lo caricano come un cammello beduino di libri sulla teologia, latino e filosofia.

In ogni caso Giacomino inaspettatamente non chiama il Telefono Azzurro e a quattordici anni ha già assorbito come una spugna tutti gli insegnamenti dei suoi precettori. Tiè. Così nel 1812 dice ai genitori:
«Vado un attimo in biblioteca, se mi cercate sono là».
Uscirà sette anni dopo.
Il periodo di studio matto e disperatissimo normalmente fa cadere le braccia (e sto usando una metafora) allo studente medio di qualsiasi ordine e grado, che si domanda:
«Ma com’è possibile che questo in sette anni impara, tra l’altro, da solo l’ebraico, il sanscrito e il francese e io che spendo duemilatrecento euro all’anno in tasse scolastiche faccio ancora fatica con la tabellina del nove?».
La risposta è semplice: innanzitutto stiamo parlando di Leopardi, non è che a scuola ti fanno studiare il primo fesso che impara francese da solo; ma soprattutto bisogna considerare l’epoca. Leopardi non usciva mai di casa, non aveva non dico la radio, ma nemmeno il grammofono; televisione nisba, internet manco a parlarne, Playstation e Xbox nada. Insomma, passate quelle sette/otto ore a guardare dalla finestra Teresa (che avrebbe avuto tutto il diritto di denunciarlo come stalker, non fa niente che le ha dedicato A Silvia), doveva vedere come passare il tempo.
Altro che partite a Halo 6.


Nonostante il suo isolamento però Leopardi comincia ad imporsi nel panorama intellettuale e a diciotto anni, invece di prendere il foglio rosa, scrive un’accalorata lettera contro il Romanticismo indirizzata a Madame de Staël che, contrariamente a quanto possa suggerire il nome, non era un’attrice a luci rosse.
Il fatto che la sua lettera venga pubblicata non è un dato da dare per scontato: non è che la baronessa sapesse che quello poi diventerà Leopardi, e poi bisogna considerare che vivere a Recanati nell’Ottocento e immettersi nel dibattito intellettuale sul Romanticismo, è come se oggi un biologo dello Zimbawe volesse dire la sua sulle cellule staminali… e lo ascoltassero anche.


Incoraggiato da questi eventi finalmente Leopardi decide di lasciare casa per compiere il suo destino, ma la fuga viene sventata dal padre, a cui mancavano solo le piantagioni di cotone per iscriversi all’albo ufficiale degli schiavisti.
Adesso, se vi siete commossi con i film che colano melassa dal televisore stile Step Up, in cui la gatta morta di turno non può seguire il suo sogno di entrare nella scuola di Amici di Maria De Filippi perché vive in una cittadina a venti chilometri dalla grande città, circondata da familiari affettuosi; figuratevi come si doveva sentire Leopardi che era malato, sapeva di essere un genio, ma stava a trecento chilometri dalla città più vicina, per di più con una famiglia accogliente come un freezer d’inverno.

Non c’è quindi da stupirsi se Giacomo a questo punto sviluppa una sua personale visione della vita che oggi si definirebbe orrendamente con la parola emo. In realtà però Leopardi non è affatto emo (se lo dite di nuovo vi troverò, mi introdurrò a casa vostra nottetempo e vi mangerò il cuore ancora palpitante. Lo giuro), per avallare la mia tesi vi propongo un piccolo schema:



E con questo credo di aver fugato ogni dubbio.

Finalmente però ottiene il permesso di recarsi a Roma, ma dato che la città che si era immaginato era quella che aveva studiato sui libri, rimane oltremodo deluso dal clero corrotto, dalla classe politica inetta, dall’enorme numero di prostitute e cortigiane. Giusto per capirci: è come se mancaste dall’Italia da vent’anni e in tutto questo tempo siate riusciti a vedere solo il Tg4: è naturale che l’impatto con la realtà non può che essere catastrofico.
Una volta sciolte le briglie, già che c’era, Leopardi comincia un lungo tour per l’Italia e conosce gente come Niccolò Tommaseo e Alessandro Manzoni. Mica cotica.
Ovviamente adesso non è che mi metto a tirarla per le lunghe con la vita di Leopardi, né tantomeno ho intenzione di analizzare L’Infinito, operazione che presenta due inconvenienti: provocare attacchi violenti di narcolessia e attirare battute di dubbio gusto.

Ciò che mi preme piuttosto è parlare della Canzone leopardiana.
Qualsiasi studente nota con vivo disappunto che la maggior parte delle canzoni di Leopardi non presentano uno straccio di rima o schema metrico, il che fa di solito esclamare: «Eh, ma così sono bravi tutti!».
Vi confesso che l’ho pensato anch’io (e anche se non lo dite, so che lo avete pensato anche voi), ma Leopardi è come Picasso (non intendevo alcolizzato e pieno di donne): è un grande artista che avrebbe potuto raggiungere le vette seguendo metodi canonici, magari scrivere un indigestibile poema di quattromilanovecentosessantasei esametri dattilici, ma invece ha voluto sviluppare un suo stile, dare forse più spazio ai contenuti che alla formalità, non per niente era anche un filosofo.
E tutto sommato forse non lo considereremmo nemmeno tanto “piagnone” se a scuola ci facessero studiare un pochino anche le Operette morali.

