giovedì 30 gennaio 2014

Dante e Beatrice: una simpatica storia di stalking

Ero un bambino timido. E lo sono ancora. Timido. Non bambino. Così, a prima vista (d’emblée mi pareva un po’ troppo fighetto) alla domanda «Qual è il problema di un bambino timido?», uno sprovveduto tendenzialmente risponde «Bella domanda: la timidezza!». Sbagliato. Il vero problema che affligge ogni bambino timido nel mondo non è la timidezza, ma una piaga più pericolosa della siccità in Sicilia, più fastidiosa della sabbia nel costume. Sto parlando ovviamente dei Parenti del Bambino Timido (da questo momento PBT). Che poi uno potrebbe anche dire: «Eh, e che sarà mai!», tuttavia, se da piccoli siete stati timidi, voi e solo voi capire bene la gravità della cosa e che forse forse a Mosè sarebbero bastati una dozzina di PTB ben addestrati per convincere il faraone non solo a lasciar liberi gli Ebrei, ma aggiungere all’offerta anche una batteria di pentole in acciaio inox 18/10, un televisore LED da 24’’ e una bicicletta elettrica.

Tutto nasce da un grosso equivoco millenario: per i PTB la timidezza è una parola sconosciuta, alla base di tutto ci deve essere per forza una patologia che spiega tutto. La gravità della presunta patologia è inversamente proporzionale al grado di parentela, cioè più il PTB è alla lontana, maggiori saranno le speculazioni. Per capire appieno questo concetto è necessario dare uno sguardo alla personalissima scala dei valori dei PTB:
  1. Genitori: «È poco sveglio/a»
  2. Nonni: «È colpa dei genitori: è pieno/a di complessi»
  3. Zii e zie di I grado: «Soffre di disturbo dell’attenzione»
  4. Zii e zie di II grado: «È sociopatico/a»
  5. Zii e zie di III grado: «Ha una qualche rara forma di autismo»
  6. Parenti che vedi solo in occasione di nascite e dipartite: «È gay»

Con questo abbiamo dimostrato non solo che i nostri parenti non capiscono un tubo, ma che sono anche un pochino omofobi.

Dal canto suo il timido non è che si impegni più di tanto nel dimostrare che i PTB hanno torto, anzi con il suo comportamento sembra avvalorare le tesi complottiste dei suoi parenti. Per permettere ai genitori di capire se la propria creatura è solamente timida, prima di imbottirlo di Ritalin e comprare la Mercedes nuova allo psicologo, manco sto blog fosse un inserto di Donna Moderna, vi presento i sintomi della timidezza:
  • Il timido non ammette di essere timido. È la prima regola del Fight Club
  • Il timido è un incrocio fra Mel Gibson in Ipotesi di complotto e un qualsiasi pollo di allevamento che d’estate se ne va in Costa Azzurra con i soldi di papino: è convinto che l’intera volta celeste ruoti solo ed esclusivamente intorno a lui. Questo si evince soprattutto per strada: per il timido qualunque passante lo guarda in modo strano. Tra l’altro il timido, essendo troppo concentrato su di sé, è l’ultimo ad accorgersi di quello che sta succedendo intorno, per cui, se a un tratto tutti si voltano nella sua direzione, è convinto di essere perseguitato, non notando assolutamente il dirigibile in fiamme alle sue spalle che sta precipitando su un asilo nido adiacente a un rifugio per cani maltrattati e a una casa di cura per reduci di guerra
  • Il timido non fa amicizia. Nemmeno a un raduno di boy-scout, nemmeno se catapultato in mezzo ai papaboys, nemmeno a un incontro degli alcolisti anonimi
  • Il timido è il candidato ideale per diventare funzionario della CIA o capo di Cosa Nostra. Non parla mai, manco se gli infili le schegge di bambù sotto le unghie. Tutt’al più gli si possono strappare dei mugugni da interpretarsi come «sì» se sono in tono crescente, «no» se sono in tono calante

Adesso, messa così, pare che la vita di un ragazzino timido sia difficile o che comunque faccia proprio schifo. Non è del tutto vero, infatti ci sono un mucchio di vantaggi nell’essere timido, per esempio, da statuto del CONI, sei automaticamente escluso da qualsiasi gioco fra ragazzini che comporti l’uso degli arti inferiori e superiori. Che per voi sembra poco, ma per me, che ho i piedi in perenne autogestione, è un bel gesto. 
E poi devo dire la verità, avevo un sacco di ragazze: Daniela e Anna alle elementari; Maria, Silvia e Caterina alle medie; Giovanna, Ilenia, Loredana, Elisa alle superiori. Ovviamente il fatto che nessuna avesse la benché minima idea di chi fossi e che mi fossi proclamato motu proprio loro fidanzato è un dettaglio del tutto trascurabile.


Va bene, va bene, vi concedo che tutto ciò possa sembrare appena appena patetico, tuttavia che mi dite di uno che scrive un libro interamente dedicato ad una donna, per di più sposata, che con molta probabilità non l’ha mai guardato nemmeno di striscio (è un eufemismo)? No, non è la mia autobiografia ma una delle opere più importanti di tutta la letteratura mondiale: la Vita nuova di Dante Alighieri.

La Vita nuova è un prosimetro (mezzo poesia e mezzo prosa, per capirci) composto da 42 capitoli e 31 poesie, ma è soprattutto una via di mezzo fra un’opera autocelebrativa, un trattato di poesia e un saggio sullo stilnovismo. In pratica è una raccolta di poesie che Dante ha scritto in onore della sua musa ispiratrice che vanno dal 1283 al 1291, anno successivo alla morte di Beatrice. Come detto precedentemente, quest’opera ha diversi caratteri autocelebrativi, per cui ogni tanto Dante lancia qualche profezia a caso, così, giusto per fare lo splendido, ma noi sappiamo che il Poeta bara perché alcuni componimenti risalgono almeno al 1294. Ti piace vincere facile, eh?
Nella Vita nuova troviamo tutta la storia di Dante e Beatrice raccontata con dovizia di particolari e a tratti talmente sdolcinata che si fa fatica a staccare le pagine l’una dall’altra dalla melassa che le appiccica.


A dire la verità, l’opera, ad una prima lettura, sembra suggerire un’unica cosa: Dante era uno stalker maniaco che, fosse nato qualche secolo dopo, avrebbe giustamente passato una decina d’anni in carcere, mentre Beatrice sarebbe saltata da una trasmissione pomeridiana all’altra con il titolo in sovraimpressione: «Io, vittima di un uomo ossessionato da me».
Prima però di arrivare a conclusioni affrettate, vediamo nel dettaglio cosa è successo.


Dante incontra per la prima volta Beatrice all’età di nove anni e nove mesi, mentre lei ne ha nove e tre mesi. La precisione del Poeta è dovuta, con molta probabilità, non tanto alle cure di fosforo che gli faceva fare la madre, quanto alla simbologia numerica che ritroveremo anche nella Commedia: tre e i suoi multipli richiamano la Trinità.
Dopo questo primo incontro i due non si vedranno per la bellezza di nove anni.
Rimanga fra noi, personalmente il fatto che passi tutto sto tempo fra un incontro e l’altro a me ha sempre lasciato un po’ perplesso. Stiamo parlando della Firenze di fine di Duecento, cioè una specie di paesotto dove tutti si conoscevano, soprattutto le persone più importanti e Folco Portinari, il padre della fanciulla, era uno dei banchieri più influenti della città, per di più legato a doppio filo ai Medici.


Che fine fa allora Beatrice per la bellezza di nove anni? Va in un collegio svizzero? Rapita dall’Anonima Sequestri? Scappa con Scientology? Erasmus in Spagna? Rave particolarmente lungo a Ibiza?
Non ci è dato saperlo, fatto sta che la ragazza riappare a Firenze quando ha compiuto 18 anni. Giusto in tempo per prendere la patente.


