giovedì 11 aprile 2013

L'Odissea: Cara, esco un attimo a comprare le sigarette...


L’adolescenza è complicata. Avete voglia a dire che crescendo aumentano i problemi: non potrete mai raggiungere il livello di complicatezza mentale di un adolescente. Non mi riferisco ai noti problemi legati alla pubertà: la voce che passa da modalità cherubino a Ozzy Osbourne, il fiorire di peli che nemmeno il giardino di Versailles, sbalzi di umore che in condizioni normali sarebbero giustificabili solamente con una overdose di progesterone. 
Niente di tutto questo, il fatto è che gli adolescenti si complicano la vita da soli: mentre un topo da laboratorio messo in un labirinto per raggiungere l’uscita parte da un punto A per arrivare a un punto B, un adolescente può impiegare tutto l’alfabeto e non è escluso che nel frattempo inserisca pure qualche equazione.


Per chiarire il concetto farò un esempio pratico riguardo gli adolescenti di sesso maschile, dato che la versione femminile è più indecifrabile di un manuale di istruzioni in coreano per il lettore dvd.

Come tutti i pomeriggi sei anestetizzato davanti alla Playstation, mentre stai facendo saltare la testa al duecentesimo zombie della giornata avverti una sensazione strana. Inizialmente credi si tratti di fame, ma poi senti una vocina lontana lontana, «Forse è la mia coscienza» ti dici, ma ti stai sbagliando di nuovo: la voce non proviene dalla tua testa, ma da una sessantina di centimetri più in basso, proprio al di sotto della cintura: sono i tuoi ormoni che ti chiamano. 
Per quanto si sforzino loro non riescono a condividere il tuo entusiasmo per aver trovato il kit del pronto soccorso per continuare il gioco, anzi la vocina che senti è triste perché si sono accorti di una cosa evidente: nel raggio di 13 km2 non c’è l’ombra di un essere umano femminile con un DNA diverso dal tuo (Lara Croft non conta).


La soluzione per ovviare al problema è lampante come l’assassino in un film horror americano di serie B, quelli del tipo «Oh, c’è un maniaco seviziatore in questo bosco... Dividiamoci!»: basterebbe farti una doccia, toglierti la felpa che hai su da talmente tanto tempo che tua madre non sa più se si tratti di abbigliamento o di un tatuaggio, sfilarti il cappellino da finto rapper che indossi pure in agosto quando fanno 40 gradi e che nasconde forme di vita sorprendenti che manco nel brodo primordiale.
Ma non fai niente di tutto questo perché sei convinto che sia tutto più complicato e, lobotomizzato dalle trecento puntate di Californication che hai guardato alle tre di notte in televisione, cresce in te la perniciosa quanto infondata convinzione che devi avere successo in qualcosa per farti notare dalle ragazze.


A questo punto passi in rassegna i campi in cui potresti dimostrare il tuo talento:
  • Lo sport non fa per te, hai il fisico del giocatore di videopoker in pensione e poi l’ultima volta che hai preso una palla hai fatto autogoal. E stavi giocando a ping-pong
  • Fare il figo con la moto è fuori discussione: è pericoloso, ti hanno tolto le rotelle alla bici da poco e poi al massimo puoi impennare con l’abbonamento del pullman
  • Le pernacchie con le ascelle di solito non vengono inserite fra i talenti

Stai per rassegnarti a una vita da cercatore come fra Galdino, quando in un angolo della stanza noti un oggetto che tuo padre ti ha regalato durante il deludente Natale del ’92. Ce l’hai avuta davanti agli occhi per tutto questo tempo convinto che si trattasse di un oggetto di modernariato, ma adesso sai che quella è la chiave per risolvere i tuoi problemi: una chitarra.

Ora, da che mondo è mondo, nella mente contorta di un adolescente la chitarra è sinonimo di “acchiappanza” selvaggia, di rimorchi stile “pesca a traina”: vai in gita con la scuola? Per la convenzione di Ginevra se sai suonare hai diritto al posto in fondo all’autobus. A pasquetta hanno tutti la nonna malata e ti dicono che non andranno da nessuna parte, ma stranamente su Facebook c’è un fiorire di album dal titolo “Pasquetta fuori porta”? Con una chitarra questo problema non esiste. Il falò sulla spiaggia di Ferragosto? Beh, posala sta benedetta chitarra che tutto il mondo circostante sta limonando mentre suoni Margherita di Cocciante.

E così, guardando un tutorial su Youtube, apprendi i primi rudimenti dello strumento e, dopo sole trentasei ore ininterrotte di allenamento e i polpastrelli che sembra tu sia uscito da una sessione di morra cinese con Edward mani di forbice, sei in grado di suonare qualcosa che somiglia molto vagamente alla Canzone del Sole: tre accordi fetenti.
Tuttavia con il passare del tempo acquisti sicurezza e, proprio mentre i tuoi vicini stanno firmando un referendum per mandarti in esilio in Portogallo come i Savoia, perché non riescono più a dormire, decidi di comprare una chitarra elettrica.
Non so voi, ma dove abito io sul giornale apposito gli annunci degli strumenti musicali si trovano esattamente fra quelli zozzi e quelli per le apparecchiature mediche, per cui quando decidi di fare il grande passo la situazione è questa:


Vendo copricapezzoli elettrificato a 12.000 volt mai usato. Astenersi curiosi e perditempo

Cedo chitarra elettrica completa di amplificatore con piccola ammaccatura. Astenersi curiosi e perditempo

Occasionissima polmone d’acciaio usato per poco tempo tenuto in maniera maniacale. Telefonare ore pasti. Astenersi curiosi e perditempo. Povera nonna

Che poi vorrei conoscerli di persona questi curiosi e perditempo, esistono veramente al mondo persone che chiamano così, giusto per?

Vabbè non divaghiamo.

La “piccola ammaccatura” si rivela in realtà un buco grande come l’oblò di una lavatrice a gettoni, ma a te non importa: con la tua nuova chitarra elettrica di dodicesima mano ti senti il frutto dell’amore proibito fra Santana e Slash dei Guns N’ Roses. Alla faccia della biologia. 
Sei talmente entusiasta che cominciano a piacerti anche le canzoni di Vasco Rossi e Ligabue, anche perché sono le uniche alla tua portata.

Eppure in cuor tuo non sei davvero felice: le uniche chiamate sul telefonino continuano a essere quelle della Wind che minaccia di pagare un serial killer se non fai una ricarica; al citofono non hai ancora visto la fila di ragazze che vogliono uscire con te; benché cerchi di portare costantemente il discorso sulla musica per dire che suoni, godi ancora della popolarità di un lebbroso a Calcutta.


E qui hai il colpo di genio: la pubblicità è l’anima del commercio e per avere successo devi farti conoscere. Così ti ritrovi a fondare un gruppo insieme ad altri tre disperati a cui fino a venti minuti prima non importava assolutamente nulla della musica, ma come te hanno avuto questa intuizione geniale per dire addio all’età dell’innocenza.

Il primo periodo con i tuoi nuovi amici rasenta l’idilliaco, anche se tu volevi un nome tosto tipo Gli Squartatori, i Black Metal Symphonic Death Orchestra, Gli Sbudellatori Anonimi ma alla fine ha vinto i Gli Insoliti Teneroni, non importa: l’importante è il fine da perseguire.
Cominciate a suonare in pub dove i vibrioni in cucina camminano con le ciabatte per paura di infezioni e nel frattempo fate i fighi ammiccando alle ragazze rischiando fratture multiple provocate dai fidanzati. Dopo diversi mesi in cui venite retribuiti con panini hamburger e cipolla (in proporzione 10%-90%) uno di voi perde il lume della ragione (solitamente il cantante) e con un entusiasmo da fare invidia allo Chef Tony dice qualcosa del genere:


«Abbiamo bisogno di una svolta, abbiamo tutte le carte per sfondare. Bisogna cominciare a suonare le nostre canzoni»

Tu e gli altri lo guardate con due occhi da cartone animato giapponese chiedendovi di quali canzoni stia parlando, ma soprattutto quali acidi si sia calato. Alla fine però cedete alle sue insistenze, pure perché, che diavolo, ce la fanno ad Amici ce la potete fare anche voi.
E qui inizia il tracollo.