MESSAGGIO PER I MIEI EX-COMPAGNI DI SCUOLA:

Dai stavo scherzando, non è che non mi invitate più? 

venerdì 18 gennaio 2013

Inferno canto V - Paolo e Francesca: "Cielo, mio marito!"


Se c’è una cosa che non sopporto degli scrittori è che si ostinino a morire. No, non sono uno di quelli che pensa ai meravigliosi capolavori che i poeti antichi potevano ancora regalarci, del resto se Paul McCartney si esibito con Lady Gaga, non voglio nemmeno pensare cosa avrebbe potuto combinare Foscolo oggi (che so, una cosa tipo Scusa ma ti chiamo Ortis). È che proprio, come avrebbe detto Pasolini, non mi va l’idea che uno non possa difendersi. 

Mi spiego: di tanto in tanto nella mia casella mail, oltre alle pizze illimitate che Groupon mi istiga a mangiare, capitano dei messaggi di forum letterari, a cui mi sono iscritto quando ero ancora giovane e idealista, convinto che potessi tirare a campare con la cultura (non è il caso di farmi la predica, lo so che era meglio se andavo a drogarmi come tutti quelli della mia età). Ebbene, un giorno mi capita di leggere che il “celebre scrittore XXX”, alla sua opera prima, ha deciso di «rileggere in chiave moderna un classico della letteratura italiana…».



Al che mi sono sorti alcuni dubbi:
  • Se lo scrittore XXX (la mia coscienza critica mi impedisce di dirvi il nome) è al suo primo libro, come fa a essere celebre? Cos’è che ha fatto per rendersi popolare, rubava gli stereo dalle macchine nel quartiere?
  • Visto che sei alla tua opera prima, potevi farlo uno sforzo piccolino e cercare di scrivere una storia tua, senza far rivoltare nella tomba uno che è morto da cinquecento anni, o no?

Facciamo un esempio: voglio scrivere Il nome della rosa in chiave moderna, le alternative sono due: mi metto in contatto con l’autore che mi dà l’autorizzazione o meno; oppure copio spudoratamente la trama, costringendo l'ottimo Umberto Eco non solo a denunciarmi per plagio, ma anche a presentarsi sotto casa mia per prendermi a badilate sugli incisivi. E non avrebbe tutti i torti.



Come avrete capito ho un’antipatia per le riletture in chiave moderna, non per un fatto intellettualoide, ma per il troppo bene che voglio alle opere e agli scrittori (come specie biologica, intendo).

Alcune opere sono belle e verosimili proprio perché sono ambientate in una certa epoca. Hai voglia a dire che Romeo + Giulietta con Leonardo di Caprio è un film che riprende l’atmosfera shakespeariana, le cose oggi sarebbero andate molto diversamente. Eccome.

Giulietta (che, ricordiamo, ha tredici anni) avrebbe scritto su Facebook:

Romeo e’ trp fik xo' e’ 1 kOlLa ciOe’ sTà smp adDosso xcio’ lo pisciato



Che tradotto, pressappoco significa: 



Romeo è sì un gran bel ragazzo, ma ahimè è troppo legato a me medesima, per cui mio malgrado ho dovuto interrompere la relazione con lui, lasciandolo al suo destino

E buonanotte al Bardo.

Adesso pensate alle conseguenze disastrose che un’operazione del genere potrebbe avere sulla Commedia di Dante Alighieri. Non sto parlando di un canto qualsiasi (Hannibal Lecter volendo è la versione moderna del conte Ugolino), ma del canto V dell’Inferno, dove il poeta incontra Paolo e Francesca.

Ma come ogni puntata di Quarto grado che si rispetti, è necessario un piccolo riepilogo:
Francesca da Polenta (e no, non era detta la “Valsugana”) viene data in sposa per motivi di interesse a Gianciotto Malatesta, da cui però non si sente attratta, il che è abbastanza strano perché:

  • Francesca ha sedici anni
  • Suo marito è zoppo
  • Sta sotto la cinquantina (e vi assicuro che nel 1200 i cinquantenni non assomigliavano a Banderas mentre prepara i biscotti per la gallina)
  • Gianciotto ha la finezza e la grazia di una gara di rutti all’Oktober Fest.

Francesca passa i giorni a leggere libri d’amore, quando gli capita a tiro il fratello del marito, Paolo, e, un po’ per per tutte quelle storie, un po’ perché nel castello effettivamente non c’è una beneamata da fare, i due cadono l’una nelle braccia dell’altro.

Il resto è cronaca nera: Gianciotto scopre di avere più corna di un bue muschiato, a cui tra l’altro assomiglia vagamente, e in un colpo solo elimina il problema dell’infedeltà e dell’eredità da dividere col fratello. 

Alla faccia di tutti gli avvocati divorzisti.