Per evitare che rimaniate delusi dall’evolversi della storia, è necessario fare alcune precisazioni:
  • Dante e Beatrice non erano sposati
  • Beatrice fu data in moglie a un certo Simone de’ Bardi, un ricco banchiere dolce e sensibile come una piantagione di cactus
  • Dante invece si sposò con Gemma Donati, a mio avviso, santa donna che avrebbe voluto mandare suo marito a far compagnia a Beatrice. Dopo morta. Del resto provateci voi a convivere con uno che tutto il giorno non fa che dire: «Ah, com’era bella Beatrice», «Ah, com’era dolce Beatrice», «Ah, come faceva bene la pasta e patate Beatrice», «Ah, come stirava bene le camice Beatrice» e via dicendo

Insomma, Dante si trovava nella cosiddetta friendzone, l’incubo di qualsiasi adolescente in età puberale e che si potrebbe tradurre con la locuzione: non-te-la-do.

Ma proseguiamo con la Vita nuova.

Il primo componimento che apre l’opera è A ciacun’alma presa e gentil core che riporterò di seguito non tanto per amore nei confronti della cultura, quanto per una provvidenziale assenza di diritti d’autore.

A ciascun'alma presa e gentil core
nel cui cospetto ven lo dir presente,
in ciò che mi rescrivan suo parvente,
salute in lor segnor, cioè Amore.
Già eran quasi che atterzate l'ore
del tempo che onne stella n'è lucente,
quando m'apparve Amor subitamente,
cui essenza membrar mi dà orrore.
Allegro mi sembrava Amor tenendo
meo core in mano, e ne le braccia ave a
madonna involta in una drappo dormendo.
Poi la svegliava, e d'esto core ardendo
lei paventosa umilmente pascea:
appresso gir lo ne vedea piangendo.

Ovviamente a questo punto avrete capito che questo non è un blog serio sulla letteratura, per cui, se siete arrivati fin qui nella speranza di trovare la parafrasi della poesia per il compito di domani, mi dispiace darvi una delusione. Tanto Google ormai mi ha già conteggiato la vostra visita (vivo di soddisfazioni minime).

Se state ancora leggendo, avrete notato che il titolo del componimento è uguale al primo verso, questo perché nel Medioevo non c’era ancora l’usanza di attribuire un titolo alle poesie (segnatevelo, perché fa sempre effetto alle interrogazioni).


Ebbene Dante, il più grande scrittore di sempre (e se dite il contrario vi stacco la testa con un machete), apre la Vita nuova manco fosse un romanzo urban fantasy: sta dormendo caldo caldo nel suo lettuccio quando all’improvviso appare Amore, con la maiuscola («l’articolo è muto», come direbbe Django). Il ragazzo però non se lo immagina come un angioletto svolazzante, anzi addirittura si spaventa perché in una mano tiene il cuore palpitante di Dante, nell’altra invece c’è Beatrice che dorme. Ad un certo punto Amore sveglia la donna e le dà da mangiare il cuore, subito dopo i due volano verso il cielo piangendo.

Non esistendo ancora gli psicologi, Dante, nell’incipit, chiede consiglio ai suoi “colleghi” poeti riguardo l’interpretazione del sogno. A rispondergli è l’amico di sempre Guido Cavalcanti che, dati i tempi (e forse anche per delicatezza), non gli dice «Fra’, non so che roba ti fumi ma la prossima volta che ti capita per le mani avvisami», ma scrive il componimento Vedeste, al mio parere, onne valore che può essere agevolmente riassunto con l’ovvietà: «Secondo me, alla fine la ragazza muore».
Come tutte le liriche della Vita nuova, anche qui alla fine troviamo un commento dello stesso Dante che spiega non solo le circostanze che l’hanno spinto a scrivere, ma anche alcune nozioni di carattere stilistico.

Giusto per rimarcare la fissazione del Poeta per il numero tre, anche quest’opera può suddividersi in tre parti: nella prima Beatrice gli concede il saluto; nella seconda Beatrice non gli concede il saluto; nella terza non sappiamo se Beatrice glielo concede o non glielo concede perché nel frattempo è passata a miglior vita.

Mi rendo conto che la storia del saluto a noi possa sembrare un po’ paranoica e già vedo il sorrisino di alcuni di voi a dire: «Hehe, che imbranato!». Tuttavia, amici miei, le cose non sono tanto cambiate, visto che conosco gente che si fa venire gli scompensi se la persona che gli piace non commenta la loro pagina Facebook. Ecco, è sparito il sorrisino.

Che poi in realtà la faccenda del saluto è un ciccinino più profonda delle canzoni di Alessandra Amoroso condivise da YouTube, infatti l’atto di “salutare” per gli stilnovisti era inteso anche, e soprattutto, come l’atto di portare salvezza. Ma questo lo vedremo più avanti.


Come anticipato, a un certo punto Beatrice decide di togliere il saluto a Dante e in effetti non possiamo darle torto: il ragazzo praticamente non le ha mai parlato dal vivo, manco un bigliettino, un pizzino, un sms, una strusciata di gomito. Si limita ad indirizzarle poesie e farle circolare per tutta Firenze. Insomma, inquieterebbe chiunque.

Tuttavia non è questo il motivo che spinge Beatrice a non fare “ciao ciao” con la manina al nostro eroe, che ci crediate o no è esattamente il contrario. Infatti, ancora una volta, gli compare Amore (Firenze all’epoca aveva molto in comune con Amsterdam) che gli dice che a forza di parlare di Beatrice, il marito di lei poteva anche sentirsi legittimato a spezzargli gli alluci (Dante lo dice in maniera leggermente più poetica), per cui gli propone di indirizzare i suoi componimenti a due donne “schermo”, cioè di far finta che l’oggetto delle sue poesie siano altre due poverette che si trovano invischiate in questa storia senza sapere né perché né per come.


Possiamo dire essenzialmente che, almeno fino alla Commedia, Dante potrebbe definirsi un “poeta d’amore”. Il suo problema però consisteva nel non capire un accidente di psicologia femminile, ma su questo è indubbiamente in buona e numerosa compagnia. Il Sommo infatti, credendo di fare un atto gentile, fa salire i 5 minuti a Beatrice che gli dà ancora meno confidenza sia perché non è più l’oggetto delle sue liriche, sia perché col suo comportamento ha provocato non pochi problemi alle donne “schermo”. 

Come fai fai sbagli, insomma.


Con l’ingresso delle donne “schermo” si apre la seconda parte della Vita nuova, in cui Dante comincia l’opera di riconquista della sua musa e che contiene Tanto gentile e tanto onesta pare su cui non spenderò nemmeno due parole. Poi non dite che non vi voglio bene.

Come va a finire la storia? Beatrice gli ridà sto benedetto saluto?

Non lo scopriremo mai, visto che la giovane muore (probabilmente di parto).
Naturalmente il Poeta è disperato ma a quanto pare si riprende abbastanza presto dato che dopo poco è già innamorato di una donna “gentile”. Sull’attributo “gentile” Dante non fornisce ulteriori spiegazioni ma vi lascio immaginare cosa abbiano potuto dire i critici a proposito.
In verità la sbandata dura abbastanza poco, infatti il Sommo capisce che l’unica donna degna di essere lodata è Beatrice e arriva alla conclusione che finché non sarà all’altezza non scriverà più di lei, anticipando la scrittura della Commedia.


THE END

Se state tirando un sospiro di sollievo perché almeno Dante aveva una vita sentimentale più disastrata della vostra, vi devo chiedere di ritornare in apnea.