Sei cresciuto ascoltando Queen, Genesis, Pink Floyd e scopri che il cantante è patito per uno sconosciuto jazzista-sassofonista della Papuasia, il batterista è fan accanito di Eminem e mentre cerchi conforto nel bassista, questi ti rivela che in realtà lui è un pensionato delle Poste che ha iniziato a suonare perché con il panino hamburger-cipolla almeno aveva risolto il problema della cena.

Quando la situazione di mette in questi termini hai solo due possibilità:
  1.  Appendere la chitarra al chiodo (dalla parte dell’oblò) e cedere finalmente alla doccia e dare fuoco alla felpa-tatuaggio
  2. Cercare punti in comune

Adesso, per quanto la seconda opzione possa sembrare fantascientifica, esiste un modo per mettere tutti d’accordo: qualsiasi cosa ascoltiate (a parte Nilla Pizzi, Beethoven e qualche altro nome) è riconducibile ai Beatles. I Beatles mettono tutti d’accordo, non perché piacciano necessariamente, ma perché nessuno avrà mai il coraggio di dire: «A me fanno schifo» se non adeguatamente protetto da anonimato.

Qualcosa di simile si riscontra nella Letteratura: sia che vi piacciano i mattoni russi, sia che leggiate Grisham, sia che  considerate Fabio Volo il nuovo Siddharta, tutto, ma proprio tutto è riconducibile a Omero.
Citare Omero in una conversazione di Letteratura è come giocare il jolly a Giochi senza frontiere (questa la capiranno in pochi): vai sempre bene.


Tutto questo preambolo mi serviva per portarvi a parlare dell’Odissea di Omero, ma dato che spiegare questo capolavoro senza citare l’Iliade è difficile quasi quanto indovinare la parola nascosta della Ghigliottina di Carlo Conti, procederò con un piccolo riassunto a mo’ di telegramma:

Elena fuggita con Paride STOP Menelao et compagnia partiti per Troia per vendicare cesto di corna STOP Guerra durata dieci anni STOP Achille non tanto d’accordo con motivo guerra STOP Ulisse fa costruire cavallo per entrare in città STOP Troiani non particolarmente furbi STOP Troia distrutta tutti tornati a casa tranne Ulisse che forse ha bucato per strada o fermato a prendere un Camogli

Bene, detto questo devo procedere con una citazione necessaria:



Al che potrei rispondere: «Ma come parli proprio tu che nemmeno sei esistito?». Già, perché il nostro caro Omero, bersaglio delle bestemmie e maledizioni di una buona fetta degli studenti dei licei classici di tutto l’orbe terracqueo, non è mai realmente esistito. Il suo nome molto probabilmente significa cieco, perché nell’immaginario popolare tali erano i cantori.

«Allora chi ha scritto l’Iliade e l’Odissea?» direte voi. Molto semplice: si trattava di miti che circolavano in Grecia, una sorta di poema di fondazione per spiegarsi le proprie origini. Infatti non esisteva un testo unico dei questi due poemi e ogni città aveva una sua versione in cui l’eroe locale faceva bella figura, un po’ come quelli che sperano in un efferato omicidio a sfondo sessuale nella propria città così possono fare ciao con la manina quando vedono le telecamere della Vita in diretta.

Ma entriamo nel vivo.

L’Odissea è un poema diviso (successivamente) in 24 libri, tradizionalmente si diceva che Omero lo avesse scritto in vecchiaia perché è più “tranquillo” rispetto all’Iliade (anche se a me sembra il contrario). Protagonista assoluto è Odisseo, che per ragioni pratiche nel resto del post chiamerò col nome latino: Ulisse.

Il poema inizia con il figlio di Ulisse, Telemaco, che vuole liberarsi dai Proci che infestano casa sua. Questi sono dei principi zuzzurelloni che non vedono l’ora di fare la festa alla moglie del padrone di casa, Penelope. Roba che a confronto Emanuele Filiberto sembra Zichichi.
Dato che la guerra di Troia è finita da dieci anni e Ulisse non ha fatto nemmeno una telefonata per avvertire che ritardava, Telemaco decide di partire alla ricerca del padre. Il ragazzo è il ritratto del carisma: un misto fra Kim Jong Un e una cassettiera dell’Ikea, infatti chiede una nave ai suoi concittadini che non se lo filano nemmeno di striscio, perciò deve intervenire la dea Atena.


Nel frattempo Ulisse arriva sull’isola dei Feaci dopo aver trascorso sette anni terribili insieme a Calipso, una ninfa bellissima perdutamente innamorata di lui. Praticamente è come se dichiarassi guerra agli Stati Uniti e venissi preso prigioniero da Angelina Jolie: una vita da inferno.
Comunque Ulisse ai Feaci non rivela la sua identità e comincia a raccontare la sua storia partendo dall’inganno del cavallo di legno che tutti voi conoscete e su cui non mi dilungherò (vabbè non la racconta proprio lui, ma lasciamo stare).


Dopo aver lasciato Troia ormai distrutta, Ulisse e i suoi compagni giungono sull’isola dei Ciclopi, esseri giganti con un occhio solo. Qui vengono catturati da Polifemo, il più cretino dei Ciclopi, il che ci fa dubitare anche della presunta astuzia di Ulisse. Polifemo senza sapere né leggere né scrivere comincia a mangiarsi piano piano i compagni del nostro eroe che, per uscire dalla pericolosa situazione, lo acceca.
Ora, Polifemo ha un serio problema di alcolismo, per cui quando gli altri Ciclopi lo sentono gridare gli domandano: «Chi ti ha accecato?», lui risponde: «Nessuno», cioè il nome che gli aveva dato Ulisse. Bastava che avesse chiesto come faceva di cognome e la situazione avrebbe preso un’altra piega:


«Polifemo, chi ti ha accecato?»
«Nessuno… Nessuno Scognamiglio»


Ci voleva tanto?

Ulisse a questo punto vorrebbe fare ritorno verso casa, ma non ha calcolato che Polifemo è il cocco di papà di Poseidone, il dio dei mari, che per vendetta lo fa approdare sull’isola della maga Circe.
Avete presente le streghe, no? Senza denti, gobbe, vecchie, zoppe e via dicendo? Ebbene Ulisse capita fra le mani dell’unica strega top model del Mediterraneo, che a un certo punto uno se lo dovrebbe pure chiedere se Poseidone ce l’aveva davvero con Ulisse o no. Naturalmente Circe si innamora di Ulisse e per fargli dimenticare di prendere il largo trasforma i suoi compagni in maiali.


Fermiamoci un momento.

Alcuni hanno voluto vedere una sorta di sottotesto: «Circe è il prototipo della femminista, dato che ha tramutato i greci in porci per il loro comportamento». Adesso non è che voglio prendere le parti dei compagni di Ulisse, ma mettetevi nei panni di questi qua: innanzitutto stiamo parlando di guerrieri abituati a staccare teste a morsi, mica di studenti di Oxford (anche se sinceramente non saprei di chi avere più paura); poi sono diciotto anni che non vedono una donna nemmeno in fotografia; ci aggiungiamo che arrivano su un’isola sperduta in mezzo al mare abitata solamente da ragazze seminude… beh, un minimo di entusiasmo ci poteva stare, al massimo se veramente esageravano li trasformavi.