Con molta probabilità oggi la notizia finirebbe ai telegiornali, intervisterebbero il capo del RIS di Rimini, centomila perizie, gli psicologi farebbero un’analisi del povero Gianciotto che ha avuto un’infanzia difficile, a Porta a Porta farebbero vedere il plastico del castello di Gradara con tanto di schizzi di sangue sul libro galeotto, Barbara d’Urso intervisterebbe la cugina di Francesca che ha fatto un provino per il Grande Fratello, alla fine l’assassino viene rilasciato con la condizionale e ci scrive pure un bel libro in cui racconta la sua verità e da cui Canale 5 ci ricava una fiction di trentasei puntate con Gabriel Garko nel ruolo di Paolo e Cristina Capotondi in quello di Francesca.

E invece no! Nel Tredicesimo secolo Gianciotto Malatesta è un uomo potente e, approfittando dell’assenza di intercettazioni ambientali (ma sarebbe stato lo stesso anche nel XXI secolo, con le intercettazioni), mette tutto a tacere. 
Tuttavia il fattaccio non sfugge a Dante Alighieri che decide di rendere giustizia ai due sfortunati amanti immortalandoli nel V canto dell’Inferno.

Questo canto della Commedia di Dante è quello più soggetto  al conflitto di interessi. Cercherò di spiegarmi meglio: Dante è un ottimista, perciò il suo Inferno si restringe man mano che si procede verso il basso, conferendogli quella caratteristica forma a kebab che noi tutti conosciamo e apprezziamo.



  



Qui i peccati veniali vengono puniti più in alto dato che si presuppone che i peccatori violenti siano la minoranza, ma probabilmente questa è una distorsione dovuta al fatto che Dante non abbia mai letto Cronaca Vera. In pratica man mano che scende il poeta incontra “meno” peccatori, puniti più severamente.

Ora, il fatto è che Dante ha commesso peccati di lussuria nella propria vita, sia per il suo passato di poeta stilnovista, sia perché dopo la morte di Beatrice il ragazzo si è dato da fare, le rime “petrose” infatti rasentano la pornografia. 
Ebbene (se state ancora leggendo invece di cercare le rime “petrose”), chi sono i primi dannati con cui Dante parla e che quindi hanno pena più lieve? I lussuriosi, che per punizione vengono sballottati per l’eternità in una specie di uragano, al che verrebbe da dire al Sommo: «Ma come? Ai sodomiti li fai correre avanti e indietro sennò fanno la fine dei toast che vendono all’Autogrill e questi invece si fanno il giro sulle montagne russe?».
La legge del contrappasso ad personam.

Ad ogni modo, il nostro poeta appena scende nel secondo cerchio incontra Minosse, che assegna la pena ad ogni dannato, secondo un sistema che non sto qui a spiegare ma che potrebbe certamente snellire i tempi processuali in Italia. Naturalmente il giudice infernale si accorge che Dante è vivo e lo rimprovera, ma Virgilio gli dice: «vuolsi così colà dove si puote/ ciò che si vuole, e più non dimandare», che nella Commedia equivale a tirare fuori il distintivo dell’FBI come nei film americani.

Proseguendo oltre i due giungono su un dirupo da cui si vede un turbine che avvolge diverse anime e Virgilio qui comincia ad additare manco fosse alla fiera bovina: «Lì sta Semiramide, là ci sta Didone, se guardi lì ci stanno Cleopatra, Elena, Paride, affianco alla scimmia ammaestrata c’è Tristano…».
A un certo punto due anime che volano insieme come colombe, attirano l’attenzione di Dante che chiede se può parlarci (e certo che ci puoi parlare,  mica Virgilio fa l’agente di Tecnocasa che ti vuole vendere una mansarda all’Inferno). Al che i due piccioncini si avvicinano e rivelano la loro identità: Paolo e Francesca.


STOP



Adesso bisogna sfatare alcuni luoghi comuni:

  1. Francesca ha 25 anni e Paolo 39, quindi la tesi dei due giovani inesperti che si innamorano non regge. Checché ne dicano Blake e tutti i romantici
  2. Il “fedelissimo” Paolo era sposato con Orabile Beatrice di Ghiaggiolo, con cui prima di morire aveva fatto in tempo a mettere in cantiere due figli
  3. Pure Francesca aveva avuto due figli da Gianciotto
  4. Il fatto che i due al momento della strage stiano leggendo un romanzo su Lancillotto e Ginevra non è «un chiaro indizio che Dante era un templare» (mi è capitato di sentire anche questa). Se leggo un libro di cucina, mica dimostro chiaramente di essere Antonella Clerici. O almeno spero



Evidentemente non avete bisogno dell’ennesima pallosissima parafrasi del canto, anche perché parafrasare Inferno V è un’esperienza entusiasmante come girare il mondo. Ma con Google Maps.

Tuttavia voglio porre l’attenzione sul verso 90, in cui Francesca dice:


noi che tignemmo il mondo di sanguigno



Perché proprio questo verso? Semplicemente per vendicarmi di tutti i professori di letteratura che ho avuto dai cinque anni, fino all’altro ieri, del resto il blog è mio e me lo gestisco io (non so se vi avevo detto che sono un femminista).