Il più grande poeta di sempre (ho ancora il machete a portata di mano) non era così imbranato quanto voleva far credere.

Partiamo innanzitutto dal fatto che a Firenze all’epoca potevano esserci, che so, per lo meno 50-60 ragazze di nome Beatrice. Ebbene, Dante non dice mai a quale di loro si sta rivolgendo. Il nome di Beatrice Portinari ce lo suggerisce Boccaccio, sulle base di alcune dicerie di paese, quindi niente di profondamente scientifico.


E con ciò?

Proviamo a considerare tutta la manfrina di Beatrice come una grande, immensa, allegoria (state seduti, non vi tiro fuori Auerbach). Beatrice significa letteralmente “colei che porta beatitudine” e il suo saluto per Dante è importantissimo perché “saluto” deriva dal latino salus, ovvero salvezza.
Quello che sto cercando di dire è che forse Dante non ha amato alcuna donna di nome Beatrice, ciò che lui ha cantato per tutta la vita è stato invece un ideale, un obiettivo da perseguire a qualsiasi costo, anche mettere in piedi il poema più articolato, colto e universale che la storia ricordi.
C’è però ancora qualcosa che non quadra: se Dante vuole raggiungere Dio, perché non loda lui direttamente invece di costringere gli studenti di ogni ordine e grado a far finta di conoscere almeno mezza di una delle sue poesie?

La risposta la troviamo nella teologia medievale. Dante, e con lui tutti i poeti della sua generazione, ritenevano che rivolgersi direttamente a Dio fosse un atto di superbia, però potevano lodarlo “di riflesso”, cioè lodando ciò che di buono ha creato, nel nostro caso Beatrice (o “l’idea” di Beatrice). Ovviamente sta cosa la potevano fare Dante e gli stilnovisti, quindi se vi beccano a sbavare sul sito di Raoul Bova o di Eva Henger non potete giustificarvi dicendo: «No, è che stavo lodando il Signore».

Sinceramente questo tipo di interpretazione non mi piace per due motivi:
  1. Perché ho l’animo di una zitella inglese di epoca vittoriana e quindi, nel bene o nel male, mi aspetto sempre il lieto fine
  2. Perché questa interpretazione tende a fare cadere le braccia a chiunque si avvicini alla Commedia, in quanto appena si prende il libro dallo scaffale da qualche parte spunta miracolosamente un filologo o un letterato che esclama: «Beh, lo vuoi leggere, leggilo, ma sappi che senza un adeguata preparazione non riesci a cogliere tutte le sfumature che il Poeta ha voluto…»

Allora sapete che vi dico?

Forse Beatrice è solamente l’idea di beatitudine, Laura la voglia di gloria di Petrarca, Fiammetta il desiderio di Boccaccio di diventare pompiere (non mi venivano altre interpretazioni). Tuttavia quando vedete un bambino che vi chiede cos’è la Divina Commedia, non attaccate un pippone sullo stile poetico medievale, sui provenzali, sulla Scolastica e via dicendo. Semplicemente, dite che si tratta della bellissima storia di un uomo per vedere almeno un’ultima volta l’amore della sua vita decide di attraversare l’Inferno e, una volta incontrata e sconfitta la parte più oscura di sé, sale su, fino al Paradiso, fino a Beatrice, perché, in fin dei conti, la beatitudine in questo consiste, nel poter vedere il volto della persona amata.



E per l’amor di Dio, tenete i vostri bambini timidi lontano dai parenti! Non si può mai sapere che un domani vi scrivano un capolavoro.


sabato 14 dicembre 2013

Il giorno di Parini: a spasso con Lapo

Non ho molta simpatia per le feste comandate. Dice: «Ecco il solito post prenatalizio in cui: “ma che palle il Natale/la Pasqua/l’Epifania/la festa della mamma/la sagra dei gargarozzi in umido…”». No, no, no amici miei, provenendo da una ferrea formazione di tipo scientifico, il mio scarso trasporto nei confronti delle suddette festività è rigorosamente motivato. Che poi se vogliamo essere precisi non è la festa in sé per sé che mi dà urto, quanto gli annessi e connessi. Per praticità cronologica prendiamo, per esempio, il Natale. Durante questa sentitissima occasione, riaffiorano dal nostro albero genealogico semisconosciuti parenti che credevamo avessero fatto la fine di qualche raro protozoo dell’Antartide estinto per via dello scioglimento dei ghiacciai. Alcuni di loro l’ultima volta ti hanno visto a fecondazione appena avvenuta, quindi non è per cattiveria, ma è che proprio non sanno che domandarti, per cui le frasi di rito sono solitamente su questo tono:
  • «Ma come sei cresciuto!»
  • «Ma come sei ingrassato/a!» (Lo si dice a prescindere, anche se sei appena stato liberato dall’Armata Rossa da un campo di concentramento)
  • Dai 6 ai 18 anni: «Come va la scuola?»
  • Dai 18 ai 21 anni: «Allora, come va con l’università?»
  • Dai 21 ai 25 anni: «Quando abbiamo deciso di laurearci?»
  • Dai 25 ai 30 anni: «Insomma, quando lo troviamo un bel posto di lavoro?»
  • Dai 30 ai 33 anni: «Stiamo ancora aspettando che ci fai conoscere la tua ragazza/il tuo ragazzo?»
  • Dai 33 ai 35 anni: «Volete sposarvi o no?»
  • Dai 35 ai 37 anni: «La cicogna quando arriva?»

Arrivati a quest’ultima fase potete anche rilassarvi, infatti, anche se la tentazione è forte, per una questione di tatto non vi chiederanno mai: «Quand’è che ti decidi a tirare le cuoia e riposarti in una bella cassa di mogano e fare largo ai giovani?».

Benché l’interrogatorio della zia Concetta sia oltremodo irritante, c’è qualcosa che, almeno personalmente, mi fa salire una voglia di appiccare il fuoco all’albero di Natale e usare le palline come bottiglie Molotov. Il personaggio di cui sto parlando è una piaga che si ripresenta puntuale tutti gli anni, fastidioso come quando siamo appena tornati dalla spiaggia e le cosce strusciano l’una contro l’altra… so che mi capite. Mi riferisco ovviamente a lui: il TUA, ovvero il Tizio che Urla: “Ambo!”. Si tratta dello zio/cugino/nonno (comunque per una legge non scritta che la loro setta si tramanda di generazione in generazione deve essere per forza di sesso maschile) che non appena estrai il primo numero a tombola urla a squarciagola: “Ambo!”, fra l’ilarità generale. In realtà non è che gli altri ridano per l’originalissima battuta, è solo che la fa tutti gli anni e pare brutto non assecondarlo.
Comunque non dovete disperare, perché in ogni famiglia ce n’è uno e se a te non dà tutto questo fastidio fatti un esame di coscienza: perché in questo caso il TUA sei proprio tu!


