giovedì 8 maggio 2014

Il Verismo: il reality delle cinghiate

Non più di un paio di settimane fa stavo prenotando al Billionaire per festeggiare le 10.000 visite su questo blog. Avevo già spedito gli inviti ai personaggi più autorevoli del mondo culturale: Tullio De Mauro, Francesco Sabatini, Corrado Augias, Luciano De Crescenzo, Noam Chomsky, Umberto Eco, Evgenij Evtušenko… , ma anche ai rappresentanti del giornalismo d’inchiesta, quelli che non le mandano certo a dire, quelli che ci mettono la faccia come l’inviato dalla voce inquietante di Chi l’ha visto?, Brumotti, il Gabibbo e la giornalista del TG5 che si occupa di cinema, quella che lavora solo tre volte all’anno, per capirci: quando c’è il festival di Cannes, il Leone d’oro e gli Oscar, gli unici tre concorsi cinematografici che conosce.
Mi ero appena messo nel lettino abbracciato al mio peluche di Moravia (è uguale a un normalissimo orsacchiotto, ma ti guarda incazzatissimo), e stavo beatamente immaginando la faccia di Umberto Eco mentre Brumotti gli urla nelle orecchie «A bombaaaaaazza!!!», quando improvvisamente squilla il cellulare.

«Pronto?» 
«Ci hai messo un anno e mezzo per fare 10.000 visite, noi le facciamo in un quarto d’ora. Precisamente fra 14:50 e le 15:05 di un qualsiasi Ferragosto»
Clic.

Solo una persona poteva chiamarmi nel cuore della notte per prendermi in giro: Casaleggio.
Ovviamente ho cominciato a pormi un sacco di domande: come fa Casaleggio ad avere il mio numero? Come faceva a sapere del Billionaire? Quale oscura macchinazione si cela dietro questa chiamata? Non c’ha niente da fare la notte invece di chiamarmi? Che balsamo usa per avere quei ricci sempre così vaporosi?
Tuttavia la questione che mi assillava di più era di ordine generale: esiste davvero la democrazia in internet?

Per riuscire a risolvere la situazione (e finalmente prendere sonno) mi è venuta in mente una frase che ho letto in un saggio sul filosofo John Locke (ma adesso che ci penso potrebbe essere che l’ho vista su uno dei bigliettini dei Baci perugina): «Un albero che cade in una foresta fa rumore, se nessuno lo sente?». Certo, se lo chiedete al bradipo che vi si stava arrampicando riceverete in risposta una serie di inequivocabili gesti che vi faranno capire la sua opinione in merito, ma se non vi trovate nel Borneo capite che la situazione è seria.
Prendete questo blog, un bella mattina mi sono svegliato e ho deciso di scrivere e come me può farlo chiunque: c’è chi parla di cucina, chi di oggetti fatti a mano, chi di fumetti, chi di film… «E allora? Internet è uno strumento democratico». D’accordo, ma quanti blog possono dire di avere più lettori dei telespettatori di una lezione di fisica quantistica alle 4 di mattina su Rai Nettuno?
Come vedete siamo ritornati all’albero: posso dire tutto quello che voglio, ma, se non mi ascolta nessuno, che lo dico a fare?
E allora come la mettiamo? Internet è tutto un bluff? Se non ti fai pubblicità non sei nessuno? È caduto l’ultimo baluardo della democrazia occidentale dopo l’abolizione della giuria demoscopica di Sanremo?

Non dobbiamo disperare, perché se da un lato i blog si sono rivelati una mezza bufala, dall’altro sono emersi strumenti ancora più democratici, con cui il cittadino comune, l’uomo della strada (nel senso che è disoccupato e passa tutto il giorno in giro per il paese) può far sentire la sua voce: la petizione online.

Se non vi è mai capitato di firmare una petizione online non potete capire in quale abisso di spam e richieste moralmente e mentalmente discutibili si cacci chi decide di cliccarci su.
Tutto succede per caso. Un giorno stai lì che ti guardi il tuo bel video con i gattini (da una stima fatta da Apple tra dieci anni supereranno il numero di video porno) e all’improvviso ti arriva su Facebook un messaggio di Gesualdo Scatarroni

«Ciao, ho firmato questa petizione. Dai anche tu una mano a questa importante causa»

Nonostante tu sia un tipo molto impegnato nel sociale, di primo acchito l’unica cosa che ti interessa non è tanto dare una mano alla causa, quanto capire chi cacchio è sto Gesualdo Scatarroni. Dopo aver effettuato una ricerca con dati incrociati (spolverando vecchie foto di scuola, interrogando amici di amici, mettendo sotto torchio tua nonna), scopri che tal Scatarroni è stato per due settimane tuo compagno in prima elementare: prima di trasferirsi con tutta la famiglia nella Guinea Francese. 
Qui emerge il famoso effetto Balla coi lupi che prende il nome dal celeberrimo film scritto, diretto e interpretato magistralmente da Kevin Costner che, per quasi quattro ore, cerca di farsi accettare dagli indiani ma alla fine la morale è: «Vabbè, ci hai provato, ma anche se ti vogliamo bene ricordati che sei sempre un cafoncello americano convinto che la cucina italiana sia limitarsi ad aprire una scatoletta di tonno».
Nel senso che per quanto si possa essere smaliziati non si arriverà mai al livello dei nativi digitali, per cui clicchi sul link inviato da Scatarroni non sospettando minimamente che si tratti di un messaggio automatico. 
Vi ricordate i bei tempi dell’attivismo sociale in cui prima ci si informava sulla causa e poi si passavano dalle sedici alle diciotto ore a fermare centinaia di passanti per raccogliere tre firme? Ecco, adesso la tecnologia ci viene incontro, ma con alcuni inconvenienti che andrò qui ad elencare:
  1.  L’attivista da tastiera si indigna per qualsiasi cosa: dalla caccia alla foca monaca agli 89 centesimi annuali di Whatsapp
  2. Ha una tastiera difettosa, lo si capisce del COSTANTE USO DEL CAPS LOCK e dall’enorme quantità di punti esclamativi quando fa un’affermazione e interrogativi quando porge una domanda (che è quasi sempre retorica)
  3. Si spaccia per grande esperto di tecnologie, solitamente dice di aver fatto parte di Anonymus ma ne è uscito «perché avevano una linea troppo morbida». In realtà non è capace di distinguere un MP3 da un 33 giri di Bobby Solo

«MA ALLORA SEI RETROGRADO E REAZIONARIO!!!!!!!!!!!!!!!!11!!!!!!». NO… cioè no, il fatto è che spesso e volentieri l’attivista da tastiera non ha la minima idea di come funzioni il sistema delle petizioni. 
Come sanno anche nei peggiori bar di Caracas, la parola petizione deriva dal latino pĕtĕre, vale a dire chiedere per ottenere. Ora, questa cosa presuppone che ci sia qualcuno a cui mandare ste benedette firme, no? Per cui se sono contrario alla caccia alle balene le mando al governo giapponese; se non voglio che ci siano più bambini soldato le manderò all’ONU. Ma se mi danno fastidio il punteruolo rosso, i gerani alle finestre degli anziani, le ruote dei carrelli della spesa che non vanno mai nella stessa direzione, le persone che si ostinano a farsi il riporto invece di radersi i capelli, aspettare due ore per fare il bagno dopo mangiato, il tanga leopardato da uomo… a chi mando le firme?
Naturalmente con questo non intendo dire che le petizioni online non servano a niente: il Winner Taco è tornato nei bar, a ricordarci che quando il popolo della rete si muove è capace di far capitolare anche le grandi multinazionali.