Qui Ulisse perde altro tempo e noi capiamo che la struttura dell’Odissea è pari pari a quella di una puntata a caso del Dottor House. Cerco di spiegarmi con uno schema:
  • Si presenta il problema
  • Ulisse (House) non fa assolutamente nulla, anzi si diverte in vario modo (ma probabilmente Ulisse si diverte di più)
  • L’equipaggio (l’equipe) fa tutto il lavoro e perde salute, sonno ed energie per risolvere la situazione
  • Il dottor Ulisse ha un’idea geniale che mette tutto a posto

In realtà bastava che Ulisse o House si fossero applicati un po’ di più e noi avremmo risparmiato diverse centinaia di versi o, in alternativa, decine di minuti di apprensione.

Dato che Ulisse non ne vuole sapere di tornare da Penelope, Atena manda Ermes a fargli presente che ci sta mezzo Olimpo e un’isola che si stanno sbattendo per lui, perciò preso dai sensi di colpa decide di ripartire.

Seguono una serie di alterne vicende, fra cui l’episodio delle Sirene e la morte di tutto l’equipaggio in seguito a un naufragio causato dal sempre ottimo Poseidone che, seppure dio, non ne azzecca una.

Al termine del racconto Ulisse svela la propria identità ai Feaci che lo guardano con due occhi così non tanto per la storia della maga, dei Ciclopi o delle Sirene, quanto per il fatto che proprio non riescono a bersi che sia stato “costretto” da Calipso a diventare il suo amante per sette anni.
Ad ogni modo Alcinoo, re dei Feaci, decide di aiutare il sovrano di Itaca a ritornare a casa, così notte tempo, mentre Ulisse dormiva, lo riportano sulla sua isola. Evidentemente non si fidavano a farlo guidare da solo.


Arrivato a Itaca, Ulisse grazie ad Atena assume le sembianze di un mendicante e, con l’ausilio di Telemaco, stermina i Proci.

FINE.. anzi, no.

Già, perché secondo una leggenda medievale (ripresa anche da Dante in Inferno XXVI) Ulisse dopo un po’ si sarebbe stufato della vita coniugale e avrebbe ripreso il largo con i suoi vecchi compagni (ma non erano morti nel naufragio?) per superare le Colonne d’Ercole e arrivare in vista del Purgatorio. 
E io che mi lamento che volare con la Ryanair è già un’avventura.


Arrivati a questo punto potrei parlarvi del meraviglioso incipit:

Cantami, o Musa, dell’uomo dal multiforme in ingegno

Di fronte al quale, come direbbe Benigni, mi dovrei denudare per la sua bellezza e postarvi le foto sulle vostre bacheche Facebook. Tuttavia, dato che so per certo che alcuni miei lettori soffrono di reflusso gastroesofageo, eviterò per il bene comune.

Piuttosto vorrei sfatare il mito di Ulisse “uomo di avventura”.
Il nostro eroe infatti, come abbiamo visto, non ci tiene minimamente a prendere il mare per affrontare l’ignoto, lui è più il tipo da cocktail con l’ombrellino sulla spiaggia, mentre la ninfa di turno gli gira intorno. Quando parte lo fa solamente sotto minaccia.


Non ne siete convinti?

Allora prendiamo l’esempio di Palamede. Secondo la mitologia greca Ulisse per non andare in guerra si finse pazzo e cominciò ad arare e seminare la sabbia (da qui l’espressione “fare lo scemo per non fare la guerra”). Ebbene Palamede per smascherarlo prese il piccolo Telemaco e lo mise davanti all’aratro costringendo Ulisse a fermarsi, dimostrando di essere sano.
In realtà non è tanto questo episodio che ci convince del fatto che Ulisse era amante della tranquillità, quanto gli avvenimenti successivi: il re di Itaca infatti si vendicò di Palamede uccidendolo a sassate. Giusto per farvi capire quanto l’aveva presa bene.


Al di là di tutto (soprattutto di questo post), l’Odissea è davvero IL poema, in cui sono racchiuse le nostre radici, non solo europee, ma addirittura umane dato che si ritrovano riferimenti in tutta la Letteratura mondiale.

E poi bisogna considerare che Omero ha sicuramente avuto sugli scrittori di tutto il mondo più influenza di quanta ne avrà mai Moccia.
E non è nemmeno esistito.


MESSAGGIO SOCIALE

Ogni anno migliaia di chitarre vengono maltrattate da adolescenti che si sentono rock star. Anche tu puoi fare qualcosa: parla con tuo figlio, tuo nipote, tuo cugino e digli che di solito quello che suona la chitarra regge il moccolo agli altri che limonano. Vedrai che non toccherà nessuno strumento musicale per il resto della vita.

giovedì 28 marzo 2013

La Scuola Siciliana: C'era una volta un re seduto sul sofà...


I treni sono dei mezzi di trasporto orribili. No, non voglio rivangare l’annosa questione dei ritardi, anche perché se c’è un punto su cui tutti siamo d’accordo è che Mussolini è stato il più grande ferrotranviere-spurgatore della storia d’Italia: come faceva arrivare i treni in orario e bonificare le paludi lui... C’è da dire però che anche Martin Luther King abbandonerebbe i suoi propositi democratici quando dall’altoparlante della stazione si sente:

«Dlin Dlon. Si avvisano i signori passeggeri che il treno regionale Campobasso-Oslo viaggia con dodicimilasettecentoventicinque minuti di ritardo. Ci scusiamo per il disagio»


Innanzitutto: ma perché calcolano il ritardo in minuti pure quando superano un’ora, devo prendere il treno o risolvere il Quesito della Susi? Ma soprattutto: «Ci scusiamo per il disagio»? Ma dovete ringraziare che siamo in Italia, in un Paese civile come minimo avrebbero tagliato la testa del capotreno e l’avrebbero messa su un palo come monito, stile Kurtz in Cuore di tenebra. Senza contare che i bagni, quando non sono occupati da forme di vita sconosciute che ribollono dalla tazza, sono sistematicamente chiusi. In alcune religioni ti abbuonano settantacinque anni di Purgatorio se fai almeno una volta nella vita la tratta Foggia-Caserta. 

Altro che Mecca.

Vabbè, mi sa che sto un po’ trascendendo.


In realtà l’aspetto fastidioso dei treni è che sei costretto ad ascoltare le conversazioni degli altri. Ora, se avete visto e vi siete immedesimati nel commovente video di Barbara d'Urso che prende il treno non potete capirmi, ma se siete dei pezzenti come il sottoscritto e viaggiate più o meno regolarmente sui Regionali allora non avrete difficoltà a seguirmi nel discorso.

Sui treni Regionali non esistono prima e seconda classe, non esistono cabine e scompartimenti, i posti virtualmente sono illimitati, cioè la biglietteria continua a stampare i titoli di viaggio validi per quel treno fin quando non parte e c’è carta a disposizione, tant’è che quando ormai sei sistemato meglio di un pezzo del Tetris e vedi salire un signore con un trolley grande quanto un frigorifero, ti auguri una rapida e completa deforestazione dell’Amazzonia. Mi è capitato vedere gente svenire sul treno e rimanere perfettamente in piedi perché non c’era nemmeno spazio per cadere (tutto vero, non sto esagerando). Tuttavia, alcune volte, negli equinozi di primavera (ma solo quando Giove si allinea con Urano e Rete 4 non trasmette un film di Bud Spencer e Terence Hill) può capitare che si trovi un posto a sedere. 
E qui comincia il bello.