Tuttavia le feste comandate sono nulla rispetto a quelle “extra” ed in particolar modo ai matrimoni. Le modalità di svolgimento di un matrimonio sono la ragione principale per cui io sono favorevole alla convivenza fra individui di sesso opposto, dello stesso sesso, fra cani e gatti, fra pecore e lupi, fra extraterrestri, insomma di qualsiasi tipo: basta che non vi sposiate. La prima cosa discutibile di un matrimonio è la lista di nozze: la versione per adulti della letterina a Babbo Natale. Per ovviare a questo inconveniente, dalle mie parti si usa la busta che funziona secondo un principio che dovrebbe essere incluso nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo: ti-do-i-soldi-così-ti-ci-compri-quello-che-vuoi, diminuendo in tal modo la popolazione di imbarazzanti centrotavola in purissimo cristallo di Boemia. Come tutte le cose belle però, anche la busta segue il fenomeno noto in termodinamica come la Curva di Pieraccioni. È in pratica un postulato che spiega la degenerazione naturale delle attività umane, come i film di Pieraccioni appunto: all’inizio erano divertenti, poi sono diventati simpatici, e alla fine sono solo una scusa per far lavorare Ceccherini.
Come dicevo, anche la busta ha seguito questo andamento, per cui da donazione spontanea è diventata quasi una tangente, con gli sposi che ti mettono una bomba sotto al tavolo del ricevimento se non paghi in tempo.
Per capire quanto questa usanza sia radicata, basti pensare che molte coppie fanno affidamento solo sulla busta per pagare il ristorante, inutile dire che scommettere un rene in una bisca clandestina di Shanghai comporterebbe meno rischi. Sebbene ci sia infatti una sorta di tariffario (dagli 80 ai 150 euro a persona), cercare di pronosticare l’importo del totale delle buste è un’impresa disperata anche per il mago Otelma (che è tutto dire), dato che ci sono anche i franchi tiratori. Per questo motivo si procede come alle Olimpiadi: non si prende in considerazione il punteggio più alto e quello più basso, cioè, nel nostro caso, non si calcolerà né la zia che viene da sola e vi regalerà settemila euro, né vostro cugino di sedicesimo grado che verrà con i figli, i mariti e le mogli dei figli, i nipoti, qualche amico e una delegazione del comune di Borgo Santo Spirito con sindaco, banda e gonfalone e che metterà nella busta la bellezza di quindici euro, accompagnata dal biglietto di auguri: «Non li spendere tutti subito, come fai di solito!».


Il vero problema dei matrimoni è però uno solo: la loro durata biblica. È risaputo infatti che nel corso dei ricevimenti di nozze si altera il continuum spazio-temporale, per cui una «cerimonia giusto per i parenti e gli amici più stretti» potrebbe rilevarsi un colossale buco nero da cui uscirete invecchiati e alle soglie dell’obesità. Ad ogni buon conto, c’è la legge che vi tutela: se un matrimonio dura più di otto ore avete tutto il diritto di chiamare i Carabinieri e denunciare gli sposi per sequestro di persona. Controllate il Codice Penale, se non mi credete.
Vi lamentate perché ormai il buffet si protrae da diciotto ore e avete anche dato un nome alle vesciche che vi sono spuntate sui piedi? E allora che dovrebbe dire il precettore che accompagna il giovin signore nel corso del Giorno di Parini?


Il giorno è l’opera più conosciuta di Giuseppe Parini, se non la trovate subito in libreria è perché dovete andare dal commesso e sussurrargli una parola d’ordine all’orecchio. A questo punto si avvicinerà allo scaffale dei libri di Faletti e, spostatone uno, si aprirà una libreria segreta catalogata come genere: Libri ambientati in una sola giornata ma che sono pesanti come una comitiva di soprano russe. Ovviamente qui troverete anche l’Ulisse di Joyce. Naturalmente voi non sarete stupiti tanto dal fatto che alla Feltrinelli abbiano una libreria segreta, quanto nello scoprire che una delle opere più importanti dell’Illuminismo italiano è in vendita a tre euro, mentre l’inarrivabile capolavoro di Carlotta Ferlito (quella di Mtv): Cosa penso mentre volo, costa 15 euro.
Ma sorvoliamo.


Cosa dire di Giuseppe Parini che non potete comodamente trovare su Wikipedia? Innanzitutto che somigliava a Skeletor di He-Man; poi possiamo aggiungere che era membro dell’Accademia dei Trasformati di cui faceva parte anche il conte Giuseppe Maria Imbonati. Il nome vi dice qualcosa? Bene, si tratta di niente poco di meno che del padre di Carlo Imbonati, futuro compagno di Giulia Beccaria, la mammina di Manzoni. E Parini sarà proprio precettore di Carlo. Lo so, vi state chiedendo se Parini fosse diventato un intellettuale di tale levatura senza queste frequentazioni e la risposta è: Mah!
Ad essere onesti Giuseppe Parini il suo posto nell’olimpo degli intellettuali che parlano con la R moscia se l’è conquistato, visto che non avendo le risorse economiche per studiare fu costretto a prendere i voti e a fare il precettore per Gian Galeazzo Serbelloni (no, non sono quelli di Fantozzi). Il servizio a casa Serbelloni oltre a fare di Parini un martire (non ne ho idea ma, dando ripetizioni, uno che si chiama Gian Galeazzo me lo immagino difficile da gestire), gli consente di osservare da vicino la vita della nobiltà dell’epoca, ovvero la materia prima di cui è costituito Il giorno.


Il giorno è un poema didascalico in endecasillabi liberi che narra la giornata del giovin signore, un rampollo di una nobile famiglia, attraverso gli occhi del suo precettore che, invece di dargli una testata sulla gengive come desidererebbe, ne loda le “gesta”. L’opera è divisa in tre parti: Mattino, Mezzogiorno e Sera, a cui si aggiungono successivamente Vespro e Notte.
Dato che scrivere ogni volta il giovin signore è abbastanza logorante, per praticità daremo un nome al protagonista del poemetto e per evitare che qualcuno possa offendersi, gliene daremo uno assolutamente di fantasia: Lapo. E visto che si tratta di un nome da cane lo chiameremo Lapo Ilkann.


Nel corso del Mattino apprendiamo che Lapo Ilkann si sveglia di buon’ora: verso le undici, undici e un quarto. A colazione può decidere se prendere il caffè (se ha problemi di peso) o la cioccolata, se deve digerire (non me lo chiedete, anch’io non ho capito niente della storia della cioccolata). Nel corso della mattinata riceve la visita del maestro di violino e di francese e leggerà alcuni libri. Parliamoci chiaro: a Lapo del francese o del violino non gliene frega niente, semplicemente vanno di moda e lui è un tipo cool, il Lapo. Lo stesso dicasi per le letture: Ilkann conosce solamente quelle opere di cui si parlerà in uno dei salotti buoni che frequenta, insomma la sua è una cultura di facciata, concetto che per noi, abituati a Porta a Porta, è difficile da seguire.

Nel Mezzogiorno (o Meriggio nelle successive versioni), vediamo Lapo andare a casa di una dama sua “amica”. Qui Parini contesta l’usanza del cicisbeismo. Il cicisbeo era una sorta di cavalier servente che accompagnava una donna sposata nel corso delle sue uscite pubbliche e private… anche molto, molto private. La particolarità del cicisbeismo consisteva nel fatto che l’uomo era sempre più giovane della donna. «Ah, il toy boy!», esattamente, miei cari fans di Demi Moore e Lori del Santo.
Bisogna dire che il ritmo del Giorno è abbastanza lento, per cui quando si arriva a questo punto lo studente che è stato costretto a leggerlo dopo ripetute minacce di morte si aspetterebbe un po’ di carne al fuoco. Macché, non si vede nemmeno un calzino! A tavola la dama parla di vegetarianismo e di un episodio che merita la nostra attenzione: la donna racconta di come ha dovuto cacciare il suo servo (padre di famiglia) perché ha osato dare un calcio alla cagnolina (la vergine cuccia) che lo aveva morso. Parini con sta storia del servo se la prende con quelli che su Facebook, appena leggono la storia di un cane abbandonato, scrivono: «Brutto bastardo, pezzo di m…, figlio di…» e poi parcheggiano sedici ore i figli in macchina per andare a giocare al Bingo.