A parte la petizione per il Winner Taco (che ho firmato davvero), una delle poche petizioni che firmerei volentieri è quella per abolire i reality. Va bene, lo so che state pensando: «Ecco, il solito atteggiamento finto intellettuale», quindi specifico subito che a me non danno fastidio i reality in quanto tali. Quello che mi provoca un fastidioso rush cutaneo è il comportamento dei partecipanti a queste trasmissioni.
Prendiamo il Grande fratello. A parte il fatto che nessuno dei concorrenti sa chi sia Orwell, mi urtano da morire gli incontri con i parenti. Sì, perché il partecipante tipo ha viaggiato il mondo, è stato sei mesi a Londra; ha lavorato come DJ due anni a Valencia; (sulla carta) parla tre lingue; fa paracadutismo acrobatico; ha il datore di lavoro migliore del mondo, visto che gli permette di stare sei mesi chiuso in una casa con altri dieci decerebrati come lui senza licenziarlo.
Ebbene, nonostante questo curriculum, dopo 15 (quindici!) giorni che sta chiuso in casa, si presenta questa scena:

Conduttrice: «Manolo, noi tutti ti conosciamo per la tua frizzante allegria, ma nella tua vita c’è un angolo oscuro: il tuo rapporto con papà Alcibiade»
Manolo: (grugnito incomprensibile)
C: «Sappiamo che il tuo papà ha un carattere forte, anche se non ti ha mai fatto mancare niente, anche se ti ha fatto studiare, anche se ti ha sempre portato a nuoto, ti ha coperto di regali, hai sentito la sua mancanza. Alcibiade purtroppo non ti è stato sempre vicino perché tutti i giorni, fino alla pensione, dalle sei di mattina alle cinque di pomeriggio si assentava misteriosamente perdendosi i momenti più belli della crescita di suo figlio»
M: (lacrime agli occhi accompagnate da altro grugnito)
C: «Manolo, tuo padre è lì»

Il resto potete immaginarlo: abbracci, pianti e tirate su con il naso che nemmeno a casa mia quando ci arriva una raccomandata e scopriamo che non è di Equitalia.

Ma possiamo affermare che i reality sono un prodotto della nostra società malata che si crogiola nel suo voyeurismo invece di produrre programmi televisivi elaborati andando, al contempo, a ledere il pathos, la tensione drammatica, la mimesis e un sacco di altre parole fighe?

No, non lo è. Se proprio vogliamo andare a ravanare nel torbido, scopriamo che già alla fine dell’Ottocento c’era qualcosa di simile ai nostri reality: il Verismo.

Se, dopo questa affermazione, non avete buttato il PC dalla finestra e dato fuoco ai rottami, seguitemi nel mio ragionamento e vedrete che il Verismo è il reality più crudo che sia mai stato concepito.

Il Verismo è una corrente letteraria nata in Italia nella seconda metà dell’Ottocento. Dato che, come diceva Coso, «Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma», il Verismo si ispira fortemente al Naturalismo francese, il cui principale esponente è Zola (non faccio nessuna battuta sul calciatore sennò sembro troppo obsoleto).
Quando lo si studia a scuola c’è il pericolo di incappare in un equivoco da cui non ci libererà mai più: il Verismo nasce e muore in Sicilia, anche perché ti fanno studiare uno, massimo due autori, cioè Giovanni Verga e Luigi Capuana. E invece è tutto sbagliato, perché questa corrente nasce a Milano, anche se la maggior parte delle opere sono ambientate in Sicilia e in Italia meridionale.
Ma perché il Verismo è il “padre” dei reality?
Come suggerisce il nome, questa corrente letteraria si propone di descrivere il vero, cioè la vita comune delle persone di cui la grande Letteratura non si è mai occupata prima di allora: orfani, minatori, contadini, pescatori, pastori e via dicendo. Questa ricerca del vero si realizza in due modi:
  • Attraverso l’uso del linguaggio che, spesso e volentieri, include parole dialettali
  • Evitando di far esprimere giudizi al narratore

Partiamo dal punto 1. Siete schifati dal linguaggio usato nei reality? Non vi piacciono parolacce, volgarità, mancanza di sensibilità? Allora non potete leggere nessuna opera verista.
Il Verismo non è politically correct, tutt’altro. Per capire meglio di cosa stiamo parlando vediamo un po’ di parole tradotte dal linguaggio verista all’italiano:

Ingenuo = Minchione

Lavoratore = Bestia

Sfortunato = Iettatore

Invalido = Storpio

E ho riportato solo gli esempi più leggeri, insomma, a confronto i dialoghi dei film di Vin Diesel sembrano scritti da Petrarca. 
Tuttavia a nobilitare il Verismo rispetto ai reality (semmai ce ne fosse bisogno) è la funzione di questo linguaggio, cioè mimetizzarsi concretamente con l’ambiente che si sta descrivendo: parliamoci chiaro, se voglio descrivere al massimo della realtà la mia reazione quando qualcuno mi taglia la strada con l’automobile non userò qualcosa del tipo:

«Ohibò, conducente di trabiccolo, immondo frutto di un accoppiamento coatto fra una scrofa e un cinghiale, stavi invero per cozzare contro il mio veicolo. Che possano gli dei donarti miglior vista, affinché tu possa rimirarti ogni giorno della tua esistenza per constatare la tua abiezione»

Quanto piuttosto:

«Guarda sto grandissimo figlio…»

Che poi, dico io, ti ha tagliato la strada? Prenditela con lui! Lascia stare la madre, che già è stata sfortunata ad avere un figlio del genere.



Per quanto riguarda il tema “volgarità e mancanza di tatto”, il Verismo è peggiore di qualsiasi reality attualmente in circolazione. Per dimostrarvelo vi propongo questa poesia di Ulisse Tanganelli, in cui si lamenta della “poca leggiadria” della donna cantata:

No: tu non sei la vergine ideata
Nel lieto immaginar dei sogni miei;
La figurina snella e delicata,
A cui la vita mia consacrerei. 