Le categorie di compagni di viaggio che vi possono capitare sono tantissime, per cui cercherò di sintetizzare in ordine crescente di fastidio:
  • Il musicofilo: lo si riconosce perché ha un Ipod nano di 3x3 cm ma delle cuffie delle dimensioni di un casco professionale da parrucchiera. È convinto di essere completamente isolato nel suo mondo, ma tiene il volume talmente alto che, nonostante muova la testa come se stesse ascoltando Marylin Manson che viene operato alla colecisti senza anestesia, tutto il vagone sa che in realtà è un patito di Enrique Iglesias
  •  Il bambino col raffreddore: dovete sapere che in epoca medievale quando si poneva una città sotto assedio e si voleva farla capitolare, non era inusuale che gli assedianti catapultassero all’interno delle mura i cadaveri dei nemici morti di peste, in modo che la malattia si diffondesse fra la popolazione. Ecco, la versione moderna sono queste adorabili creature che vanno in giro per tutto il treno
    starnutendo e pulendosi il naso dove capita (con una forte predilezione per i cappotti), dato che i genitori non conoscono l’esistenza dei fazzoletti di carta generalmente li si riconosce perché hanno un “trucco facciale” vagamente ispirato a Peter Criss, il batterista dei Kiss
  • Il/La fidanzato/a in crisi: ha litigato con il partner appena due secondi prima di partire, solitamente quello che è rimasto in stazione è più propenso a fare pace, per cui l’altro (che è seduto di fronte a voi) deve fare l’offeso facendo squillare il cellulare almeno una decina di minuti prima di rispondere. Quando si è deciso la conversazione procede su questo tono: «Che vuoi? […] No, no, no […] Ah, allora sarebbe colpa mia? […] Guarda che sei stato tu […]» Non vi illudete che prima o poi attacchi, anche se siete diretti a Copenaghen la telefonata durerà tutto il viaggio e comunque non lamentatevi troppo: la suoneria potrebbe essere quella del Pulcino Pio
  • Quello che ha la nipote a… : siete un astrofisico in odore di Nobel che lavora alla NASA? Avete scritto più libri di Stephen King e Isaac Asimov messi insieme? Fate l’idraulico in Olanda? Avete partecipato all’ultimo conclave? Qualunque cosa facciate, sul treno incontrerete una persona pronta a giurare che la nipote fa la stessa cosa vostra, solo che: è più giovane di voi, è laureata con il massimo dei voti (se lo siete anche voi allora vi dirà che però nella sua Facoltà da quando si è laureata hanno ritirato le lauree in quella disciplina come si fa per le maglie dei calciatori), parla dodici lingue, ha rifiutato una cattedra a Oxford per insegnare in America, è sposata con il primo cardiochirurgo al mondo che sia riuscito a trapiantare un cuore di cinghiale in un essere umano (o viceversa)

Ma, come vi dicevo, la sopportazione umana raggiunge il suo apice quando si è costretti ad ascoltare le conversazioni altrui. Intendiamoci, non è che mi dia fastidio che gli altri parlino: mi dà fastidio solo quando parlano per sentito dire e non puoi dare il tuo contributo perché hai la bocca occupata dal gomito del tipo in piedi a fianco a te che sta cercando di prendere la linea con cellulare per guardare Dragon Ball in streaming.
Le conversazioni sul treno riguardano gli argomenti più disparati, ma ci sono tre regole base:
  1. Se si parla di fatti personali si deve accennare a una disgrazia. La legge del treno è spietata, non sono ammesse gioie
  2. Anche se è scoppiata un’autocisterna piena di uranio impoverito liquido, anche se Godzilla ha distrutto la stazione di arrivo, anche se una pioggia di meteoriti ha disintegrato il macchinista, la colpa del ritardo è sempre del controllore. Sempre
  3. Qualsiasi sia l’argomento di conversazione (sport, politica, kung fu, lavaggio strade, fusione termonucleare a freddo), uno dei due interlocutori ha la soluzione per mettere tutto a posto

Quest’ultima regola, in particolare, nasconde la soluzione di tutti i problemi della nostra gloriosa Nazione: basta prendere qualsiasi pendolare di una certa età e fargli fare l’allenatore della Nazionale o il ministro dello Sviluppo Economico e tempo un paio di mesi si risolverebbero tutti i problemi. E risparmieremmo anche un sacco di soldi per le elezioni!


Nei miei lunghi anni da affezionato cliente Trenitalia però ho notato che c’è un argomento che torna sempre a galla, un po’ come la peperonata prima di mettersi a letto: la questione Unità d’Italia.

Adesso, alcuni di voi mi diranno: «Ma che treno prendi? Le discussioni che sento io di solito riguardano la promozione dell’Albinoleffe». Eppure vi dico che questo è un evergreen, anzi dato che ho viaggiato il mondo (una volta sono stato addirittura a Sondrio), vi dirò che è molto sentito sia al nord che al sud. E tutti (e in questo c’è davvero unità) se la prendono con Garibaldi, come se avesse organizzato una simpatica scampagnata con gli amici senza avvisare nessuno, che so tipo Cavour o Vittorio Emanuele. Quando sento ste cose la mia mente disturbata elabora l’immagine di Garibaldi al telefono:

«Ciao caro, sono Peppino, stavo organizzando per Pasquetta, pensavo una cosa al mare, tipo la Sicilia… Se puoi portare pure qualche amico? Ma pure mille, più siamo, meglio è»


Dato che di solito non entro in questo tipo di discussioni onde evitare di essere arrestato dalla polizia ferroviaria per oltraggio al pudore e turpiloquio, approfitto di questo spazio per esporre il mio punto di vista, alla maniera democratica che ultimamente sta andando molto di moda: io parlo-voi ascoltate-domande nada.


Ma andiamo per gradi.

Che il processo di unificazione dell’Italia sia incompleto è un dato riconosciuto da giuristi e filosofi, ma su un treno, alle 6.45 di mattina, non ci si può aspettare un ragionamento lucido da nessun essere umano mentalmente stabile, perciò di solito se la prendono con Garibaldi perché, cito testualmente, «nord e sud sono culturalmente diversi». Solitamente chi fa questa profonda analisi viene da quartieri come Vomero o Parioli, che non solo non si sentono integrati nella città, ma vorrebbero essere dichiarati principati autonomi come Monaco. Cercare di far ragionare un vomerese o un pariolino fondamentalista è come cercare di convincere l’Ayatollah Khomeini a mangiare le spuntature di maiale, ma se proprio la mattina siete in vena di risse potete tirare in ballo la prova inconfutabile che l’Italia, almeno sotto il punto di vista culturale, è davvero unita: la Scuola Siciliana.


Ebbene, c’è stato un fugace momento nella Storia in cui tedeschi e italiani andavano d’accordo senza tirare in ballo gli stereotipi sui crauti e sulla pizza, questo momento si ebbe fra il 1230 e il 1250, sotto Federico II di Svevia, imperatore e re di Sicilia.

Federico II era un sovrano illuminato, per capire che tipo fosse basta citare la Sesta Crociata: papa Onorio III gli affidò l’incarico di conquistare la Terra Santa, ma Federico proprio non se la sentiva, tant’è che mentre si organizzava il papa morì e gli successe Gregorio IX. Proprio quando il papa lo scomunicò, l’imperatore decise di partire, ma invece di uccidere i musulmani si mise d’accordo con loro e oltre a garantire la sicurezza dei pellegrini introdusse in Europa l’uso dello zero, senza il quale le partite a Uno diventerebbero più monotone ed io dovrei cambiare nome a questo blog.