Comunque, dicevo, a scuola ci insegnano che sanguigno è riferito al fatto che i dannati abbiano macchiato il mondo con il loro sangue o con quello di altri. 
Adesso, alla faccia di tutti i commentatori plurilaureati che hanno buttato il sangue e gli anni più belli della loro vita in ricerche su manoscritti vecchi e ammuffiti, credo che il verso sia stato mal interpretato. Non voglio fare il fenomeno, ma essendo nell’animo una vecchia zitella inglese di epoca vittoriana, tendo ad interpretare le parole di Francesca in questo senso:


noi che tignemmo il mondo di sanguigno (per il nostro peccato)



Voglio dire che la ragazza parla in senso figurato: è stato il fatto di aver commesso il peccato stesso di lussuria a tingere il mondo di sangue, cioè a renderlo più cattivo, e non perché è stato effettivamente versato del sangue a causa del peccato (lo so che non mi sono spiegato bene, ma ho riscritto questa parte trenta volte e questa è la versione migliore).


Qual è dunque la morale della storia di Paolo e Francesca, ammesso che ve ne sia una?

Innanzitutto bisogna notare che in tutto il canto Paolo non apre mai bocca, dimostrando che le dinamiche  in un rapporto uomo-donna, quando si tratta di raccontare una versione dei fatti, sono rimaste pressoché invariate nel corso dei secoli.

Soprattutto però il canto V di Inferno ci insegna che per quanto le tecniche investigative siano all’avanguardia, per quanto gli studi sociologici possano aiutare a capire certi fenomeni, alla fine una poesia può rendere giustizia più di diecimila plastici in seconda serata.


E se proprio devo finire all’inferno, speriamo che nel mio kebab non ci mettano la cipolla.

martedì 8 gennaio 2013

Gabriele D'Annunzio: la costola con il poeta intorno


Parliamoci chiaro, gli stereotipi ci aiutano a vivere meglio. Quando per esempio rispondo a un’offerta di lavoro e dico che sono meridionale, dall’altro capo del telefono seguono cinque secondi di imbarazzante silenzio in cui il mio interlocutore mi immagina: o in sette su un motorino, o vestito da Pulcinella che suono il mandolino. E l’unica cosa che gli viene in mente di chiedermi non è tanto come mi pongo nei confronti del metodo filologico di Bédier, ma piuttosto come mai la pizza della moglie non viene così morbida come quella che ha assaggiato l’unica volta che è sceso più a sud di Frosinone, nel ’76.

Allo stesso modo quando si parla di poeti la nostra mente tende a concepire solo due opzioni:

          
           A - Il poeta trionfante: alloro, mantello, penna d’oca, insomma tutto il kit canonico
          B - Il poeta maledetto: quello sofferente, più pesante di un kebab a colazione, più triste di un’intervista a Briatore

In realtà esiste un altro tipo di poeta: il gaudente.  Questo è il tipo di poeta che non segue tanto una vocazione, quanto una riluttanza: al lavoro. Stiamo parlando del genere di persona che proprio non se la sente di andare a lavorare, ma del resto è troppo intellettuale per scippare le vecchiette appena uscite dalla posta. Tutto ciò non significa che il gaudente non sia un bravo poeta, tutt’altro: la sua idiosincrasia per il lavoro lo costringe ad applicarsi talmente tanto nell’arte poetica da diventare un autentico genio.

La figura del poeta gaudente è nata a cavallo fra l’Ottocento e il Novecento, ma siamo stati sfortunati. Immaginiamo un’ipotetica partita Italia-Inghilterra: noi nel Trecento-Quattrocento passiamo in vantaggio con il tridente Dante-Petrarca-Boccaccio, gli inglesi rispondono con Chaucer. Nel Cinquecento-Seicento mettiamo in campo la coppia Tasso-Ariosto, ma gli avversari se la cavano bene con Shakespeare. Nell’Ottocento cominciamo a mostrare i primi segni di stanchezza: entra in campo D’Annunzio, ma gli inglesi schierano Oscar Wilde. Senza contare che il futurismo russo vede gente come Majakovskij, mentre a noi tocca Marinetti (Zang Tumb Tumb… avete presente, no?)

Come avrete capito l’esempio di gaudente nella letteratura italiana è Gabriele D’Annunzio, il poeta più misogino, reazionario, guerrafondaio che l’italico ingegno abbia mai prodotto (e ho elencato solo gli aspetti positivi!). Perché quindi dobbiamo leggere e studiare D’Annunzio? Per il semplice motivo che (al di là delle opinioni personali del sottoscritto) è un grande poeta, esponente principale del Decadentismo italiano, nonché fonte inesauribile di leggende metropolitane.
Quando durante l’anno scolastico infatti si arriva al momento fatidico in cui la prof spiega il Vate, un’inquietudine serpeggia fra i banchi, un lieve sibilo indistinto di cui si riesce ad afferrare un solo vocabolo di tre sillabe: co-sto-le

Per chi non lo sapesse (o per meglio dire, per chi facesse finta di non saperlo) la leggenda narra che D’Annunzio si sia fatto togliere due costole per “autoconoscersi biblicamente”.
Come si propaghi la diceria in una classe rimane uno di quei misteri che neanche Giacobbo si azzarderebbe ad indagare. Normalmente a metterla in giro è il genere di studente figlio unico, irrequieto, di quelli che anche la Montessori non avrebbe esitato ad educare a colpi di frecce al bromuro, come i rinoceronti africani. Questo ci porta a fare alcune considerazioni:

  •  La leggenda non è tramandata da un fratello maggiore
  • Internet non c’entra niente, circolava già ai tempi di mio nonno e non credo che sulla Treccani abbiano fatto qualche accenno alla vicenda
  • Esistono, in qualche parte dell’universo, genitori che dopo aver messo il grembiulino ai figlioletti, riposto la merendina nella cartella e sistemato il fiocco, dicono loro: «E ricordati che D’Annunzio si è fatto togliere due costole per farsi un “servizietto” da solo»

Vero o falso? Per scoprire la verità basti considerare che D’Annunzio è stato il capostipite di una lunga tradizione di personaggi ricchi e famosi che ancora oggi circuiscono delle ragazze giovani e carine che si fanno (volentieri) irretire per ottenere un po’ di pubblicità. 
Non vi ho convinto ancora? Allora facciamo un esperimento: chiudiamo gli occhi per un attimo e immaginiamo la scena - Gabriele D’Annunzio entra nello studio del chirurgo:
D’Annunzio: «Salve dottore, dovrei togliere due costole»
Chirurgo: «Accusa disturbi di sorta?»
D: «No»
C: «Ha problemi motori, respiratori?»
D: «No»
C: «E allora perché dovrei asportarle delle costole, di grazia?»
D: «Per farmi un … da solo. Sa com’è, ci sono delle sere in cui mi sento tanto, tanto solo…»

Ecco, se la scena vi sembra verosimile vi consiglio seriamente di farvi vedere da uno bravo, in caso contrario capite che si tratta di una fantasia creata da qualche studente posseduto violentemente dagli ormoni.

Veniamo dunque alla parte meno interessante di questo post: la poetica di D’Annunzio.
Onde evitare fratture multiple alla scatola cranica dovute ad improvvisi appisolamenti, in questa sede parleremo solo di due aspetti della poetica del Vate:

- La lettura di Nietzsche
- La sindrome di Oscar Giannino


Di tutta la bibliografia di Nietzsche, a Gabriele D’Annunzio la storia del Superuomo piacque da morire, tanto che partì come volontario per la Prima Guerra Mondiale, compì un volo su Vienna lanciando dei volantini propagandistici, ma soprattutto organizzò l’Impresa di Fiume. In pratica occupò la città di Fiume che al termine del primo conflitto mondiale non era stata assegnata all’Italia, il che ovviamente non ci legittima a presentarci alle riunioni di condominio con una copia di Così parlo Zarathustra avanzando pretese sugli appartamenti sfitti.

Per quanto riguarda la sindrome di Oscar Giannino, D’Annunzio avrebbe voluto vendere il ghiaccio agli eschimesi, cioè essere la guida spirituale di un popolo votato alla guerra, vale a dire l’unico campo in cui non ci siamo mai distinti granché. E per raggiungere il suo scopo il Vate intendeva spronare gli italiani con discorsi di questo tono:

Italiani d'ogni generazione e d' ogni confessione, nati dell'unica madre, gente nostra, sangue nostro, fratelli;
e voi miracolo mostrato dal non cieco destino, ultimi della sacra schiera sopravviventi in terra, o forse riapparsi oggi dalla profondità della gloria per testimoniare agli immemori, agli increduli, agli indegni come veramente un giorno respirasse in bocche mortali e moltiplicasse la forza delle ossa caduche quell'anima stessa che qui gira e solleva il bronzo durevole


Un po’ ostico, no? Figuratevi quello che poteva capire una popolazione il cui tasso di analfabetismo superava l’80%. Poi si lamentava di essere incompreso…

Sia come sia, è innegabile che Gabriele D’Annunzio sia uno dei pilastri della poesia moderna. Prendiamo per esempio la Pioggia nel pineto.
Per quanto riguarda le stupende assonanze e allitterazioni che vi troviamo e che creano un effetto onomatopeico richiamando all’orecchio i suoni dello scrosciare della pioggia ecc. ecc., non perdete tempo a leggere il resto del post, per quello potete consultare qualsiasi antologia.

Personalmente voglio porre l’accento su un aspetto poco indagato:
Il poeta si trova in una pineta a Marina di Pisa, manco a dirlo, con una ragazza (ve l’avevo detto che è un gaudente). All’improvviso scoppia un temporale, dato che non hanno ancora inventato Discovery Channel, non sanno che quello è il posto peggiore dove stare e invece di correre e mettersi al riparo prima che un fulmine ponga fine alla carriera del Vate, D’Annunzio blocca la sua compagna e le dice:

Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane


Ecco, concentriamoci su quel Taci, che può avere due possibili interpretazioni:

1- La ragazza si sarà giustamente lamentata perché con tutta quell’acqua come minimo si poteva buscare una broncopolmonite fulminante, senza contare che sebbene non avesse visto Discovery Channel avrà intuito che c’era il rischio di fare la fine del Coyote che insegue Beep Beep
2- Ma il significato potrebbe anche essere: «Ermione, vedi di stare zitta che io sarò pure dandy quanto vuoi, ma se mi sgamano in mezzo al bosco con una che potrebbe essere mia figlia, ci faccio una figura che a confronto Fabrizio Corona sembra la Montalcini»