La grazia ho sempre nell’amor cercata;
E più del corpo l’anima vorrei:
E in te, ce n’è di ciccia una carrata;
Ma invan l’anima tua ricercherei. 


Credilo: amore fino al cor non passa
Cui forma il grasso impermeabil saio;
E più che saio mortuaria cassa. 

Tu mi sfondi perdio letto e solaio:

Io non ti posso amar sei troppo grassa!…
E ti giro senz’altro al macellaio.


Un vero gentleman d’altri tempi! 

E con questo credo di aver esaurito l’argomento linguaggio. Passiamo alla questione narratore. 

Dall’istituzione della scuola italiana fino a stamattina, quando si parla di Verismo la prof, con una voce ispirata, guardando verso il fondo dell’aula come se ci fosse un’apparizione mariana cita Verga: «L’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé», e in effetti è la migliore definizione per il narratore verista.
Per capirci meglio dobbiamo fare un passo indietro di 22 anni, quando mio padre comprò 54 videocassette con i documentari introdotti da Piero Angela. Cosa c’entra col Verismo? Lasciate fare e vi spiego. Io quelle 54 cassette le ho guardate tutte, dalla prima all’ultima, a 8 anni ero il massimo esperto europeo di migrazioni di gnu, eppure c’era una cosa che mi sconvolgeva: come faceva il documentarista a starsene nascosto buono buono mentre l’orso bianco si divorava il cucciolo di foca monaca, i suoi fratelli, la mamma e pure le foche vicine di casa? Bisognava essere senza cuore per documentare la natura?
La risposta non me la sono ancora data, tuttavia ho capito che se si vuole mostrare al pubblico cosa accade realmente in natura non bisogna assolutamente interferire con essa.
In definitiva è quello che fa lo scrittore verista: si limita a raccontare i fatti, senza esprimere giudizi etici o morali, senza entrare nella storia e se il tutto non sembra asettico è solo perché utilizza un linguaggio quanto più vicino ai protagonisti. 
Insomma, Manzoni è il tipo che al cinema commenta ogni singola scena, Verga invece è quello che si mette in ultima fila con i popcorn e fa in continuazione: «Ssshhhh!!!».
Il problema della teoria elaborata da Verga è che lo scrittore non è un documentarista e perciò non può rimanere freddo e distaccato e lasciar fare alla natura, soprattutto perché di mezzo ci sono le sue creature. Lo scrittore siciliano viene meno alla sua regola non in un romanzo, ma in una piccola novella: Rosso malpelo.
La storia la conosciamo tutti, perciò evito di fare inutili riassunti che potrebbero provocarvi il prolasso delle parti molli. Quello che ci interessa è vedere come in definitiva Verga passi la maggior parte del tempo a dire quanto quel ragazzo rosso di capelli si meritasse di essere picchiato dalla madre, dal patrigno, dalla sorella, dagli altri minatori che lavoravano con lui nella cava, dal padrone della miniera e da qualunque altro personaggio lo incontri.
Solitamente questa strana avversione di Verga per malpelo viene spiegata come un voler sottolineare la condizione del ragazzo e far capire al lettore in quale situazione si trovi e qual è il suo rapporto con gli altri. Naturalmente io non sono affatto d’accordo. È vero che la Letteratura è una scienza che va ricondotta a schemi precisi, ma è vero pure che non sempre si può confinare la creatività e l’emotività all’interno dei suddetti schemi. Quindi…
Per come la vedo io, Verga esagera nell’offendere e avvilire malpelo perché gli vuole “troppo bene”, il suo comportamento è simile a quello del ragazzo nei confronti di ranocchio: lo tratta male per prepararlo alla vita e il narratore esaspera volutamente le espressioni di disprezzo per provocare un moto di sdegno e rabbia nel lettore, per far sì che partecipi alla disperazione del protagonista e arrivi quasi ad odiare la voce narrante per la sua durezza.
Ovviamente un qualsiasi formalista russo potrebbe contestare la mia interpretazione, ma dubito che leggano questo blog. Visto che sono tutti morti. 

Se proprio vogliamo trovare una differenza davvero sostanziale fra il Verismo e i vari reality in circolazione la dobbiamo cercare nel finale. Possiamo cercare quanto vogliamo, in nessun romanzo verista alla fine il protagonista vince 500.000 euro. A dire il vero nessuna opera verista finisce bene.
Non mi credete? Mettete in dubbio la mia parola? Allora vi meritate questo megaspoilerone
  • Giacinta (Capuana): si suicida 
  • Rosso malpelo (Verga): muore in miniera 
  • Scurpiddu (Capuana): parte soldato (non si sa se torna) 
  • Canne al vento (Deledda): disgrazie a badilate, alla fine il protagonista muore (sereno, però) 

E ringraziate che mi fermo qui con il necrologio. 

Naturalmente le analogie fra reality e Verismo sono un tantinello forzate (mi rivolgo alle mie prof di lettere) e comunque finiscono qui.
Nei reality il protagonista è quell’uno su mille che ce la fa, che emerge dalla massa. Al contrario, il Verismo è un riflettore puntato proprio su quella massa di ultimi e diseredati (vanno sempre in coppia) di cui nessuno si occupa e che mai emergeranno, perché, parliamoci chiaro, nella vita di operai che diventano padroni della fabbrica se ne vedono pochini. 

Comunque, per la cronaca, non sono più riuscito a prendere sonno: continuavo a immaginarmi Corrado Augias vestito da Capitan Ventosa e con la voce dello speaker di Chi l’ha visto?.





mercoledì 2 aprile 2014

Il vecchio e il mare: (non sempre) le dimensioni contano

Ci sono vari motivi che spingono una persona ad aprire un blog. C’è chi vuole far sentire la sua opinione al mondo, c’è chi vuole giocarsi la carta «Beh, sai, sono un blogger» quando una ragazza gli chiede come mai a 45 anni abiti ancora con i genitori, c’è chi lo fa per soldi. Ebbene, io lo faccio per i soldi. Cioè, come potete constatare guardandovi in giro, qui non c’è traccia di pubblicità, eppure vi assicuro che da questo blog ricavo un bel di soldi. Anche se non ve li so quantificare perché non ho la più pallida idea di quali siano le tariffe vigenti di uno psicanalista. Cercherò di spiegarmi meglio.
I miei lettori più accaniti (grazie, mamma!) avranno certamente capito che tutta la storia del blog sulla Letteratura è solo una scusa per parlare delle mie fisime, facendomi risparmiare fior fiore di quattrini in psicanalisi e supposte di Xanax (mi auguro vivamente che non le producano davvero).
Il sistema ha funzionato fin quando, qualche settimana fa, a qualcuno in famiglia non è venuta in mente una brillante idea: «Riversiamo su DVD tutti i filmini di quando eravamo bambini».