Ma Federico II fu anche un grande appassionato di poesia. L’imperatore era affascinato in particolar modo dalle poesie provenzali, per cui cercò di ricreare qualcosa di simile in Sicilia, con delle piccole varianti:
  • I rimatori provenzali non erano legati alla corte, perciò avevano una scelta più ampia di temi, come per esempio la politica del signore (vabbè che Federico II era illuminato, ma non allarghiamoci troppo)
  •  I componimenti dei provenzali erano accompagnati dalla musica, cosa che invece non avveniva per quelli siciliani
  • I poeti provenzali erano dei professionisti

Chiariamo questo ultimo punto. Avete presente nei film di Fantozzi, quando il direttore megagalattico decide di coinvolgere tutti i dipendenti nel suo hobby, tipo il ciclismo, le barche o il cinema d’autore (La corazzata Potemkin)? È esattamente quello che fa Federico II: non avendo a disposizione rimatori in volgare siciliano di professione, decide di coinvolgere i funzionari della sua corte facendogli scrivere delle poesie. Ora, se siete degli estimatori delle poesie di Sandro Bondi e sperate in uno scenario post-apocalittico in cui i nostri nipoti le studieranno a scuola, beh mi spiace deludervi perché Federico II a corte aveva gente che si chiamava Jacopo da Lentini, Pier della Vigna, Stefano Protonotaro, Cielo d’Alcamo, Re Enzo… insomma, il fior fiore dell’intellighenzia italiana che all’epoca occupava posti di rilievo internazionale e che oggi lavorerebbe tranquillamente in un call center al salario minimo.


«Sì, tutto bello e commovente, ma che c’entra con Garibaldi?» 

C’entra, c’entra.


Innanzitutto è stato uno dei poeti della Scuola Siciliana, Jacopo da Lentini, ad inventare il componimento italiano per eccellenza: il sonetto, su cui potrei dilungarmi per ore, ma purtroppo ho la pastiera in forno.
Non vi ho ancora convinti? Allora considerate il fatto che la situazione linguistica in Italia nel 1200 sembrava un quadro di Jackson Pollock, praticamente ogni venti metri c’era un volgare diverso. Ebbene, queste poesie arrivano nelle mani dei copisti toscani che ne intuiscono la grandezza e cominciano a diffonderle, purtroppo però nel farlo le “traducono”, cioè le riscrivono in volgare toscano, dando vita a due grandi equivoci:
  • I poeti toscani (compreso Dante) non sapevano tutta sta storia dei copisti, perciò erano convinti che Jacopo da Lentini e compagnia parlassero esattamente come loro
  • Non sempre nel “tradurre” era possibile rispettare la rima, perciò a volte capitava che la i rimasse con la e chiusa (dire/vedere) e la u con la o chiusa (tutto/sotto). Quello che era un errore dei copisti è passato alla storia come un artificio stilistico chiamato rima siciliana

Nonostante questi inconvenienti però i poeti toscani e bolognesi apprezzano enormemente la Scuola Siciliana e proprio ispirandosi a questi componimenti (oltre a quelli provenzali) che nasce il Dolce Stil Novo grazie a Guido Guinizelli, che Dante definirà lo padre/mio e de li altri miei miglior (citazione necessaria che serve principalmente a salvare lo studente quando si viene interrogati su Guinizelli).

Avete il cuore di pietra e non vi siete commossi leggendo questa storia? Pensate che ci sia bisogno di qualcosa di più “politico” per affermare che culturalmente siamo una nazione unita?

Adesso vi sistemo io.

Nel 1478 a Firenze ci fu una sorta di colpo di stato: la congiura dei Pazzi. I Pazzi, contrariamente a quanto si pensa comunemente non erano degli esagitati, ma una famiglia di banchieri fiorentini avversi a Lorenzo de’ Medici. Un bel giorno, con l’appoggio del Papa e del re di Napoli Ferrante d’Aragona, decisero di eliminare Lorenzo, ma fallirono. Essendo questo detto il Magnifico e non il Fesso, fece impiccare i congiurati, ma non si mise contro il re di Napoli. Anzi, all’indomani della congiura si recò proprio da Ferrante e gli portò in dono l’Antologia Palatina, una voluminosa raccolta della poesia siciliana e toscana pesante come un autotreno carico di pentola a pressione. In pratica Lorenzo de’ Medici stava dicendo al suo acerrimo nemico «veniamo dalla stessa radice, non possiamo essere in guerra».
Immagino che adesso vi starete asciugando i lacrimoni pensando a come la letteratura e la poesia siano un linguaggio universale e che se ascoltassimo di più il nostro cuore non ci sarebbero guerre. E per non rompere l’atmosfera eviterò di accennare ai loschi patti politico-economici che Lorenzo e Ferrante misero in atto ai danni del Papa.

Qual è dunque la morale di questa storia? Che nonostante ci possano essere differenze insormontabili, alla fine non c’è niente di irrisolvibile se ci mettiamo d’accordo sotto il punto di vista economico.

E mi raccomando, portate sempre con voi una copia dell’Antologia Palatina quando prendete il treno: potrete sempre colpire violentemente il vostro interlocutore sulla testa. Magari non si convincerà sul vostro punto di vista riguardo l’unità d’Italia, ma almeno per un po’ non sarà in grado di sparare immani minchiate. 

giovedì 14 marzo 2013

Decameron di Boccaccio: ragazzi, venite che c'ho la villa libera


I letterati sono gente strana. Non mi riferisco al fatto che crediamo di poterci fare una vita con la cultura, quello sarebbe il meno, è che noi abbiamo la scala dei problemi totalmente sfasata. La crisi economica, la questione mediorientale, le energie rinnovabili? Per uno che ha studiato Lettere quella è roba da Miss Italia, tipo quando vince e Carlo Conti le  chiede:

«Allora cosa ti senti di dire?»
«Vorrei ringraziare la mia mamma, il mio papà e vorrei la pace nel mondo»

Un letterato ti tiene segregato due ore a parlare della Congiura di Catilina, si commuove per la peste del Seicento descritta da Manzoni manco l’avesse vissuta in prima persona e quando inizia un discorso sul ruolo della Francia nell’economia europea non vi lasciate ingannare: quasi sicuramente sta parlando di Vercingetorige.

In realtà tutto ciò non è sintomo di profonda cultura, quanto piuttosto del fatto che non avendo un lavoro come tutta la gente normale è costretto a passare il tempo e a sfogarsi in questo modo, almeno quando non è impegnato a piangersi addosso dicendo frasi del genere: «Dovevo nascere cinquant’anni fa, all’epoca sì che i laureati in Lettere erano apprezzati». Naturalmente in questa profonda analisi storico-sociale non tiene conto che attualmente ci sono precari della scuola ultrasettantenni.

Per quanto mi riguarda, io sfogo la mia frustrazione nel modo più molesto che un letterato possa concepire: correggendo gli altri. A dire la verità questa fastidiosa abitudine si manifesta nel soggetto molto prima che si laurei, come quando a quattordici/quindici anni ci si scambiano gli sms fra fidanzatini:



Ecco perché ci riproduciamo più lentamente dei panda e dei gorilla di montagna.