C’è poco da fare: D’Annunzio o lo sia ama o si nutre per lui una simpatia pari alle ingiunzioni di pagamento di Equitalia. Personaggio controverso che ambiva alla libertà intellettuale, ma allo stesso tempo non disdegnava di sponsorizzare alcuni prodotti peggio di Mastrota, bisogna riconoscere che il Vate è stato un genio indiscusso, e non solo perché come abbiamo appena visto pure quando andava in camporella lo faceva in grande stile, ma soprattutto perché ha lasciato un’impronta indelebile nella poesia italiana fin dalla raccolta Primo Vere, che pubblicò a sedici anni. E per quanto i tempi possano essere cambiati, potete mettere la mano sul fuoco che un ragazzino a sedici anni, allora come oggi, a tutto pensa fuorché alla poesia. Non so se mi spiego.

Comunque, tanto per la cronaca: il segreto della pizza è la lievitazione. Lo sanno tutti, ecchecavolo! 

martedì 18 dicembre 2012

Eneide: Omero rmx feat. Dj Virgilio


Mio cugino è sposato da dieci anni. Lui è un tipo esigente, dice che LA macchina è la Mercedes, LE scarpe sono le Hogan, IL computer è Apple… ma dove mio cugino si supera è in cucina: non mangia pasta se non è di marca, trafilata al bronzo, quella che si vende a carati, in quei negozi in cui ti danno quei vasetti con i funghi dalla carta scura e spessa, dall’aria talmente autorevole che non sai se mangiarli o metterli sul caminetto al posto delle ceneri di nonna. Ebbene, è da quando è sposato che la moglie compra la pasta al discount e la mette negli involucri della pasta “buona”, senza che lui si sia mai accorto di nulla.

Quali preziosi insegnamenti possiamo dunque trarre da questa edificante storiellina?

  1.    Che mio cugino non guarda le scadenze, altrimenti si sarebbe accorto che la sua pasta “trafilata al bronzo” è scaduta da almeno sette anni
  2.    Che a volte non conta quello che fai ma come lo presenti


Ora, non sappiamo se Virgilio guardasse o meno le scadenze (la critica tace clamorosamente su questo punto), senza dubbio però possiamo dire che è stato capace di realizzare un grande capolavoro con dei materiali di recupero.
Se dopo questa affermazione non siete subito corsi sul blog della brunetta dei Ricchi e Poveri, lasciate che mi spieghi.

Publio Virgilio Marone nasce a Mantova nel 70 a.C., come regola avrebbe dovuto disperarsi perché la mortalità infantile era al 90%, non avevano ancora inventato gli antibiotici, le patatine fritte, internet, la bomba atomica, le mine antiuomo, il gioco dei pacchi… insomma non si aveva ancora raggiunto l’elevatissimo grado di civilizzazione attuale. Nonostante tutto però il fato gli sorride e lo fa nascere in una famiglia sufficientemente ricca da poterlo mandare a studiare nella migliore scuola di eloquenza di Roma. Mica era un bamboccione, lui.
Proprio mentre si trova nella capitale, fra un happy hour e l’altro (ok, non si chiamavano così ma il principio era lo stesso), lo stato gli confisca tutto per darlo ai veterani della guerra civile (e pensare che appena tornato dal Vietnam a Rambo lo schiaffano in galera).

Adesso spiegherò un concetto che a noi persone moderne può risultare difficile da comprendere: a quel tempo se avevi amici influenti potevi avere un po’ di agevolazioni, occupare posti di potere, fare parecchi soldi.
Ebbene, il nostro Virgilio, che fra gli amici su Facebook aveva gente come Mecenate, Pollione e Augusto, riesce non-si-sa-come a farsi revocare la confisca. 
Altro che richieste di Farmville.

Tuttavia come ogni associazione a delinquere che si rispetti i favori vanno restituiti. Per questo motivo Augusto commissiona a Virgilio un’opera che lo magnificasse. Non è che le scelte fossero tantissime, avrebbe dovuto scrivere: o quanto era bravo in battaglia, o quanto la sua famiglia fosse nobile/predestinata/favorita. Dato che Augusto non era proprio famoso per le sue doti belliche, la scelta era obbligata.

Per far fare bella figura ad Augusto perciò Virgilio decide di narrare le gesta di Enea, presunto antenato dell’imperatore, personaggio talmente sfigato che se fosse morto nell’incendio di Troia avrebbe fatto comunque una figura migliore. Enea nell’Iliade è una specie di comparsa, cugino di trentottesimo/trentanovesimo grado di Paride, la sua rilevanza è tale che anche il regista di Troy non se l’è sentita di pagare un attore serio per impersonarlo. 
La storia dell’Eneide è in pratica la stessa dell’Odissea, per i più scettici ho preparato una comoda tabella:

               

Mettiamola così: Virgilio avrebbe vinto l’Oscar come migliore sceneggiatura non originale.