Proseguendo con la narrazione arriviamo al Vespro, qui vediamo Lapo e la sua dama fare visita ad un amico ammalato. Ovviamente i due sono profondi come una pozzanghera in agosto, per cui l’amico potrebbe bellamente schiattare, la loro unica preoccupazione è lasciare il biglietto da visita al tipo per dimostrargli il loro interessamento. Poi vanno da una nobildonna vittima di crisi di nervi per farle una testa così con del bel gossip Settecentesco.

L’ultima parte del poemetto è la Notte, in cui Lapo e cicisbea vanno ad una festa in cui ci sono vari tavoli da gioco. Nel corso di questo capitolo il nostro Parini si toglie un bel po’ di sassolini dalla scarpa, ne approfitta infatti per prendere in giro i vari personaggi che compongono la nobiltà dell’epoca con i loro tic e i loro vizi. A ricevimento terminato Lapo Ilkann fa ritorno a casa per svegliarsi l’indomani per vivere altre fantastiche avventure (quest’ultima parte dovreste leggerla con il tono di voce di Peppa Pig).

Da questa stringatissima sintesi (vi assicuro che, benché breve, Il giorno è un mattone), capiamo che il poemetto di Parini è nient’altro che una critica, a volte ironica, a volte feroce, della nobiltà del Settecento che legge senza acculturarsi, che impara le lingue solo per moda, che “ama” gli animali ma disprezza gli uomini di rango inferiore. Insomma, nulla di nuovo sotto al sole, direbbe San Girolamo, Il giorno potrebbe essere riproposto pari pari al giorno d’oggi, basterebbe solamente rinnovare il guardaroba di Lapo e dei suoi compari.

La fonte da cui attinge principalmente il nostro autore è Il rapimento del ricciolo di Alexander Pope, poeta inglese contemporaneo di Parini, famoso soprattutto per una breve comparsata nel Codice da Vinci. Come Parini, infatti Pope tratta un argomento frivolo per farne un’opera epica. Tuttavia anche dietro al Giorno c’è lui: l’onnipresente Dante Alighieri. «Ancora?», sì, ancora.
Il poemetto è strutturato come una specie di anti-Commedia, un po’ come se Parini volesse dire: «Qua ci sta poco da ridere». Invece di assistere alla salvezza dell’anima del protagonista, qui vediamo come, col passare delle ore, Lapo scenda sempre più giù, senza speranza di risalita, non a caso Parini lo definisce: «Colui che da tutti servito a nullo serve». Ma del resto lo abbiamo chiamato Lapo apposta.


Perché dunque dobbiamo prenderci la briga di leggere Parini? Beh, mettiamola così: se siete dei sottopagati come il sottoscritto e vedete tutti i giorni raccomandati che vi scavalcano, non ve la prendete, anzi prendeteli per… vabbè ci siamo capiti.
In fondo nella vita ci vuole leggerezza, che poi è il motivo per cui grido: «Ambo!» non appena iniziamo a giocare a tombola.





  

martedì 19 novembre 2013

Contest Time - ...and the winner is

Finalmente siamo giunti al termine di questo Contest Time "Salva una parola". Dopo un appassionante testa a testa fra Pacchiarotto e Algido, alla fine il popolo (dieci persone) ha sentenziato che Algido merita di restare a imperitura memoria per i posteri.

Che dire, ringrazio tutti coloro che hanno proposto una parola da salvare e quanti hanno votato.
Fatemi sapere se volete altri contest del genere.

Ah, prima che mi dimentichi: la vincitrice verrà subito contattata, il tempo di ordinare il tappeto rosso e noleggiare lo smoking per la premiazione.

Per coloro che invece non ce l'hanno fatta, pubblico la foto del bellissimo premio in palio, in modo che possano sportivamente mangiarsi il fegato.



giovedì 14 novembre 2013

Delitto e castigo: il dramma dei fustini

Ho profonda nostalgia dello spam 1.0. Quei bei volantini rassicuranti che ti mettevano nella cassetta della posta, riciclando i quali potevi salvare tre quarti di foresta pluviale. Per i più giovani (adesso si dice nativi digitali) sintetizzo.
Dovete sapere che molto tempo fa, in un’epoca lontana in cui le persone si citofonavano ancora sotto casa, invece di mandarsi un messaggio su Whatsapp per dire: «Scendi, che sono arrivato», esistevano dei misteriosi benefattori che lasciavano nelle cassette delle lettere delle vecchiette dei suadenti volantini così pieni di immagini di santi che bastava averne uno per evitare di pagare l’IMU, in quanto la denominazione di casa passava da abitazione a edificio di culto, del tipo:


Sulle tracce di Padre Pio
Giornata di preghiera e meditazione a San Giovanni Rotondo
Quota di partecipazione 5 euro!!!
Programma:
ore 07.00: Partenza sotto casa
ore 8.30: Prima sosta all’Autogrill per rifocillarsi e per gli amici deboli di prostata
ore 9.30: Seconda sosta all’Autogrill per rifocillarsi e controllo glicemia
ore 10.15: Arrivo a San Giovanni Rotondo
ore 10.15 - 10.25: Visita della Basilica di San Giovanni Rotondo, della Tomba di Padre Pio, celebrazione della Santa Messa,  visita al museo di Padre Pio, visita guidata alla cittadina di San Giovanni Rotondo, tour nel mercatino per acquisti souvenir
ore 11.00: Pranzo in ristorante comprendente: aperitivo di benvenuto, antipasto, primo, secondo, contorno, acqua, vino, bevande, pane, grissini, dolce, caffè, amaro, digestivo
ore 12.00: Rientro a casa con breve presentazione

«Convenientissimo», direte voi. A dire la verità, il trucco consisteva nella «breve presentazione», praticamente ti sequestravano per dodici ore nel ristorante Zi’ Mariuccio costringendoti a vedere dimostrazioni di batterie di pentole con il fondo spesso quanto quello del batiscafo Trieste, materassi ergonomici, aspirapolveri potenti come Boeing 747 in fase di decollo e altri elettrodomestici di dubbio gusto e utilità. Naturalmente la vecchietta era liberissima di non comprare nulla e poteva evitare di spendere i soldi che aveva messo da parte per il matrimonio della nipote, ritornando tranquillamente a casa: magari prima un orecchio, poi un mignolo e così via.

Oggi le cose sono profondamente cambiate, lo spam della mia casella email si divide in tre macrocategorie:
  • Quelli che sono preoccupati per mia autostima: per lo più cercano di vendermi Viagra e Cialis
  • Quelli che sono preoccupati per la mia linea: o mi offrono coupon per panuozzi illimitati o cercano di farmi dimagrire a forza di tisane diuretiche
  • Quelli che sono preoccupati per il mio portafogli: ti offrono l’opportunità di guadagnare stando comodamente a casa senza dover necessariamente congelare il cadavere di tua nonna per continuare a ritirarne la pensione

Per quanto mi riproponga di cestinare lo spam senza nemmeno aprirlo, prevale in me il cosiddetto effetto del gattino spiaccicato: è, in pratica, quel richiamo ancestrale e irresistibile che ci costringe a posare lo sguardo su cose truculente e che ci fanno profondo ribrezzo. Come quando per strada vediamo un gatto spiaccicato, appunto.

Tuttavia, se ho avuto l’occasione di esplorare il meraviglioso mondo che si schiude al di là del casello autostradale di Cassino, lo devo proprio allo spam e alle meravigliose offerte di viaggio che puntualmente mi arrivano sulla mia casella email. Vi concedo che non sono alberghi a cinque stelle e che le compagnie di volo sono low cost, ma almeno le probabilità di tornare a casa sani e salvi dopo un incidente aereo sulle Alpi svizzere sono maggiori di quelle di rivedere i propri cari dopo il suddetto viaggio a San Giovanni Rotondo.