Chi soffre di questa patologia conduce una vita triste, nell’attesa di infierire crudelmente sull’apparato riproduttivo del povero malcapitato che abbia messo una Z in più in civilizzazzione. E non si limita ai conoscenti: frequenta blog che legge attentamente nemmeno fossero contratti Telecom, spulcia i tweet di giornalisti e politici per coglierli in fallo e poi postare al mondo il risultato, frequenta pagine Facebook correggendo amministratori e commentatori facendo emergere in loro i più brutali istinti forcaioli. Il buon senso non serve a niente, quando vediamo un errore diventiamo cani da caccia, una volta fiutato il sangue dobbiamo attaccare. Una volta ho discusso per tre giorni con il frequentatore di un gruppo (no, non era Gli ossessivo-compulsivi dell’ospedale psichiatrico) perché usava in maniera impropria la parola fandonia, come ogni buon tossicomane che si rispetti mi sono reso conto dell’atrocità delle mie azioni solamente dopo.

Ma signori miei, questo è niente, dove noi diamo il massimo, dove raggiungiamo l’apice di questa malata soddisfazione è quando sbagliano i professionisti, come i telegiornali. Non mi riferisco agli errori di battitura della striscia del Tg2 del tipo:

«Il presidento Nappolitano ha chiesto di abasare i tonni»

Quello che ci fa infuriare è più sottile, come l’uso di assolutamente:

«Lei è d’accordo con questa decisione?»
«Assolutamente»

Assolutamente cosa? Assolutamente è un avverbio, ci devi mettere qualcosa vicino, un sì, un no, un panino col salame, una qualsiasi cosa, ma da solo non ci può stare.

Personalmente ciò che mi provoca una serie di tic a ripetizione è l’uso scorretto dell’aggettivo boccaccesco, nel senso di pruriginoso, sporcaccione. Questa piccola parolina ha dato origine a uno dei più grandi equivoci della storia della Letteratura: Boccaccio è stato il maestro spirituale di Martufello.
Tuttavia la questione non è priva di aspetti positivi, infatti negli studenti più smaliziati, quando si parla di Boccaccio, si attivano nientemeno che tutti i diciotto neuroni dell’ACIDA (Area delle Cose Inutili Da Assimilare). In un adolescente medio di sesso maschile questa zona rappresenta il 2% del cervello e qui vengono immagazzinate le materie scolastiche e le raccomandazioni dei genitori, il restante 98% serve per la ricerca, catalogazione e archiviazione dei video di Belèn Rodriguez (non vi illudete anche le femminucce hanno l’ACIDA). Così mentre i giovani virgulti appena sentono nominare il Decameron sono convinti sia la versione medievale dei film dei fratelli Vanzina, il professore, manco fosse Morpheus in Matrix, può approfittare di questa falla del sistema per rifilare loro un pippone di due ore sul grandissimo autore fiorentino.

Ma vediamo effettivamente cos’è il Decameron.

Giovanni Boccaccio nasce a Certaldo nel 1313, probabilmente da una donna di umili origini e da Boccaccio Boccaccino (che, nonostante il nome, non era parente né del Cappuccino, né del Mocaccino). Il padre lavorava per la Compagnia de’ Bardi, che all’epoca era l’equivalente di una holding multinazionale con affari in tutto il mondo. A quattordici anni Giovanni e il padre si trasferiscono a Napoli per affari e qui il futuro scrittore inizia prima a cercare di apprendere i segreti del mestiere paterno, poi si dedica al diritto canonico, in realtà però il ragazzo non ne vuole sapere e invece di iscriverlo alla Scuola Radio Elettra per farne un eccellente consulente dell’Expo di Milano, il padre decide di lasciarlo libero di dedicarsi alla sua passione per la scrittura. Pensate che sfortuna per i milanesi!
Durante questo soggiorno nasce la figura di Fiammetta che solo per uno sfortunato caso del destino ha lo stesso nome della conduttrice di Wild, programma che costringerebbe Gandhi a rivedere le sue posizioni sulla non violenza e sul diritto di espressione. Come altre donne della letteratura (vedi Beatrice e Laura), Fiammetta è naturalmente solo un destinatario ideale delle poesie, probabilmente non è mai esistita e se è esistita magari si chiamava Concetta e nemmeno sapeva dell’esistenza di Boccaccio.

Ma veniamo alla parte interessante: com’è che il nome di Boccaccio è diventato sinonimo di indicibili zozzonerie? Perché nel 1349 inizia a scrivere la sua opera più famosa: il Decameron, la raccolta di novelle più importante della storia della Letteratura.
Giovanni Boccaccio non si limita a scrivere delle novelle a casaccio, ma le ordina all’interno di una struttura comunemente denominata cornice, cioè fornisce un pretesto per raccontare le storielle (che nella maggior parte dei casi non hanno nulla di pruriginoso).
Siamo nel 1348 e Firenze è devastata da un’epidemia di peste (in cui muore anche Boccaccino). Qui si vede il genio italiano: uno sceneggiatore americano avrebbe tirato fuori da questa situazione:
  •  Dieci stagioni di The Walking Dead 
  • Nel peggiore dei casi un originalissimo film catastrofico in 3D in cui uno dei genitori cerca il figlio e dopo tre ore e mezza di effetti speciali e dialoghi scritti da un opossum che cammina a caso sulla tastiera, finalmente i due riescono a riabbracciarsi.


Invece Boccaccio (a costo zero) piazza sette ragazze e tre ragazzi in una villa fuori città. L’allegra combriccola durante il giorno fa varie attività, ma il problema è svagarsi la sera dato che non si sono portati dietro nemmeno una Settimana Enigmistica. E cosa possono fare di sera dieci ragazzi in una villa abbandonata, senza alcun controllo? Esattamente il contrario di quello che state pensando. Infatti i giovani decidono di scegliere un argomento per ogni giorno e di raccontare una storiella in tema, ad eccezione di Dioneo che è il più giovane e perciò gli viene concesso di non attenersi all’argomento della giornata.

Per i personaggi della cornice Boccaccio sceglie dei nomi “parlanti” che non sto qui ad elencarvi, pure perché non è che appena finito di leggere vi trovate in salotto un professore di Cambridge pronto a interrogarvi.

Il nome Decameron invece viene dal greco e significa “dieci giorni”, cioè l’arco di tempo in cui si svolge la vicenda, facendo due rapidi calcoli capiamo bene che l’opera è composta da cento novelle, numero tondo tondo che richiama l’opera che Boccaccio ammirava di più: la Commedia di Dante Alighieri (sì, lo so che nel Medioevo il cento era un numero particolare, ma a me piace pensare che l’abbia fatto per Dante).

A questo punto dovrei farvi il riassunto di ogni novella, analizzarla, mettere in risalto i temi e esplicitare le fonti, ma già sento il caratteristico tintinnio delle compresse di barbiturico, quindi mettete giù i tubetti e tirate un sospiro di sollievo.
Quello che voglio dimostrare è che il Decameron non è affatto un’opera vietata ai minori. Per farlo non è necessario che lo leggiamo tutto, non che faccia male, ma sinceramente non riesco a immaginarmi nessuno che dopo dieci ore di fabbrica torna a casa e dice alla moglie:

«Ah, finalmente posso leggermi in santa pace il Decameron scritto in fiorentino del Trecento»

Ci basterà perciò fare un esperimento in tre semplici passi:
  1.  Trovare il Decameron in casa
  2. Toglierlo dal tavolo sotto cui lo avevamo messo per evitare che ballasse
  3. Aprire una pagina a caso


La legge dei grandi numeri ci insegna che se apriamo una pagina a caso dieci volte, almeno un paio di volte dobbiamo trovare una caviglia, una coscia, insomma qualcosa di licenzioso, invece con nostro grande stupore leggeremo solo di gente furba, pazza, stupida, fortunata.
A ben vedere le novelle “erotiche” (e non è comunque il termine più esatto) saranno cinque o sei, però tanto per cambiare sono quelle che si ricordano di più e che hanno dato origine all’accezione di boccaccesco che normalmente mi fa cadere le braccia (e sto usando un eufemismo).