«E allora, non è una cosa carina?». Carinissima. Ma per chi non ha una mente già compromessa da colloqui di lavoro del tono:

«La nostra azienda in verità è alla ricerca di una figura, massimo diciottenne, che sia laureata con lode e con almeno sei anni di esperienza nel settore dell’ingegneria gestionale»

«Vede, il candidato che stiamo cercando vive in Groenlandia. Massimo in provincia»

«Leggo sul curriculum che ha la patente B, immagino però che non sia capace di manovrare una navicella spaziale Sojuz 7K-0K di fabbricazione sovietica, o sbaglio?»

«Lei è esattamente la persona che stiamo cercando per pubblicizzare questo innovativo prodotto idratante assolutamente incolore e insapore»
«Ma quella è acqua!»
«Ah bene, vedo che è già nostro cliente»


Il primo trauma è stato scoprire che il filmino del mio battesimo non è registrato su una comunissima cassetta VHS ma in Super 8. Come l’omicidio di Kennedy. E così, mentre guardi la pellicola, immagini tuo padre con dei baffi Cavour-style e tu avvolto nei merletti che nemmeno i bambini di The Others.
Ti siedi allora comodo sul divano sperando ardentemente che non vi sia nulla di particolarmente imbarazzante, ma è una speranza vana: i filmini che ha girato tuo padre fra gli anni ‘80 e ‘90 vengono dal passato, come il demone dell’Esorcista, e con esso condividono l’altissimo livello di comprensione umana. Sullo schermo allora vedi passare i tuoi calzoncini ascellari color “Emmenthal eccessivamente stagionato” e cerchi qualcosa a cui aggrapparti per sviare l’attenzione, sei lì lì per dire: «Ma guarda com’ero magrolino da bambino», quando il tuo tentativo di depistaggio non solo non viene colto, ma vieni addirittura anticipato da qualcuno dal fondo della sala che urla: «Oh, ma sei sempre stato in carne, eh?». Portando la tua autostima a quota speleologica.


Eppure non tutto il male viene per nuocere, infatti è proprio vedendo questi filmini che ho capito la causa di una buona percentuale delle mie idiosincrasie. Per essere più chiaro è necessario che vi parli di Cassandra.
Cassandra è il nome che diedi a una mia parente non tanto per una precoce (e inverosimile) passione per le opere classiche, quanto perché da bambino vidi un film tratto dall’Iliade, sinceramente non è che capivo proprio tutto tutto e, non sapendo gli antefatti, per me Cassandra era una che diceva cose spiacevoli che puntualmente si avveravano. Una che portava sfiga, insomma. Proprio come questa mia parente. Per capire il tipo: facevi un colpo di tosse? Lei ti guardava fisso negli occhi e, con un tono di voce da Sibilla cumana, diceva che era l’influenza che stava girando e che prendeva anche all’intestino. Tempo 24/48 ore che ti trovavi in bagno a produrre concime sufficiente a risollevare l’agricoltura di tutto il Sud-est asiatico.
Ebbene, è proprio guardando il filmato di una festa di compleanno che mi sono improvvisamente ricordato di una profezia di Cassandra: compivo 8 anni, giocavo con i miei amichetti di scuola, lei amorevolmente rivolge lo sguardo a mia madre e le dice: «Certo che lui è il più alto della classe». Zac! L’anno successivo mi ritrovo circondato da una tribù di Watussi.


Direte: «Ma come, credi a queste stupidaggini?». No che non ci credo, almeno fin quando non mi riguardano direttamente. Ripensandoci però ho constato che tutta la mia esistenza è stata costellata da problemi di altezza. Non la mia, quella degli altri. Già, perché non sono mai stato particolarmente basso, purtroppo però ho sempre avuto la caratteristica di circondarmi di persone più alte di me dai 15 ai 20 centimetri.
Quando ci si trova nella mia situazione puoi fare solamente due cose:
  1. Scappare con un circo e circondarsi di nani
  2. Prenderla con filosofia

Naturalmente ho scelto la strada più logica. Anche se a volte penso avrei fatto meglio a prenderla con filosofia.

Tradizionalmente chi ha problemi di altezza si consola chiamando in causa i più grandi personaggi storici bassi di statura: Napoleone, Gandhi, Arafat, Pupo, Renato Brunet… ehm già l’ho detto Pupo?
L’alternativa è rispondere agli sfottò con la frase: «Nella botte piccola c’è il vino buono». Ebbene, amici miei, in verità in verità vi dico che questo detto vale anche per la Letteratura, pensate alla Fattoria degli animali di Orwell, diventato un classico dal basso delle sue 140 pagine, Il piccolo principe (123 pagine), Cuore di tenebra di Conrad (103 pagine). Tuttavia il caso più emblematico (paradigmatico faceva troppo blog di Selvaggia Lucarelli) è il Vecchio e il mare, con queste 142 pagine Hemingway ci ha vinto il Nobel e il Pulitzer, io non ci faccio nemmeno la lista della spesa.


Ma chi era questo simpatico signore che ha segnato tutta la Letteratura del Novecento?
Ernest Hemingway nasce a Oak Park (Stati Uniti) nel 1899 da un medico e da una aspirante cantante d’opera. Il padre gli instilla fin da bambino l’amore per la natura lo porta ad appassionarsi all’avventura, agli animali e alla caccia (non ci fate caso, per Hemingway le cose erano compatibili).
Fate i fighi perché avete fatto tre mesi di Erasmus in Spagna? Hemingway a 18 anni parte per l’Italia per diventare autista di ambulanza per la Croce Rossa. Era il 1917 e l’Europa si trovava nel bel mezzo della Prima guerra mondiale. Non vi basta? Dopo pochi mesi il nostro futuro scrittore fa domanda per essere trasferito in trincea perché vuole vedere da vicino la guerra, il sangue dei soldati che sprizzava dalle ferite. Mica la sangria!
Tornato in patria comincia a scrivere per un giornale canadese che, stranamente invece di proporgli di lavorare almeno due anni senza stipendio per prendere il tesserino da giornalista-pubblicista, vista la sua bravura, lo manda di nuovo in Europa come corrispondente. In questo periodo Hemingway vive fra Italia, Francia, Spagna e Svizzera e saranno gli anni che lo avvicineranno alle sue grandi passioni: la corrida e la Letteratura.


Con la pubblicazione dei primi racconti il nostro eroe capisce di avere la stoffa per diventare uno scrittore di successo, perciò si comporta di conseguenza conducendo una vita sregolata e venendo a contatto con alcune leggende come Francis Scott Fitzgerald con cui stringerà una grande amicizia.
Per capire che tipo di vita facesse Hemingway basta leggere Festa mobile, in cui racconta il suo soggiorno nella Parigi negli anni Venti. Riassumo per chi non l’avesse letto: festini, risse, ubriacature. Se non fosse per il fatto che ogni tanto compaiono Ezra Pound e James Joyce e per la totale assenza di escort sembrerebbe la biografia di Lapo Elkann.