Come ogni italiano che si rispetti, la mia paura principale quando vado all’estero non è tanto quella che mi possano rapire/rapinare/violentare/vendere i miei organi/immettermi nel circuito dei combattimenti clandestini. No, il mio timore fondamentale può essere racchiuso nella frase: «E mo, che mi mangio?», con la particella riflessiva mi che esprime la più profonda costernazione.
A questo punto in me si combattono due anime:
  1. Quella no global che dice: «I piatti tipici sono parte della cultura di un Paese, non fare il solito turista che fa quattordicimilasettecentocinquanta chilometri per mangiare la pizza»
  2. L’anima più gretta e pratica che mi sussurra: «Ricordati del viaggio di tuo zio in Tailandia, che per quindici giorni si è strafogato di pappardelle di cincillà convinto che fossero di cinghiale»

Così, i primi giorni cerchi di essere open mind e frequenti bettole a cui non si accosterebbe con un bastone nemmeno lo Chef Rubio, il problema è che non lo puoi fare sempre.
Mi spiego: fin quando sei in Portogallo o in Spagna, una trattoria che fa menu turistici a 2.99 euro ancora ancora la trovi, ma provate a cercarla in Francia o in Inghilterra. Sì, lo so che a Londra ci sono i Fish’n’Chips, ma se, dopo il terzo giorno di alimentazione a base di bastoncini di merluzzo e patate fritte, in metropolitana vedi il Capitan Findus conversare allegramente con Mister Potato di Toy Story, allora capisci di avere qualche problema. E fai un passo che non avresti mai fatto a casa tua: andare da McDonald’s.


Adesso, per quanto non apprezzi particolarmente il cibo da fast food, devo riconoscere che c’è un elemento rassicurante nei McDonald’s: che tu sia alla periferia di Campobasso o nella Nuova Guinea Francese, troverai sempre gli stessi panini; non c’è assolutamente nulla da decidere: fai la fila-paghi-prendi il panino.
Tuttavia il destino è beffardo, e dopo che hai fatto quattro ore di fila combattendo strenuamente contro padri che portano figlie sulle spalle e adolescenti del luogo che mettono in dubbio la moralità di tua madre, proprio quando sei a un passo dalla meta, scopri che quel simpatico ragazzotto con gli occhiali che ti divide dalla cassiera è proprio lui: l’indeciso.


Sulle origini di questa controversa figura la comunità accademica è ancora divisa: infatti secondo alcuni studiosi di Cambridge esso sarebbe rimasto congelato migliaia di anni come l’Uomo del Similaun, secondo invece la maggioranza degli scienziati esso sarebbe animato solo da livore per la lunga attesa in fila che si ripercuote su quelli che stanno dopo di lui.
In ogni caso, entrambe le ipotesi spiegano come mai l’indeciso non sia assolutamente a conoscenza di come funziona un fast food ed impieghi perciò dai 15 ai 45 minuti a fare ragionamenti ad alta voce come i concorrenti di Chi vuol essere milionario?: «Se prendo il Big Mac ci sono due hamburger, ma nel Crispy McBacon c’è la pancetta che mi piace tanto, senza contare che nel McChicken c’è quella salsa…» e alla fine ordina le rane in umido e un bicchiere di prosecco.


Direte: «Ma l’indeciso è una figura che è nata con il capitalismo selvaggio, con l’avvento di questa società che bada più alla forma che ai contenuti e che ti inganna consentendo sì il diritto di scelta, ma solo sulle cose futili…». Purtroppo no, amici miei, l’indeciso c’è sempre stato, ce lo testimonia Fëdor Dostoevskij con il suo monolitico Delitto e castigo.
Il vero protagonista di questo libro è infatti l’indecisione.


Sarà che in Russia d’inverno faceva freddo e non si poteva uscire di casa, sarà che il nostro caro Dostoevskij avrà trovato in offerta su Ebay diciotto risme di carta, fatto sta che le millecinquecento pagine che compongono questo romanzo potrebbero essere agevolmente sintetizzate così:

Un ragazzo senza una lira decide di uccidere una strozzina. Alla fine lo acchiappano.

Prima di vedere come Dostoevskij riesce a consumare ventisei barili di inchiostro per spiegare questo concetto, è necessario mettere in guardia il lettore che si avvicini a un romanzo russo, perciò, dopo aver fatto partire un adeguato sottofondo musicale, ecco a voi la:


Adesso potete stoppare il sottofondo musicale.

Come dicevo, Delitto e castigo si basa tutto sul giovane Rodion Romanovič Raskol'nikov (ma che nel libro viene chiamato anche Rodiòn Romanyč Raskòl'nikov, e a cui gli amici si rivolgono affettuosamente anche con: Rodja e Rodka, adesso capite perché vi serve il taccuino), uno studente squattrinato (figura ormai scomparsa) che decide di ammazzare una vecchia usuraia che lo sfrutta. E già per questo il protagonista meriterebbe tutta la nostra stima.

Il problema è che il 90% del romanzo è costituito dai monologhi interiori di Rodja che da un lato vorrebbe (giustamente) spiaccicare la vecchia sotto un treno ad alta velocità, d’altro canto però è un bravo ragazzo, perciò è molto indeciso sul da farsi.
Insomma Rodja non solo è il prototipo dell’indeciso che fa la fila al McDonald’s, ma tutto Delitto e castigo potrebbe essere riassunto con la pubblicità del detersivo: «Signora accetterebbe di cambiare il suo Dash con due fustini?».

Alla fine il nostro Rodion Romanovič Raskol'nikov (lo so che non avete letto il nome per intero e vi siete fermati a Rodion) ammazza la vecchia, purtroppo però di mezzo ci va anche Lizaveta Ivanovna, l’innocente sorella dell’usuraia. Il risultato è che il restante 10% del romanzo è ambientato sul divano del protagonista che, in preda al senso di colpa, ha delle visioni e mangia dell’ottima zuppa di cipolle praticamente una pagina sì e una no.

«Tutto qui? E il resto del romanzo?». Beh, a dire la verità capitano cose di poco conto, per esempio arrivano in città la madre e Dunja, la sorella di Rodja (di cui vi risparmio i nomi completi per il bene che vi voglio) che non portano il ragazzo in comunità di recupero solo perché non le hanno ancora inventate. Poi c’è l’ex datore di lavoro, pedofilo, di Dunja che attraversa mezza Russia per molestarla, diventando il primo stalker che la letteratura ricordi. A un certo punto entra in scena anche Lužin, il danaroso fidanzato della bella Dunja, che non vede l’ora di sposarsi per avere una moglie che lo riverisca e che gli sia eternamente grata per averla sollevata dalla miseria.
Insomma, più leggiamo Delitto e castigo, più ci convinciamo che forse forse Rodja già che c’era avrebbe fatto meglio ad accoppare altri cinque-sei personaggi.

Naturalmente alla fine il bene trionfa e Rodja si costituisce pur di togliersi di torno tutta la marmaglia che gira attorno al suo divano… eppure c’è un lieto fine. Il ragazzo infatti viene sbattuto in Siberia (si vede che era una tradizione anche in epoca zarista) e nel suo destino lo segue Sonja, la figlia di un ubriacone che Rodja aveva conosciuto tempo addietro. Inizialmente il giovane sembra quasi infastidito da questa presenza, ma dagli oggi, dagli domani, si innamora e per di più diventa anche credente.

Ma perché uno dovrebbe scomodarsi a leggere Delitto e castigo? In primis si tratta di un romanzo molto particolare: Rodja per certi versi somiglia a Julien Sorel, protagonista de Il Rosso e il Nero di Stendhal: simpatico come una fistola proprio lì, dove non batte il sole. All’inizio facciamo un po’ di fatica a simpatizzare con il personaggio che è presuntuoso, supponente e pure un poco poco scassaca…, però man mano che proseguiamo con la lettura capiamo che si tratta di una maschera che indossa per non essere aggredito. Pirandello quindi non s’è inventato niente di nuovo.