Vi starete chiedendo se ci sia qualche differenza con il poema di Omero, sennò perché a scuola ci scartavetrano gli zebedei con l’Eneide? Effettivamente una differenza c’è: Enea è figlio di Venere ed è lo stereotipo dell’italiano mammone che non riesce a staccarsi dalla sottana di mammà.
Per tutto il poema infatti Venere compare continuamente e solo per fare interventi del tipo: «Enea, parti e vai nel Lazio», «Enea, lascia Didone che non è la ragazza per te. Oltretutto è pure vedova», «Enea, fai la guerra contro questo», «Enea, fai la guerra contro quello», «Enea, mettiti la maglia di lana che se buschi un raffreddore poi le prendi».

Gli studenti con una coscienza critica e alto spirito civile diranno: «Virgilio era servo del potere e ha scritto un’opera da lecchino. Organizziamo un sit-in per non studiare l’Eneide». Lo so, vi piacerebbe, ma è qui che lo scrittore latino ci frega tutti.
Virgilio non è un lecchino, lui ci crede davvero nella politica di Augusto (dopo i favori che gli ha fatto volevo vedere), inoltre, anche se incompleta, l’Eneide è scritta splendidamente, alla faccia di chi dice che bisogna avere una storia originale per sfondare come scrittori (già, Virgilio è il modello di riferimento di Moccia).

Se può esservi di aiuto per invogliarvi allo studio dell’Eneide o per sfrattare i ragni che vi hanno costruito un condominio nella libreria, considerate che l’opera di Virgilio può essere comodamente usata per fare citazioni latine a vanvera.

 Esempi:
  •  La persona che schifate a morte vi fa un regalo? Ditele: Timeo Danaos et dona ferentes (Temo i Greci anche quando portano doni) [Libro II, 49]
  • State guardando Porta a Porta e vostro suocero inveisce contro il politico di turno? Ab uno disce omnis (Da uno capisci come sono fatti tutti) [Libro III, 64-65]
  • La polizia vi chiede come mai siete incaprettati nudi sul bordo dell’autostrada che porta al confine Messicano? Horresco refens (Inorridisco nel raccontare) [Libro II, 204]
  • Mentre fate benzina con il motore acceso date fuoco al distributore? Adgnosco veteris vestigia flammae (Conosco i segni dell’antica fiamma) [Libro IV, 23]
  •  Il tom tom si è scaricato e la vostra ragazza è intenzionata ad uccidervi con il cric e a seppellirvi nel bosco perché non avete seguito i suoi consigli? Fata via invenient (I fati troveranno la via) [Libro III, 395]

Rassegniamoci quindi ad amare questo capolavoro della letteratura latina, anche perché altrimenti non capiremmo la letteratura italiana. L’Eneide è stato il modello a cui hanno guardato Dante e Petrarca, l’incipit della Gerusalemme Liberata di Tasso («Canto l’arme pietose e ’l capitano») è praticamente la traduzione di quello virgiliano «Arma virumque cano».
E se l’hanno fatto non erano fessi.

Ah, dimenticavo: un saluto a mio cugino. 

martedì 4 dicembre 2012

I Promessi Sposi - Part Three: The Breaking Dawn


Organizzata la fuga manco fossero due ex SS che scappano in Argentina, Renzo e Lucia prendono strade diverse. La ragazza va a finire prima in un convento di Cappuccini e poi, secondo l’antica usanza milanese di “rimbalzare” i poveracci dai luoghi più cool, spedita a Monza.

Arrivati a questo punto gli studenti più smaliziati, cioè quelli che guardando le immagini sul libro di testo riescono a distinguere con una buona approssimazione Leopardi da Petrarca, fiutano che può esserci materiale interessante. Cominciano a sfogliare avidamente le pagine del libro, gli ormoni segnalano chiaramente che lì, da qualche parte, sono nascoste descrizioni piccanti, corpi sudati e aggrovigliati, un campionario a luci rosse tale da far sembrare Tinto Brass il regista delle messe domenicali su Rai Uno. Ebbene, lasciatemi dire che se si confonde I Promessi Sposi con Cinquanta sfumature di grigio, non ce la possiamo prendere con Manzoni, ma piuttosto con gli anni Ottanta e tutti i film con Alvaro Vitali ed Edwige Fenech, in cui la Monaca di Monza passava la giornata a farsi la doccia mentre il resto del convento la spiava dal buco della serratura.

A dispetto di ogni speranza Manzoni non fa scoprire nemmeno una caviglia alla Monaca di Monza (per gli amici Gertrude o “La Signora”). Ignorando i richiami della natura, l’autore infatti, nella descrizione del personaggio, anticipa non solo le teorie psicoanalitiche di Freud e Jung, ma anche le prime dieci stagioni di Criminal Minds e CSI Miami, fornendo un profilo psicologico fatto di soprusi familiari, amori contrastati e impossibili, violenze dirette e indirette di ogni sorta, al termine del quale il lettore che si trovi a guardare in televisione le immagini dei campi di concentramento nazisti non può che esclamare: «Beh, bisogna vedere cos’è che gli hanno fatto a quell’Hitler lì, da bambino». 