Alla vigilia della Seconda guerra mondiale Hemingway è a Cuba e sta scrivendo Per chi suona la campana. Fa le carte false per tornare in Europa e documentare il tutto? Ma non ci pensa nemmeno, però i nazisti e i fascisti gli stanno talmente sulle scatole che diventa un agente segreto al servizio degli Stati Uniti per impedire infiltrazioni naziste a Cuba (Effettivamente «Fammi un nazi libre» non suonava granché). 
Appena terminato il secondo conflitto mondiale Ernest torna in Italia (qui intraprende anche una relazione extraconiugale con una nobildonna di una trentina d’anni più giovane) e poi di nuovo a Cuba, dove scrive Il vecchio e il mare, con cui vince il Nobel.
Gli ultimi anni della sua vita li passa in depressione e affetto da manie di persecuzione e gli psichiatri dell’epoca come decidono di curare la mente più brillante del secolo? Con delle salutari sedute di elettroshock (anche venti al giorno). Praticamente è come presentarsi davanti al Partenone con una ruspa da demolizioni e dire: «Allora, lo cominciamo questo restauro?».
Ormai preda della depressione (e volevo vedere voi), Hemingway decide di porre fine alla sua vita nel più hemingwayano dei modi: nel 1961 si spara con un fucile da caccia.


Ma veniamo all’argomento principale. 
Il problema de Il vecchio e il mare è superare le prime cinque pagine: conosco persone che leggono mattoni di 2800 pagine sulla figura di fra Galdino nei Promessi sposi ma non riescono a superare la sonnolenza dovuta a questo capolavoro della Letteratura contemporanea. Effettivamente non hanno tutti i torti, pur essendo una via di mezzo fra un romanzo e un racconto lungo, Il vecchio e il mare ha un ritmo un po’ lento, in pratica è la versione cartacea de La grande bellezza di Sorrentino: bello bello bello, ma se non stai attento rischi di svegliarti dopo i titoli di coda, costringendoti a cimentarti in avvilenti recensioni alla Vanity Fair: «Finalmente un grande film italiano», «Rispecchia a pieno la situazione attuale dell’Italia» e via dicendo.


Una volta superata pagina 5 il gioco è fatto, a quel punto potete leggerlo tutto. La trama de Il vecchio e il mare è abbastanza semplice: Santiago è un anziano pescatore cubano molto sfortunato che un giorno cattura un marlin. 
Come si fa a vincere un Nobel, un Pulitzer e ricavarci un film di un’ora e mezzo con questi presupposti? Ve lo spiego io.
Come abbiamo detto, il protagonista del libro è Santiago, un pescatore di Cuba appassionato di baseball (il suo mito è Joe Di Maggio), segnato dal tempo e dal sole. Il suo unico amico è il giovane Manolin, un ragazzo i cui genitori hanno proibito di assistere il vecchio nel corso delle sue battute di pesca perché ritenuto quasi maledetto dal destino, visto che non riesce mai a portare a terra un bottino decente.
Un giorno Santiago decide di partire da solo in mare aperto per dimostrare a coloro che lo prendono in giro che su di lui non c’è alcuna maledizione ed effettivamente riesce a catturare un grosso marlin di cinque metri e mezzo. Torna al villaggio, tutti si ricredono e finisce a tarallucci e vino? Toglietevelo dalla testa gente, questo è Hemingway, mica Twilight
Il fatto è che il pesce è troppo grosso per essere issato sulla barca, perciò, dopo tre giorni di lotta in cui il marlin si porta a spasso Santiago per tutto il Mar dei Caraibi, il vecchio è costretto a legarlo in acqua, cosa che ovviamente attira i pescecani che divoreranno tutta la preda e giungerà perciò a terra solo lo scheletro.


A parte le evidenti analogie con Sampei, Il vecchio e il mare è tutta una grande metafora sulla vita e, che ci crediate o no, Santiago, pur essendo un pescatore, è il personaggio più ambientalista mai concepito. Giusto per dirne qualcuna: a un certo punto Santiago finisce la scorta di cibo, perciò è costretto a nutrirsi di pesci crudi pescati sul momento, perlopiù tuna e lampuga. Hemingway insiste parecchio sul fatto che Santiago uccide i pesci solo per nutrirsene e non ha alcun motivo per odiarli, e il protagonista in più occasioni arriva persino a scusarsi con le su prede per averle catturate. Lo stesso rapporto con il grosso marlin è quasi alla pari, lottano entrambi per la sopravvivenza e si rispettano (non chiedetemi come fa un pesce spada a mostrare rispetto) e lo stesso pesce, dopo tre giorni di combattimento, decide di lasciarsi andare, di arrendersi al pescatore piuttosto che venire mangiato dagli squali.

Non che voglia fare psicologia da salotto, ma se ci riflettiamo Il vecchio e il mare è la dimostrazione di come un essere umano dovrebbe vivere: lottare fino alla fine contro le avversità, ma avere, nello stesso tempo, il coraggio di dichiararsi sconfitto quando l’avversario lo merita davvero, piuttosto che cedere a tutti i pescecani che ci ruotano attorno mentre siamo agonizzanti.
Paradossalmente però lo scrittore sostenne sempre che si trattava solo di una storia di pesca che non mascherava alcun simbolismo (ma secondo me lo disse solo per fare il figo con quelli del comitato del Nobel).


Tutto qui? Tutto qui. È vero che stiamo parlando di Hemingway, ma in 140 pagine spiega il segreto della vita, che doveva mettere più, pure dove si trova il Santo Graal?

Piccola curiosità per gli amanti della filologia più spinta. La traduzione italiana del romanzo è stata curata da Fernanda Pivano, la grande traduttrice però, vuoi perché era amica di Hemingway, vuoi per eccesso di fiducia, fece un errore abbastanza grossolano: rese dolphinfish (lampuga) con delfino. Fatto sta che, nell’edizione italiana, Santiago pesca un delfino e gli leva le branchie (che ovviamente non ha).