Non ve la sentite ancora di affittare un muletto per ritirarlo in libreria? Allora considerate che Delitto e castigo è un romanzo con vari livelli di lettura: possiamo considerarlo uno dei primi romanzi gialli, possiamo guardarlo come una sorta di anticipazione delle storie di Kafka, possiamo analizzarlo nell’ottica cristiana, che prevede il perdono purché sentito. Pasolini ci ha addirittura visto il complesso di Edipo.
E se proprio ci troviamo in difficoltà possiamo tirare in ballo Dante (che va sempre bene): Rodja è un ragazzo tormentato e per raggiungere il suo paradiso deve passare per l’abisso della sua mente (questa me lo sono inventata io, quindi domani non andate in biblioteca a fare i fighi con questa frase).

Piccola curiosità: Dostoevskij chiamò il romanzo Delitto e castigo in onore del trattato Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, di cui lo scrittore russo era grande ammiratore e con cui condivideva il rifiuto della pena di morte. Questa chicca la potete usare nel molto improbabile caso che a cena fra amici, giocando a Trivial Pursuit, vi capiti l’argomento Romanzi russi.

Prendetevi allora quindici giorni di ferie e spendete i vostri soldi per comprare Delitto e castigo. Tanto il Viagra che vendono su internet non funziona.

giovedì 10 ottobre 2013

Contest Time - Salva una parola: Il Sondaggio

Pur avendomi creato una settantina di identità false per dare credibilità a questo blog, nel caso nessuno avesse partecipato al contest, sono contento che molti di voi abbiano proposto una parola da salvare (vi confesso che in almeno un paio di casi ho dovuto guardare sul vocabolario).
Adesso, dato che sono cresciuto fra anni '80 e '90, i miei riferimenti culturali sono essenzialmente due: il Festivalbar e i giochi di Jocelyn, ed è proprio ispirandomi a questi ultimi che dichiaro aperta la seconda parte del Contest Time.

Per un mese (giorno più, giorno meno) potrete votare la vostra parola da salvare semplicemente selezionandola dal sondaggio che vedete nella parte destra del blog e cliccare su Voto. Essendo profondamente democratico, potete selezionare anche più di una parola per volta.

Al termine del sondaggio, che scadrà il 10 novembre, il lettore/la lettrice che avrà proposto la parola più votata vincerà un bellissimo libro della collana Live della Newton-Compton del valore di addirittura 0.99 euro. Insomma mi voglio proprio rovinare.

Di solito i blogger seri concludono questo tipo di post con una frase profonda, a me questo momento l'unica cosa che mi viene in mente è: «quando vi capita più di votare senza nessuno che vi promette un posto di lavoro?».

Buon sondaggio!






venerdì 4 ottobre 2013

Catullo: il passero solitario

Qualche giorno fa sfogliavo tranquillo tranquillo una delle riviste di semiotica che sono solito comprare (adesso non mi ricordo se fosse Cioè o Girl Power) e, mentre leggevo un interessantissimo articolo dal titolo: «Come non rimanere incinta sfiorando il gomito del compagno di banco», mi è caduto l’occhio su un trafiletto che recitava più o meno così: «Una persona usa in media cento parole nella sua vita».
I successivi venti minuti li ho passati nella più profonda tristezza pensando a questo poveretto che si esprime solo con cento parole, poi ho capito che il discorso era generale.
E la tristezza è diventata disperazione.


Secondo un recente studio, mediamente un cane riesce a comprendere all’incirca un centinaio di parole (ho cercato l’articolo su Google per dare una solida base scientifica a questa affermazione, ma non l’ho trovato. Comunque VI GIURO che non l’ho sentito da Studio Aperto). Cosa significa tutto ciò?
Molto semplice: che probabilmente, così come esiste il giurassico, il cretaceo, il pleistocene e così via, esisterà un giorno il chihuahuasico e il pro-pro-pro-pro…nipote di Piero Angela (sì, immagino un futuro in cui ci sia ancora vera meritocrazia) dirà:


In questa era gli esseri umani si esprimevano con il vocabolario di un cane dislessico, bastavano i concetti base: “mamma”, “papà”, “cacca”, “pipì”, “manda questo msg a 10 persone per salvare un bambino affetto da unghia incarnita”.

Che, tra l’altro, vorrei vederlo in faccia sto medico fetente che non salva i bambini se non arrivano tot sms. 
Vabbè, ma questa è un’altra storia.


Per capire quanto la situazione sia grave, basta considerare che un dizionario a caso della lingua italiana contiene all’incirca 280.000 lemmi per tremila pagine: immaginate di dover scrivere, non dico l’Orlando furioso, ma la lista della spesa solo con le prime tre pagine.
A parte l’evidente disagio di avere il frigorifero pieno di roba con inizia con la A, potete capire che le difficoltà sono serie.


Adesso dovrei attaccare una filippica di nove pagine in cui dico che nei bei tempi antichi le cose andavano diversamente, che non si parlava mica come adesso, che i pensieri erano più profondi. Certo che le cose andavano diversamente: era molto peggio!
Partendo dall’epoca di Pascoli e andando a ritroso fino a Omero abbiamo un tasso di analfabetismo fra la popolazione pari solo alle interviste a bordo campo al termine delle partite di calcio o a un raduno degli ultimi trenta Ministri dell’Istruzione. Decidete voi.


Non siete convinti della bontà di questa affermazione? Credete che davvero nell’antica Grecia i pastori andassero in giro con la lira a declamare poesie? E il formaggio quando lo facevano allora?
In realtà il problema della povertà della lingua c’è sempre stato ed è appunto per ovviarlo che è nata la poesia e, soprattutto, la metafora.


Prendiamo un esempio di vita quotidiana: siete in metropolitana e la persona vicino a voi ha un alito talmente pestilenziale che vi sorge il dubbio che da qualche parte si sia rotta una conduttura del metano. Normalmente direste qualcosa del tipo:

Ohi bello, pigliati una mentina che per prendere fiato ho dovuto mettere la testa sotto le ascelle di quel giocatore di rugby.

Invece, con l’aiuto della metafora potreste dire:

Oh tu, che hai spalancato le porte degli Inferi aprendo il fetido pertugio da cui emetti favella, orsù, afferra lesto questo candido dono di Eolo, dominatore di venti, affinché non sia costretto a cercare asilo presso le madide braccia di quel discobolo che ha appena terminato di gareggiare.

Provocando non solo una ola in tutto il vagone, ma anche l’intervento d’urgenza della neuro.

Se però vogliamo essere precisi, bisogna dire che non sempre la poesia è sinonimo di metafora e viceversa. L’esempio vivente in tal senso è il grande poeta latino Catullo.

Gaio Valerio Catullo nasce a Verona l’87 a.C. Come facciamo ad essere così sicuri sulla data di nascita? Perché ce lo dice San Gerolamo nel Chronicon, una mastodontica cronaca universale affidabile quanto un editoriale di Alessandro Sallusti. Credo che ci siamo capiti.
Catullo proviene da una famiglia agiata, il padre è amico intimo di Giulio Cesare e Quinto Metello Celere, però lui odia la politica e, come ogni giovane ribelle, decide di prendere una decisione sofferta, le alternative erano due:
  1.  Andare in Tracia a lavorare come schiavo diciotto ore al giorno nelle miniere di salgemma
  2. Diventare un artista

Naturalmente intraprende la strada più difficile: diventare un artista.