Se invece volete una prova scientifica di quello che sto dicendo, basterà dare un’occhiata ai temi delle giornate:
  •  Prima giornata: Tema libero
  • Seconda giornata: Avventure a lieto fine
  • Terza giornata: Ritrovamento o ottenimento di una cosa che si desidera
  • Quarta giornata: Amori infelici
  • Quinta giornata: La felicità raggiunta dagli amanti dopo aver vissuto avventure incredibili
  • Sesta giornata: Risposte argute
  • Settima giornata: Beffe fatte dalle donne nei confronti dei mariti
  • Ottava giornata: Beffe di ogni genere
  • Nona giornata: Tema libero
  • Decima giornata: Avventure di ogni genere vissute con cortesia e magnanimità


Quindi il vero problema di tutto è la Settima Giornata che ha ispirato indimenticabili film come Decameron Pie, che ricordiamo per la magistrale interpretazione di Elisabetta Canalis, superata finora solamente dall’espressione delle triglie surgelate sul banco del pescivendolo.

Non che la situazione a scuola sia migliore, infatti dopo che la prof ha sudato come uno sherpa tibetano per spiegare il Decameron, alla fine è costretta a far leggere sempre la stessa novella da quarantacinque anni: Chichibio e la gru. Roba che anche la più animalista delle professoresse a un certo punto si sarà augurata la completa estinzione di questi simpatici volatili.

Il Decameron è un’opera per tutti, anzi alcune novelle potrebbero essere tranquillamente lette ai bambini al posto delle favole (Hans e Gretel bruciano viva una vecchina dopo essere stati abbandonati dai genitori, per dire). L’importanza di questa opera è tale che ne è stato affascinato anche Chaucer e ne ha fatto un modello per i suoi Racconti di Canterbury, quindi dovremmo considerarci abbastanza fortunati a poterla leggere in lingua originale.

E se proprio non ci va di leggerlo tutto, almeno pensiamoci due volte prima di dire boccaccesco. Potreste salvare la vita a un letterato evitando di fargli partire un embolo.


Aggiornamento e (inopportune) precisazioni...

In seguito alla pubblicazione di questo post mi sono arrivate delle mail simpatiche in cui mi hanno fatto le pulci per tutti i refusi, altre invece non proprio carine in cui ci si chiedeva come mai non mi avessero accompagnato a calci non-mi-ricordo-bene-dove fuori dall'università.
A questi ultimi voglio precisare che:

  1. Questo blog è ignorant-friendly, cioè si rivolge agli studenti con poca voglia di mettersi sui libri, ai miei nonni (che hanno fatto fino alla terza elementare), così come ai puristi della lingua italiana. Per questo motivo, a parte clamorose sviste (ce ne sono, anch'io sono figlio del Creato), tendo ad utilizzare l'italiano dell'uso medio, cioè la lingua parlata dai comuni mortali (confessatelo che anche voi non usate così spesso i congiuntivi)
  2. Se proprio siete dei puristi della lingua italiana, tenete presente che Tullio De Mauro e l'Accademia della Crusca hanno un sito ufficiale che potete leggere beatamente come un eroinomane si fa di metadone per disintossicarsi



Detto questo, vi prometto che in futuro non vi triturerò più le scatole col minipimer con queste  (inutili) precisazioni. 

lunedì 25 febbraio 2013

Giovenale: ti odio, poi ti amo, poi ti odio...


Crescere a cavallo fra gli anni ’80 e gli anni ’90 non è stato per niente semplice. Io appartengo a quella generazione di persone che ha ancora difficoltà a capire che l’adolescenza l’ha passata da un pezzo. Noi cerchiamo su Youtube le pubblicità di giocattoli e merendine degli anni Ottanta e sotto il video commentiamo: «Mamma mia, che nostalgia!». Che ti verrebbe da dire: «Nostalgia di che? Che per tutta l’infanzia ti hanno imbottito di slogan manco Arancia Meccanica, e poi basta con sta storia che stai al diciottesimo anno fuori corso al Dams!».

Ma non lo diciamo, perché siamo una generazione confusa, e non tanto per colpa dei genitori, quanto per colpa dei cartoni animati. Provate a guardare una puntata di Peppa Pig, la trama è lineare, è un capolavoro insuperato di narrativa contemporanea. Ma i cartoni con cui sono cresciuto io e i miei coetanei sono stati partoriti da menti disturbate che ci hanno fatto nascere dubbi che ancora oggi, nel cuore della notte, ci perseguitano:

· Perché la palle di Mila e Shiro e Holly e Benji quando acquistano velocità prendono la tipica forma dei saltimbocca alla romana?
·  Vabbè che Superman mette gli occhiali per mantenere la sua identità segreta, ma com’è che He-Man si toglie il suo pidocchiosissimo gilet di velluto comprato dai cinesi e nessuno lo riconosce più? E se a lui basta levarsi la giacca per non essere riconosciuto, com’è che invece la sua tigre deve indossare una maschera?
·  Ma soprattutto: cosa si fumavano alla corte di Francia per non accorgersi che Lady Oscar era una donna?

Tuttavia il vero problema della mia generazione è racchiuso in sei piccolissime parole: «Ma che ne sai tu, che […]». I puntini sospensivi dipendono dal nostro interlocutore, facciamo un esempio: accennavi ad una timida lamentela perché invece delle crostatine al cioccolato a casa avevano comprato quelle merendine con la marmellata con cui di solito si tirano su i muri a secco? Nel migliore dei casi da una botola sotto il pavimento spuntava fuori tuo nonno che diceva: «Ma che ne sai tu, che [ai miei tempi c’era la guerra]». 
Noi siamo cresciuti all’ombra di due generazioni che: o avevano fatto la guerra o avevano fatto il ’68, a gente così quando ti raccontava della loro straordinaria giovinezza non potevi dirgli: «Ehmm, si però io ho messo il record di Pac-Man del quartiere». Per cui tutto quello che vogliono quelli della mia generazione è la nostra occasione per dire: «Ma che ne sai tu, che…». Il massimo sarebbe poterlo dire a mio nonno o a mio padre, ma quando succederà mi accontenterò di avvelenare l’infanzia alle generazioni successive.


Con questi presupposti capite benissimo che da noi non si può pretendere di cambiare il mondo. Noi già a ventitré anni ci chiediamo al massimo se, come e quando andremo in pensione. E ancora non abbiamo fatto un solo giorno di lavoro.
Il fatto è che la rivoluzione è una cosa da vecchi, mica da ragazzi. Non ci credete? Provate a mettervi in fila alla posta o aspettare l’autobus dietro un anziano: sentirete propositi di vendetta e di rovesciamento dell’ordine costituito che a confronto Che Guevara e il Subcomandante Marcos sembrano usciti da un meeting di Comunione e Liberazione. Il Massachusetts Institute of Technology ha recentemente calcolato che con l’energia prodotta dallo giramento di zebedei di dieci vecchietti in fila alla posta si può alimentare tranquillamente per mezza giornata una città grande come San Francisco. 
Il vecchietto in fila progetta rivoluzioni egalitarie, sogna un mondo dove non ci siano attese, propone di linciare politici, reintrodurre la ghigliottina, mettere ordigni nucleari sotto i palazzi di potere. Il vecchietto in fila è un combattente, un guerrigliero della jungla boliviana, un vietcong che striscia nei cunicoli. È più indottrinato di un soldato dell’ex Unione Sovietica, solo che invece di seguire il Libro Rosso, segue la Dottrina del Tempo Perso.