Ma cosa ci resta di Hemingway alla fine di questo libro?
Beh, stando a una recente statistica, in Italia ci sono più scrittori che lettori (il fatto che stia scrivendo questo post invece di leggermi l’ultimo libro dei Cesaroni ne è la prova più evidente). Lo scrittore statunitense però può essere un rimedio a tutto ciò, per esempio quando ci viene voglia di prendere la penna e scrivere qualcosa di diverso da «Ci vediamo più tardi. Il cane ha già fatto pipì», apriamo un libro di Hemingway e leggiamo due pagine a caso, poi ci porgiamo la domanda: «Sono in grado di scrivere qualcosa che assomigli anche solo molto lontanamente a questo?». Se la risposta è no, allora chiudiamoci in uno sgabuzzino a vergognarci per aver inviato il nostro manoscritto a Masterpiece (non mentite, so che lo avete fatto).
Già, perché Hemingway è la quintessenza della Letteratura; è il Novecento che risponde all’Ottocento che l’epoca dei grandi romanzi non è ancora finita; è il prototipo dello scrittore sopra le righe prima che Andrea Pinketts si rovinasse con Mistero; è la coerente contraddizione che ama la natura ma non disdegna di farsi una corsettina coi tori a Pamplona; è Picasso un po’ più alcolista e un po’ meno allegro.
Questa è naturalmente solo la mia opinione, ma, essendo il blog per sua natura l’istituzione più vicina alla monarchia teocratica, fatevela andare bene così.


Allora, la prossima volta che vi prenderanno in giro per la 
vostra statura ricordate che un raccontino di manco 200
pagine ha vinto il Nobel e soprattutto ricordate dove è 
arrivato Brunetta nonostante il suo evidente problema (oltre 
il fatto che sia anche basso). 


giovedì 27 febbraio 2014

L'Iliade di Omero: Achille, il solito raccomandato

Il mio sogno nel cassetto è avere un cassetto. Fatemi spiegare meglio: nell’immaginario comune del laureato/a-tipo in Lettere il sogno proibito non è tanto Monica Bellucci vestita da Catwoman o Riccardo Scamarcio in camicia che suda come una soppressata in pieno luglio. Nulla di tutto ciò. Quello che sognano tutti i laureati in materie umanistiche, dalla Svezia allo Zimbabwe, è solamente uno studio con una libreria enorme. «Per farci che? Visto che passerai la vita a distribuire volantini alla sagra della porchetta ruspante» direte voi. Se il vostro interlocutore ha mantenuto la calma e non vi ha ucciso con il vaso cinese che vi ha regalato vostra zia per Natale, vi risponderà serenamente: «Per avere un posto dove riflettere».

Il fatto è che i laureati in Lettere hanno una visione del mondo eccessivamente romantica: immaginatevi un enorme studio con librerie che arrivano fino al soffitto, una scrivania illuminata con quelle lampade col vetro verde e al centro della stanza, seduto in poltrona, nella penombra, una persona che riflette sulla vita e sul mondo. Il primo pensiero non è tanto «Toh, guarda che persona profonda!», quanto piuttosto «Maria, chiama in farmacia e ordina altri due autotreni di Xanax».
Non a caso la maggior parte della popolazione mondiale tende a riflettere sui grandi temi che attanagliano l’esistenza umana in due luoghi: al gabinetto e in mezzo al traffico. 
Essendo cinque in famiglia, onde evitare disagi, solitamente opto per la seconda.


Che poi nemmeno ci tenevo particolarmente a pigliare sta patente, visti i risultati che si vedono in giro. L’automobile ha effetti dannosi sulla psiche di molte persone: prendete un bonzo tibetano e dopo qualche giorno di guida vi ritroverete a che fare con un ultras della Stella Rossa di Belgrado, un esagitato che comincerà a dimenarsi e a suonare il clacson pure quando sta in fila alla cassa del supermercato.
In realtà la situazione è un po’ più complessa, infatti il violento è solo uno dei tanti tipi di automobilista che potete incrociare nel traffico. Per completezza, eccone alcuni esempi:

  • Il Freudiano. Normalmente ha un SUV che utilizza come surrogato ed estensione di una parte del corpo che Leopardi definirebbe il passero solitario. Usando il mezzo di locomozione, e solitamente anche il cervello, come la suddetta parte anatomica, tende ad intrufolarsi in ogni pertugio libero, ma con una predilezione maniacale per le strisce pedonali e i parcheggi per disabili. Non lo fa per cattiveria: è fermamente convinto che avere la difficoltà nella gestione e nell’accettazione del proprio passero solitario sia realmente un handicap
  • Quella con la Smart. Solitamente è donna, truccata come Moira Orfei al carnevale di Venezia e ha sulle dita delle sciabole che Freddy Kruger di Nightmare a confronto sembra un adolescente ansioso che si mangia le unghie. La caratteristica principale di questo tipo di automobilista è la totale convinzione che la Smart sia un motorino, infatti la si può vedere sfrecciare in corsia d’emergenza in autostrada e fare una faccia sorpresa quando la stradale, giustamente, dà fuoco alla sua patente seduta stante. La versione maschile è facilmente identificabile per l’abbronzatura color costoletta di maiale alla brace che sfoggia in pieno gennaio, con 28 cm di neve. In ogni caso sono riconoscibili dalla frase: «Sono arrivato, il tempo di mettere la Smart sul cavalletto e salgo»
  • Il Pensionato. È un essere mitologico che raramente si trova sulla strada, tuttavia ha la caratteristica di apparire magicamente da una piccola traversa non segnalata nemmeno dai satelliti spia della CIA e piazzarsi davanti alla vostra automobile alla velocità di crociera di 18 km/h ma solo se si verificano una o più di queste evenienze: siete in ritardo al lavoro il giorno in cui si discute della vostra promozione; siete in ritardo a un colloquio di lavoro; siete in ritardo per l’esame più importante della vostra carriera universitaria; siete in ritardo per prendere il treno e quelli successivi sono tutti Frecciarossa da 145 euro a biglietto (terza classe economy, accanto a Mamy di Via col vento e allo Zio Tom); siete in ritardo a un matrimonio. Il vostro.
  • Il Ciclista. Pur non essendo un automobilista merita tutta la nostra attenzione. Con una pazienza da speziale medievale durante la settimana frantuma nel mortaio gli attributi di mogli, fidanzate, amici e parenti decantando i vantaggi del telaio in titanio della sua bici progettato dalla NASA, dei sellini in silicone che evitano il formarsi di calli in posti dove i calli normalmente non avrebbero alcun motivo per formarsi. Tuttavia dà il meglio quando decanta i pregi della bicicletta: moto, vita sana, contatto con la natura e soprattutto relax. Peccato che i posti che privilegia il ciclista per le sue scampagnate nel weekend siano in prossimità di svincoli autostradali. A quarantadue chilometri dall’albero più vicino. Inoltre il contatto con la natura al ciclista non fa tanto bene, visto che si organizzano in gruppi di sei-settecento occupando tutta la carreggiata e se sfiori il clacson per chiedere di passare sono capaci di tirare fuori la pompa della bici e descrivere con ricchezza quasi barocca di particolari cosa fartene
  • Quello che lavora all’anagrafe. È un tipo tranquillissimo che non si nota affatto, salvo nel momento in cui, a un incrocio, qualcuno gli taglia la strada. La reazione che segue, di solito, è di questo genere: scende dalla macchina, constata il danno (visibile solo al microscopio elettronico) e senza che voi abbiate aperto ancora bocca dirà: «Forse non hai capito chi sono io», o la variante folkloristicamente più accattivante «Forse non hai capito chi sono i miei parenti». Mentre voi state ancora slacciando la cintura di sicurezza per scendere, comincerà a snocciolare un elenco di nomi, date e fatti che manco Paolo Mieli in preda a una crisi isterica. In realtà a lui non interessa essere risarcito dall’assicurazione, per cui basterà annuire e dimostrarsi interessato e, a tratti, timoroso per le sue conoscenze, in modo che la sera possa andare al bar e vantarsi con gli amici

Quando si parla di viabilità stradale, di solito, c’è sempre qualcuno di una certa età che se ne esce con qualcosa del tipo: «Eh, i tempi sono cambiati, prima non era così». Certo, prima era molto meglio, basti pensare a Fra Cristoforo che per una questione di precedenza commette un omicidio, oppure all’archetipo di tutte le liti stradali: l’Iliade di Omero.