Ma il punto che tengo a sottolineare è la genialità dei confratelli di Fra Cristoforo. Per apprezzarla appieno è necessario fare un piccolo riepilogo: Lucia è una ragazza che si deve sposare ma è ostacolata da un signorotto locale. Loro a chi l’affidano? A una che giornalmente produce l’equivalente di dodici silos di bile perché si voleva sposare, ma la famiglia ha fatto rinchiudere in convento e che per giunta ha una tresca con un conoscente di Don Rodrigo. 
Come minimo oggi farebbero i consulenti al Ministero per le Pari Opportunità.
Com’è prevedibile Gertrude un po’ perché costretta dal suo amante Egidio, un po’ perché effettivamente la ragazza, con la sua prorompente simpatia, le sta proprio lì, sotto la tonaca, consegna Lucia all’Innominato, noto boss del lecchese affiliato al cartello di Don Rodrigo.


Avete presente quando portate la macchina dal meccanico e vi prende la netta sensazione che lui non l’abbia vista nemmeno col binocolo, mentre ci ha messo sicuramente le mani il ragazzo di bottega? Ecco, in letteratura questa fastidiosa sensazione si chiama straniamento. È esattamente quello che succede con le pagine dedicate all’Innominato. Fino adesso abbiamo avuto a che fare con un rispettabile romanzo storico, ma quando entra in scena questo personaggio Manzoni diventa Samantha (o Jessica, o Katiusha, fate voi), una specie di ragazzina quattordicenne che passa le giornate a guardare serie sui vampiri su Sky. Del resto gli ingredienti ci sono tutti:

  •      Un castello diroccato su una montagna
  •      Il cattivo che poi così cattivo non è
  •      La “bella” imprigionata nelle segrete

Il lupo mannaro non è che me lo sono dimenticato, è che proprio non c’è.

Lucia passa una notte tormentata nelle segrete del castello e pur di salvarsi fa voto di castità alla Madonna, ma l’Innominato (che si comporta pari pari a Marlon Brando nel Padrino), colpito dalla purezza e dal candore della fanciulla, con un colpo di spugna degno solo dei migliori regimi autocratici coreani, cancella tutte le ragazze violentate, le rapine, le usure, il contrabbando fin a quel momento commessi e si somministra da solo l’assoluzione plenaria e l’amnistia. Ditemi se non vi viene voglia di farlo Presidente del Consiglio seduta stante.

Ma passiamo a Renzo. Lui viene “rimbalzato” perché il suo PR (metaforicamente parlando) aveva dimenticato di avvisare quelli del locale. Il nostro si trova suo malgrado coinvolto in una sommossa popolare provocata dall’aumento del prezzo del pane, dato che manca poco che l’arrestino decide di andare da suo cugino che abita in un altro stato. Con grande disappunto dei tour operator dell’epoca, il concetto di “estero” nel Seicento è un tantinello diverso dal nostro, infatti Renzo si rifugia a Bergamo, che a quel tempo si trovava nel territorio della Repubblica di Venezia. Qui il giovane riprende il suo lavoro di tessitore sotto il nome falso di Antonio Rivolta, che è un po’ come girare per New York la mattina dell’undici settembre presentandosi alla gente dicendo: «Piacere, Pasquale Kamikaze».
Comunque, dopo una serie di alterne vicende, fra cui la calata dei lanzichenecchi che come special guest si portavano dietro la peste, finalmente Renzo e Lucia si rincontrano nel lazzaretto dove Don Rodrigo sta tirando le cuoia, non prima però di avere ottenuto il perdono dalla coppietta. In realtà nella prima versione della dipartita di Don Rodrigo, questi doveva salire a cavallo delirante credendo di essere in mezzo a una battaglia, ma evidentemente Manzoni deve essersi reso conto che un finale del genere avrebbe messo in imbarazzo anche i fan più accaniti di Massimo Boldi e Christian De Sica.

Lieto fine quindi? Non proprio, infatti c’è ancora la questione voto di castità. L’autore con un colpo da maestro (e forse anche perché la cosa andava un po’ troppo per le lunghe) decide di far ritornare in scena Fra Cristoforo che, non si capisce in virtù di quali poteri conferitigli (romanzo alla mano eh, andate a controllare), scioglie il voto di Lucia e i due finalmente possono sposarsi, facendo una caterva di figli. Dopo che Don Abbondio si è assicurato che Don Rodrigo è morto, s’intende.

Arrivati a questo punto dovremmo tirare le conclusioni, parlare del ruolo della Provvidenza, del giansenismo insito nella visione della vita di Manzoni, del fatto che non si tratti di un romanzo formativo… ma per quello, nella sua infinita bontà, Dio ha inventato internet e i riassunti già fatti.
Piuttosto mi piace immaginare un possibile seguito, una cosa all’americana come va di moda adesso. Uno spin off sulla Monaca di Monza o sulla giovinezza dell’Innominato, oppure Manzoni avrebbe potuto terminare con un bel finale aperto, tipo la mano di Don Rodrigo che esce dalla tomba, mentre i due sposini lasciano la chiesa. E lì giù di merchandising: le spille de I Promessi Sposi, il blu-ray, le tovagliette, i copriwater, gli status su Facebook con le frasi più romantiche tratte dal libro…   

Ma forse è proprio per questo che Manzoni è molto più figo di Twilight.