A tale scopo parte per Roma e «dipinge paesaggi sotto la stazione Termini?», direte voi. 
No, no. 
Il giovane Catullo comincia a frequentare i circoli più influenti, più intellettuali, più mondani, più in, più cool, insomma il nostro poeta sembra dirci: «Ho detto che volevo fare il ribelle, mica il fesso…». 


A sua discolpa bisogna dire che all’epoca questi circoli erano frequentati da gente che si chiamava Asinio Pollione, Cornelio Nepote, Cicerone… insomma personaggi che nemmeno la fantasia più malata riuscirebbe ad immaginare mentre ordinano una bottiglia di champagne piena di bengala al Billionaire.

Proprio in questi ambienti Catullo conosce quella che poi diventerà la sua musa ispiratrice: Clodia.
Clodia è la sorella del tribuno Clodio (in famiglia non si erano sforzati molto sulla scelta dei nomi), donna dall’intelligenza straordinaria, coinvolta in una marea di intrighi e scandali, sposata con Quinto Cecilio Metello Celere, ma con una fila di amanti che nemmeno alle Poste il giorno della pensione, Cicerone in una sua orazione suggerisce che avesse addirittura una relazione incestuosa col fratello.
Insomma proprio una brava ragazza.


Da autentico pollo di allevamento, nato e cresciuto in una campana di vetro, Catullo se ne innamora perdutamente, credendo pure di essere ricambiato.
Manco a dirlo, il rapporto fra Catullo e Clodia è quantomeno burrascoso: lei, a cadenza quasi settimanale, precisa come la Wind quando ti deve scalare il credito, lo lascia e lo piglia come l’ultimo dei cretini, nel frattempo, ovviamente, sotto le sue lenzuola c’è più traffico che nel parcheggio di un centro commerciale sotto Natale.


Piccola digressione sui poeti neoterici.
I poetae novi o neoterici sono quei poeti dell’antica Roma che non hanno il benché minimo interesse né per la politica, né per la vita pubblica, quindi nelle loro opere trattano prevalentemente il tema dell’amore.
Lungi da me mazzolarvi crudelmente i gioielli di famiglia con concetti come la brevitas e il labor limae, voglio porre l’attenzione sulla vera caratteristica che accomuna questa categoria di poeti: muoiono tutti giovani. Vogliamo chiamarlo mal di vivere? Vogliamo dire che «muore giovane chi è caro agli dei»? Vogliamo chiamarla sfiga? Fate un po’ voi, ma io sono convinto che se Darwin avesse letto di come Catullo si comportava con Clodia, l’avrebbe chiamata solo in un modo: selezione naturale.

Fine della digressione.

Naturalmente il povero Catullo non è che nelle sue poesie può scrivere che se la intende con la sorella di un tribuno, tra l’altro pure ammogliata. Per questo motivo decide di attribuirle un nome fittizio: Lesbia, in onore della poetessa Saffo che proveniva dall’isola di Lesbo (l’introduzione di questa parola nel post farà probabilmente salire la percentuale di lettori adolescenti ottenebrati dal testosterone).

Le poesie di Catullo sono contenute nel Liber, la sua unica opera che si divide in tre parti:
  • Le nugae, ovvero poesie dal contenuto leggero
  • I carmina docta, perlopiù elegie di argomento impegnato
  • Epigrammata, la parte che a scuola viene un po’ snobbata, ma che scopriremo essere la più interessante

Leggendo l’opera di Catullo si evince che il pover’uomo probabilmente soffriva di disturbo bipolare: tu te ne stai lì a leggere il carme 7 in cui quasi ti commuovi per questo amore eterno e folle che nessuno potrà mai vincere, poi giri pagina e nel carme 8 lo senti dire: «Addio ragazza, ormai Catullo resiste, non ti cercherà».
E la cosa bella che va avanti così per tutti i 116 componimenti: emotivamente è come salire sulle montagne russe, che a un certo punto ti viene da dire: «Catullo e fai pace col cervello!».


Per quello che mi riguarda, Catullo l’ho sempre trovato un autore un po’ particolare per l’uso delle metafore. Prendiamo il carme 2, per esempio:

Passero, delizia della mia fanciulla,
col quale è solita giocare, che suole tenere in grembo,
cui suole dare, mentre si avventa, la punta del dito
e stuzzicare le pungenti beccate,
quando al mio fulgido amore
piace fare non so che piacevole gioco
e trovare un piccolo conforto per la sua sofferenza,
credo, perché si calmi allora la sua ardente passione;
oh potessi giocare con te come lei
e alleviare i tristi affanni del cuore!
...
Questo mi sarebbe tanto gradito quanto dicono che alla fanciulla
veloce Atalanta fosse gradita la mela aurea
che sciolse la fascia verginale a lungo negata.

Le battute sul passero di Lesbia a scuola sono seconde solamente a quella su L’infinito di Leopardi, eppure se leggiamo attentamente questo carme notiamo una cosa strana: Catullo usa la metafora del passero per descrivere un sentimento bello, limpido, non c’è assolutamente nulla di immorale, tuttavia lui, in qualche modo, decide di occultarlo.

«E allora? Lo fanno tutti i poeti».
Siamo d’accordo, ma c’è una cosa che non sapete di Catullo: avete fatto caso che a scuola non vi fanno mai comprare il Liber, ma al massimo un’antologia? Com’è che non vi hanno mai fatto leggere il carme 42, oppure il 56? E tutti quelli dedicati a Gellio che fine hanno fatto? Perché si dedica così poco tempo agli Epigrammata? È tutta una manovra della Chiesa, della Massoneria, degli Illuminati, degli extraterrestri?
Devo finirla di guardare Mistero.


Il fatto è che il nostro Catullo usa le metafore per parlare d’amore, ma quando deve attaccare qualcuno sembra di parlare con Sgarbi. Per darvi un’idea prendiamo il carme 80, in cui ho sostituito le parolacce con il pio bove di carducciana memoria:

Come puoi, Gellio, spiegare perché queste tue labbrucce rosee
divengono più candide della neve d'inverno,
quando alla mattina esci di casa o quando nel primo pomeriggio
delle lunghe giornate estive ti ridesti dal pigro riposo?
Per certo non saprei come avvenga: ma potrebbe esser vero, qualcuno lo sussurra,
che sei un divoratore di pio bove ch'esce dall'inguine di un uomo?
è così, di sicuro: lo gridano la schiena rotta di Vittorio,
pover'uomo, e le tue labbra segnate dal pio bove che hai succhiato.

A rileggerla sembra più oscena la mia versione.

Come potete capire siamo lontani dalle sottigliezze di Nevio e Orazio: Catullo è uno che se gli stavi sugli zebedei, tàc, ti faceva un bell’epigramma e passavi alla storia in termini non propriamente lusinghieri.

Tutto ciò dovrebbe farci perdere la stima per il nostro poeta? Assolutamente no! Catullo è come Kurt Cobain, è la rockstar della poesia latina: ha scritto cose d’amore, cose dissacranti e poi se s’è andato all’incirca a trent’anni. Nel senso che è morto, non che ha fatto l’Erasmus.
Quindi portate rispetto a questo grande autore e se vi state disperando perché (come me) a trent’anni non avete ancora combinato nulla, non vi preoccupate, c’è ancora tempo: Mozart è morto a trentacinque.

P.S.
Nel caso vi interessasse il Catullo hot, date un’occhiata ai carmi 6, 15, 16, 21, 23, 25, 32, 37, 39, 41, 42, 56, 74, 80, 88, 89, 94, 97, 98, 111. Ma non dite che ve l’ho suggerito io.


P.P.S.
Cliccate qui per partecipare al sondaggio che si aprirà il 10 ottobre grazie al quale potreste vincere un libro dal valore di ben 0.99 centesimi!