L’Iliade è un poema epico scritto in esametri dattilici e diviso in ventiquattro libri, per un totale di quasi 16.000 versi, il che, a noi abituati alle saghe di vampiri da 38-39 libri a botta, può sembrare irrisorio, tuttavia bisogna considerare che i cantori greci la recitavano a memoria. E noi dobbiamo scrivere la lista per fare la spesa!
Contrariamente a quanto suggerisce il titolo (Ilio era l’antico nome di Troia), l’Iliade non parla della guerra di Troia e comunque non copre tutti i dieci anni di combattimenti, ma solo gli ultimi 51 giorni.


«E allora di che parla?». Semplicemente di un’incazzatura, né più né meno. Quella di Achille.
Il figlio di Peleo infatti oltre ad avere il piè veloce, di veloce aveva anche la caratteristica di farsi girare le bolas nei momenti meno opportuni.
Nel caso dell’Iliade, l’ira di Achille è scatenata da Agamennone, capo dello schieramento greco, che prima rapisce Criseide, sacerdotessa di Apollo, ma giustamente il dio non vede la cosa di buon occhio e perciò scatena una pestilenza nel campo acheo. Da perfetto gentleman allora Agamennone lascia andare Criseide e pretende e ottiene da Achille la sua schiava, Briseide.
Se non ci avete fatto caso, sono davvero poche le cose che non si devono ai Greci. Una di queste è il femminismo.


Rispettando rigorosamente il cliché del figlio unico di buona famiglia e viziato, Achille dice in buona sostanza: «Ti sei preso la schiava? E allora non gioco più», vale a dire che decide di entrare in sciopero e di non combattere finché il re di Micene non gli avesse restituito Briseide.
Inizialmente i Greci non danno molto peso ad Achille e non si può dargli torto: insomma c’erano eserciti venuti da tutta la Grecia per difendere le corna di Menelao, vuoi vedere che manca un solo uomo e non riusciamo a vincere?
Esattamente. Dal momento in cui Achille incrocia le braccia gli Achei, da esercito spietato, diventano ballerini di Amici di Maria De Filippi e non ne combinano una giusta. Ulisse, il più “laico” degli eroi, preso dalla disperazione, entra addirittura nelle mura troiane per rubare il Palladio, una statua della dea Atena, perché, secondo una profezia, Troia non sarebbe caduta finché il simulacro fosse rimasto in città. Eppure nonostante tutti gli sforzi, Ettore, figlio di Priamo, arriva quasi a bruciare le navi greche.


Vista la situazione, Patroclo decide di indossare le armi di Achille per far credere ai soldati che il Pelide sia tornato in battaglia e infondere loro fiducia. L’operazione simpatia in realtà dura pochi minuti, il tempo di sguainare la spada che Ettore lo spedisce nell’Ade. Biglietto di sola andata.
Venuto a sapere dell’accaduto, Achille, che come abbiamo capito ha un carattere molto calmo e composto, decide di reagire sobriamente e, nell’ordine:

  1. Uccide tutti gli ostaggi troiani
  2. Fa pace con Agamennone
  3. Si fa forgiare dal dio Vulcano una nuova armatura (anche all’epoca avere buone conoscenze aiutava)
  4. Scende in battaglia e uccide talmente tanti nemici che lo Scamandro, il fiume che bagnava Troia, diventa rosso di sangue

L’apice però si ha nel combattimento con Ettore da cui, se proprio vogliamo essere precisi, Achille non ne esce proprio bene. Innanzitutto l’idea di battersi in duello è di Ettore, poi bisogna considerare che Achille è figlio di una ninfa, per di più pressoché immortale (voglio vedere voi, in mezzo a tutto quel casino a colpire proprio il tallone). Come se non bastasse ci si mette di mezzo pure Atena che, con una folata di vento, impedisce alla lancia del troiano di raggiungerlo; passa le armi ad Achille approfittando della sua invisibilità; assume le sembianze di Deifobo, fratello di Ettore, per trarlo in inganno. Insomma, aveva ottime raccomandazioni, il ragazzo. Il risultato è che Achille trafigge Ettore e questi, ignorando completamente ogni legge fisica e anatomica, con una lancia di quasi tre metri conficcata nella gola, attacca un pistolotto di due ore. E alla fine che fa l’eroe greco? Ha pure il coraggio di forare le caviglie dell’avversario, legarlo al suo carro e fargli fare il giro delle mura di Troia nemmeno avesse vinto i mondiali prima di portarselo all’accampamento Acheo.
Ma perché tutto questo astio?


Il fatto è che, secondo alcuni critici, Patroclo sarebbe stato l’amante di Achille. «Ma come? E allora Briseide a cosa gli serviva, per stirargli l’armatura?». I Greci erano un popolo antico, con tradizioni ancestrali, difficilissime da interpretare per noi uomini moderni aperti di vedute, per questo motivo per loro (nel 750 a.C.!) era assolutamente normale che un uomo, per di più un soldato, potesse avere un compagno e decidere nella più totale libertà come vivere la propria sessualità. Pensate a quanto erano arretrati. Loro.

La notte stessa Priamo, re di Troia, si reca segretamente da Achille per chiedergli al restituzione del corpo del figlio e dopo un serrato tira e molla l’eroe accetta. Non prima di essere scoppiato in un pianto talmente disperato che per poco Priamo non lo deve consolare.

Ecco tutto.

E la guerra?
E Ulisse?
E il cavallo di legno?
E l’incendio?
E il tallone?


State tranquilli che nell’Iliade non troverete nulla di tutto questo. Nemmeno un accenno. 
Omero, o comunque tutti gli aedi greci, campavano raccontando storie e molti secoli prima di Lo squalo, Indiana Jones e The Avengers avevano capito se volevano continuare a campare non potevano raccontarle tutte in una volta sola. Per questo motivo il resto delle vicende della guerra di Troia lo troviamo nei due sequel: l’Odissea e l’Eneide.