Adesso se state tirando fuori la giacca con le toppe sui gomiti perché pensate che c’entri qualcosa Proust, ve lo dico subito, rimettetela a posto. La DTP (sono troppo pigro per scriverlo per esteso) è una dottrina sanguinaria tramandata oralmente da vecchietto a vecchietto, fin dalla notte dei tempi. Tipo Assassin’s Creed, per capirci. 
I principi base di questa dottrina sono molto semplici:




    Nonostante tutto però i seguaci della DTP hanno un cuore di burro, per cui, almeno per il momento, la catastrofe termonucleare è scongiurata.

Tutto ciò farebbe pensare che in passato, in tempi molto remoti, ci sia stata un’età dell’oro in cui gli anziani in fila erano contenti, in cui non rischiavano la scomunica per le bestemmie tutte le volte che dovevano pagare una bolletta. Fortunatamente la storia e la letteratura ci rassicurano, sussurrandoci dolcemente: NO!
Il prototipo del vecchietto in fila lo troviamo nella letteratura latina: Decimo Giunio Giovenale.


Di Giovenale non sappiamo granché, nasce fra il 50 e il 60 d.C., a differenza della maggior parte degli autori latini non proviene da una famiglia benestante, infatti in tutta la letteratura latina, a parte Plauto e Terenzio, sono pochini gli esempi di scrittori che hanno iniziato facendo i panini da McDonald’s (si fa per dire), insomma, contrariamente al sogno Americano, i Romani erano convinti che per avere successo nella vita dovevi avere soldi e conoscenze giuste, il che dimostra due cose:
  • Che all’epoca l’America non era stata ancora scoperta
  • Che questa è la prova incontrovertibile che gli Italiani discendono direttamente dai Romani

Ad ogni modo Giovenale, pur non essendo un privilegiato, viene mandato a Roma da ragazzo per studiare retorica ed iniziare una brillante carriera di avvocato. Il problema però è che questa carriera tanto brillante non è, per cui entra a far parte della categoria dei clientes. Ma chi erano i clientes? Per capirlo vi devo chiedere di fare un grande sforzo di immaginazione: all’epoca con la cultura si guadagnava poco (all’epoca), per cui poeti, retori, scrittori e artisti in generale offrivano i loro servigi a signori ricchi e potenti (all’epoca). Alla fine non è che sti signori avessero realmente bisogno di tutta sta gente, solo che al tempo dei Romani non potevi comprarti, che so, tre emittenti televisive (stiamo parlando dell’epoca, eh), perciò eri costretto a portarti dietro trenta/quaranta persone che non facevano altro che ripetere quanto eri bravo, quanti eri figo, quanto eri magnanimo. Ma queste sono usanze arcaiche, difficili da capire per l’uomo moderno, che non è assolutamente abituato a queste cose.

A un certo punto Giovenale si rende conto che di questo passo difficilmente poteva comprarsi la biga decappottabile (a quel tempo era un must) e perciò a quarant’anni circa appende la toga al chiodo e si mette a scrivere satire.
In tutto il nostro poeta scrive sedici satire divise in cinque libri, i suoi modelli di riferimento sono Lucilio e Orazio. La differenza che passa fra Giovenale e Orazio è su per giù la stessa che passa fra il Bagaglino e Benigni, e non perché scrivesse male. Il fatto è che Giovenale non tende a parlare di politica e quando lo fa non tocca l’attualità per paura di incappare in qualche punizione imperiale, per cui nella Satira IV si mette a parlare delle scelleratezze di Domiziano, che è un po’ come se domani Crozza ricominciasse come le imitazioni di Andreotti. Immaginate che allegria.


Quindi, se di politica non si può, di cosa può parlare il nostro Giovenale? Qui c’è il colpo di genio: non potendo prendersela con i potenti, il poeta fa emergere il vecchietto rancoroso che è in lui e spara a zero sulle fasce più deboli della popolazione. 
Il poeta non risparmia nessuno, vuoi perché fare satira senza politica è come paracadutare un vegetariano alla sagra della salsiccia di cinghiale, vuoi perché di suo non sopportava proprio nessuno, ma i suoi bersagli preferiti sono le donne e gli omosessuali. Se fosse vissuto un po’ di più se la sarebbe presa anche con i drogati, i panda, l’emù e altre specie in via d’estinzione.

   
A voler essere sinceri non è che Giovenale fosse misogino e omofobo in tutto e per tutto. Se la prende con queste due categorie perché, secondo lui, sono rappresentative del livello di degrado che aveva raggiunto la società Romana dell’epoca. Tuttavia non mi sento di escludere a priori che alla visione di una puntata di Xena - La principessa guerriera avrebbe potuto esclamare:

«Vabbè, è tutto molto bello. Ma quand’è che iniziano a cucinare, ’ste due?»

Il nostro caro Giovenale dedica alle donne una sola satira, la VI, ma per descrivere il gentil sesso dell’epoca impiega la bellezza di 661 versi, che potrebbero essere tranquillamente riassunti nella frase:

«Le donne devono stare a casa e fare la calza»

Alla faccia delle quote rosa.

Giovenale non sopporta le donne quando:
  • Si interessano di politica
  • Si interessano solo di cosmetici
  • Sono troppo intellettuali
  • Sono troppo superficiali
  • Sono di facili costumi
  • Sono -secondo lui- finte pudiche

Insomma non le sopporta e basta.

Diverso è il caso degli omosessuali, Giovenale li distingue in due categorie:
  1. Quelli che non riescono a nascondere la propria natura
  2. Quelli che di giorno fanno i moralizzatori e la notte vanno a trans (ok, sto un po’ parafrasando)

Siamo chiari: il poeta, da buon vecchietto rancoroso, è omofobo, ma mentre “tollera” la prima categoria, per la seconda nutre un odio particolare perché li considera ipocriti. A questo punto ci si potrebbe domandare come avrebbe considerato quelli che: «la famiglia è sacra» e nel frattempo hanno divorziato sei volte.

Per rappresentarvi le categorie con cui Giovenale se la prende, direttamente dalla mia tesina di maturità vi propongo quello che amorevolmente chiamai il diagramma dell’odio:



Inutile dirvi che l’esame non andò come speravo.

Ora, giustamente il lettore e lo studente medio potrebbero chiedersi: «Ma a sto punto mi studio mio nonno e faccio prima». Prima di vivisezionare i vostri parenti però bisogna considerare che Giovenale, sebbene pieno di bile come il vostro avo, non le spara a casaccio, ma scrive delle Satire che, volenti o nolenti, sono pagine immortali della letteratura. Tanto per fare un esempio: avete presente i motti panem et circenses e mens sana in corpore sano? Secondo voi chi li ha scritti, mio nonno o Giovenale?

Non sto qui a menarvela con la storia dell’indignatio, ma lasciatemi dire che Giovenale ce l’ha con tutti perché la vita è non è stata generosa con lui. Orazio la faceva facile dicendo: carpe diem, alle spalle aveva Augusto che lo proteggeva, invece il nostro poeta ha vissuto nella paura costante che lo mandassero in esilio (e secondo alcune fonti, non attendibilissime, c’è anche stato).
D’accordo non sarà stato il massimo del politicamente corretto, ma i tempi erano quelli che erano, e poi a ben vedere ancora oggi abbiamo difficoltà ad affrontare certi argomenti con serenità.


Ma soprattutto Giovenale merita la nostra incondizionata stima perché, a differenza dei nostri nonni, quando si indignava lo faceva in maniera elegante, mica bestemmiava in sanscrito.



N.B.
Nessun vecchietto è stato maltrattato durante la stesura di questo post.