E a proposito dell’Odissea, nell’Iliade il nostro amico Ulisse non ci fa proprio una bella figura. L’uomo dal multiforme ingegno prende bastonate il povero Tersite per una battuta e uccide Palamede per vendetta. Giusto per dirne qualcuna.

Un particolare curioso dell’Iliade è l’introduzione dei personaggi. Facciamo un esempio.
Achille e Menelao si incontrano.
Achille: «Salute, prode fratello di Agamennone»
Menelao: «Salute a te, figlio di Peleo»
A: «Quali novità mi porti, valoroso Atride?»
M: «Nulla di cui tu ti debba preoccupare, piè veloce»


Andando avanti così per una mezz’ora senza mai chiamarsi per nome.

Il fatto che per tutti i 16.000 versi vengano costantemente ricordate parentele, nomignoli, soprannomi, non è dovuto ad un improvviso attacco di arteriosclerosi da parte di Omero, quanto alla necessità, da parte dei vari cantori, di dover ricordare a memoria l’intero poema e questo espediente li aiutava egregiamente.
Laddove però la memoria falliva non c’era problema, visto che, almeno fino alla morte di Alessandro Magno, nessuno si era preso la briga di mettere nero su bianco l’opera. Ovviamente tutto ciò creava qualche disagio, come il fatto che ogni polis greca avesse una sua versione dell’Iliade che tendeva a dare maggiore spazio all’eroe locale.


Ma tutto ciò che c’entra con la viabilità stradale?
Mica crederete davvero che tutti i re Achei armassero il più grande esercito dell’antichità e una flotta di 1186 navi per una questione di corna? Se fosse così l’Iliade dovrebbe essere il poema fondativo degli avvocati divorzisti, non della Grecia.
La questione è molto più semplice: Troia controllava lo stretto dei Dardanelli e faceva pagare il dazio a chiunque vi si trovasse a passare da quelle parti, cioè i Greci. Ancora oggi le Autostrade italiane, in ricordo del mito omerico, ogni 1 gennaio aumentano il pedaggio.


Quindi Troia è esistita davvero? Achille, Diomede, Paride e compagnia bella sono personaggi reali?
La situazione è un po’ complicata. Fino al 1870 fior fior di accademici hanno affermato che quello di Omero era solo un mito. Un bel giorno però spunta fuori un certo Heinrich Schliemann, un commerciante tedesco senza alcuna base scientifica ma con una passione per i miti Greci. Ebbene cosa fa il nostro Schliemann un bel giorno? Mette l’Iliade sotto l’ascella a mo’ di baguette parigina e parte per la Turchia alla ricerca delle rovine di Troia, basandosi solo sulle descrizioni di Omero.

Il mondo degli archeologi si comporta come una qualsiasi lobby quando ogni due o tre secoli spunta una persona con un’idea geniale (se vi è subito venuto in mente Steve Jobs cliccate qui), cioè viene deriso con frasi del tipo: «Ma dove vai che non hai le conoscenze adatte per iniziare uno scavo?», «Ma chi ti credi di essere?», «Ma, secondo te, non ci avevamo già pensato?», «A sto punto domani prendo Topolino e parto alla ricerca di Paperopoli». Roba così, insomma.


Essendo a quel tempo i tedeschi ancora un popolo simpatico, non se la prende a male e con una pazienza certosina, seguendo solo ed esclusivamente il poema omerico, scopre la bellezza di ben nove Troia (al singolare, per evitare facili battute). Non solo, riporta alla luce il cosiddetto tesoro di Priamo, un corredo funebre regale chiamato così più per marketing che per fedeltà storica.

Ovviamente gli scavi di Schliemann provocano non pochi disturbi gastro-intestinali agli accademici di tutto il mondo che archiviano la vicenda come “fortuna del principiante”. Fatto sta che nove anni dopo, basandosi questa volta sulla Periegesi della Grecia di Pausania, riporta alla luce le rovine di Micene, avvelenando definitivamente le future generazioni di archeologi.


E dunque cos’è che ci insegna l’Iliade?

Anche se qualcuno ha voluto vedere nello scontro Achei-Troiani la solita contrapposizione occidente-oriente, il poema omerico, composto decine di secoli fa, va oltre questa visione del mondo da minus habens. L’Iliade non è solo il poema fondativo della Grecia, ma dell’intera umanità perché Omero (o chi per lui) ha saputo distribuire indicibile crudeltà e commovente generosità in entrambe le fazioni. Il sangue che scorre nell’Iliade, che sia Acheo o Troiano, è comunque rosso e i morti si piangono nello stesso identico modo. Nell’Iliade non troverete mai odio ingiustificato, semmai vendetta; non c’è alcuno scontro di civiltà, Menelao, se gli ridavano Elena, se ne tornava a casa sua dicendo «Vabbè, abbiamo scherzato»; gli uomini e le donne dell’Iliade, nel limite del contesto, dimostrano lealtà, semmai chi si comporta da carogna sono proprio gli dei che parteggiano per l’uno o l’altro schieramento.
E poi cosa sarebbe la letteratura senza l’Iliade? Virgilio sarebbe stato ricordato come l’Apicella di Augusto; Dante avrebbe fatto l’impiegato del catasto; Petrarca, Ariosto e Tasso si sarebbero dovuti svegliare alle quattro del mattino per controllare i peperoni rossi insieme all’omino della pubblicità della Conad.
Già, perché Omero ha influenzato addirittura chi non ha letto nessuna delle sue opere, è come se, in un certo senso, vivesse dentro di noi, facesse parte della nostra identità, non settentrionale-meridionale-occidentale-orientale, ma semplicemente umana perché nei ventiquattro libri dell’Iliade troviamo amore, guerra, pace, spionaggio, psicologia, religione… vale a dire la summa di tutti i generi letterari che si formeranno nei secoli a venire. E se l’uomo non si distingue per la capacità di scrivere e raccontare storie, allora per cosa è diverso dal resto delle creature?



In alternativa la lezione che possiamo cogliere è che non ci conviene litigare per questioni stradali: rischiamo di tornare a casa dopo dieci anni con un cavallo di legno carico di ciclisti incazzati come bisce. 


domenica 9 febbraio 2014

Now avaible on Facebook

Piccola comunicazione di servizio: da oggi Zero in Condotta ha anche una pagina Facebook raggiungibile all'indirizzo https://www.facebook.com/ZerinCondotta.
Ringrazio tutto lo staff che ha collaborato per far sì che questo accadesse, quindi mi ringrazio da solo. 

Se proprio non ce la fate a cambiare pagina e mettere mi piace dalla pagina Facebook vi toglie troppe energie, qui di fianco c'è un simpatico box dove potete dimostrarmi tutto il vostro affetto (ma con moderazione).