giovedì 27 febbraio 2014

L'Iliade di Omero: Achille, il solito raccomandato

Il mio sogno nel cassetto è avere un cassetto. Fatemi spiegare meglio: nell’immaginario comune del laureato/a-tipo in Lettere il sogno proibito non è tanto Monica Bellucci vestita da Catwoman o Riccardo Scamarcio in camicia che suda come una soppressata in pieno luglio. Nulla di tutto ciò. Quello che sognano tutti i laureati in materie umanistiche, dalla Svezia allo Zimbabwe, è solamente uno studio con una libreria enorme. «Per farci che? Visto che passerai la vita a distribuire volantini alla sagra della porchetta ruspante» direte voi. Se il vostro interlocutore ha mantenuto la calma e non vi ha ucciso con il vaso cinese che vi ha regalato vostra zia per Natale, vi risponderà serenamente: «Per avere un posto dove riflettere».

Il fatto è che i laureati in Lettere hanno una visione del mondo eccessivamente romantica: immaginatevi un enorme studio con librerie che arrivano fino al soffitto, una scrivania illuminata con quelle lampade col vetro verde e al centro della stanza, seduto in poltrona, nella penombra, una persona che riflette sulla vita e sul mondo. Il primo pensiero non è tanto «Toh, guarda che persona profonda!», quanto piuttosto «Maria, chiama in farmacia e ordina altri due autotreni di Xanax».
Non a caso la maggior parte della popolazione mondiale tende a riflettere sui grandi temi che attanagliano l’esistenza umana in due luoghi: al gabinetto e in mezzo al traffico. 
Essendo cinque in famiglia, onde evitare disagi, solitamente opto per la seconda.


Che poi nemmeno ci tenevo particolarmente a pigliare sta patente, visti i risultati che si vedono in giro. L’automobile ha effetti dannosi sulla psiche di molte persone: prendete un bonzo tibetano e dopo qualche giorno di guida vi ritroverete a che fare con un ultras della Stella Rossa di Belgrado, un esagitato che comincerà a dimenarsi e a suonare il clacson pure quando sta in fila alla cassa del supermercato.
In realtà la situazione è un po’ più complessa, infatti il violento è solo uno dei tanti tipi di automobilista che potete incrociare nel traffico. Per completezza, eccone alcuni esempi:

  • Il Freudiano. Normalmente ha un SUV che utilizza come surrogato ed estensione di una parte del corpo che Leopardi definirebbe il passero solitario. Usando il mezzo di locomozione, e solitamente anche il cervello, come la suddetta parte anatomica, tende ad intrufolarsi in ogni pertugio libero, ma con una predilezione maniacale per le strisce pedonali e i parcheggi per disabili. Non lo fa per cattiveria: è fermamente convinto che avere la difficoltà nella gestione e nell’accettazione del proprio passero solitario sia realmente un handicap
  • Quella con la Smart. Solitamente è donna, truccata come Moira Orfei al carnevale di Venezia e ha sulle dita delle sciabole che Freddy Kruger di Nightmare a confronto sembra un adolescente ansioso che si mangia le unghie. La caratteristica principale di questo tipo di automobilista è la totale convinzione che la Smart sia un motorino, infatti la si può vedere sfrecciare in corsia d’emergenza in autostrada e fare una faccia sorpresa quando la stradale, giustamente, dà fuoco alla sua patente seduta stante. La versione maschile è facilmente identificabile per l’abbronzatura color costoletta di maiale alla brace che sfoggia in pieno gennaio, con 28 cm di neve. In ogni caso sono riconoscibili dalla frase: «Sono arrivato, il tempo di mettere la Smart sul cavalletto e salgo»
  • Il Pensionato. È un essere mitologico che raramente si trova sulla strada, tuttavia ha la caratteristica di apparire magicamente da una piccola traversa non segnalata nemmeno dai satelliti spia della CIA e piazzarsi davanti alla vostra automobile alla velocità di crociera di 18 km/h ma solo se si verificano una o più di queste evenienze: siete in ritardo al lavoro il giorno in cui si discute della vostra promozione; siete in ritardo a un colloquio di lavoro; siete in ritardo per l’esame più importante della vostra carriera universitaria; siete in ritardo per prendere il treno e quelli successivi sono tutti Frecciarossa da 145 euro a biglietto (terza classe economy, accanto a Mamy di Via col vento e allo Zio Tom); siete in ritardo a un matrimonio. Il vostro.
  • Il Ciclista. Pur non essendo un automobilista merita tutta la nostra attenzione. Con una pazienza da speziale medievale durante la settimana frantuma nel mortaio gli attributi di mogli, fidanzate, amici e parenti decantando i vantaggi del telaio in titanio della sua bici progettato dalla NASA, dei sellini in silicone che evitano il formarsi di calli in posti dove i calli normalmente non avrebbero alcun motivo per formarsi. Tuttavia dà il meglio quando decanta i pregi della bicicletta: moto, vita sana, contatto con la natura e soprattutto relax. Peccato che i posti che privilegia il ciclista per le sue scampagnate nel weekend siano in prossimità di svincoli autostradali. A quarantadue chilometri dall’albero più vicino. Inoltre il contatto con la natura al ciclista non fa tanto bene, visto che si organizzano in gruppi di sei-settecento occupando tutta la carreggiata e se sfiori il clacson per chiedere di passare sono capaci di tirare fuori la pompa della bici e descrivere con ricchezza quasi barocca di particolari cosa fartene
  • Quello che lavora all’anagrafe. È un tipo tranquillissimo che non si nota affatto, salvo nel momento in cui, a un incrocio, qualcuno gli taglia la strada. La reazione che segue, di solito, è di questo genere: scende dalla macchina, constata il danno (visibile solo al microscopio elettronico) e senza che voi abbiate aperto ancora bocca dirà: «Forse non hai capito chi sono io», o la variante folkloristicamente più accattivante «Forse non hai capito chi sono i miei parenti». Mentre voi state ancora slacciando la cintura di sicurezza per scendere, comincerà a snocciolare un elenco di nomi, date e fatti che manco Paolo Mieli in preda a una crisi isterica. In realtà a lui non interessa essere risarcito dall’assicurazione, per cui basterà annuire e dimostrarsi interessato e, a tratti, timoroso per le sue conoscenze, in modo che la sera possa andare al bar e vantarsi con gli amici

Quando si parla di viabilità stradale, di solito, c’è sempre qualcuno di una certa età che se ne esce con qualcosa del tipo: «Eh, i tempi sono cambiati, prima non era così». Certo, prima era molto meglio, basti pensare a Fra Cristoforo che per una questione di precedenza commette un omicidio, oppure all’archetipo di tutte le liti stradali: l’Iliade di Omero.

L’Iliade è un poema epico scritto in esametri dattilici e diviso in ventiquattro libri, per un totale di quasi 16.000 versi, il che, a noi abituati alle saghe di vampiri da 38-39 libri a botta, può sembrare irrisorio, tuttavia bisogna considerare che i cantori greci la recitavano a memoria. E noi dobbiamo scrivere la lista per fare la spesa!
Contrariamente a quanto suggerisce il titolo (Ilio era l’antico nome di Troia), l’Iliade non parla della guerra di Troia e comunque non copre tutti i dieci anni di combattimenti, ma solo gli ultimi 51 giorni.


«E allora di che parla?». Semplicemente di un’incazzatura, né più né meno. Quella di Achille.
Il figlio di Peleo infatti oltre ad avere il piè veloce, di veloce aveva anche la caratteristica di farsi girare le bolas nei momenti meno opportuni.
Nel caso dell’Iliade, l’ira di Achille è scatenata da Agamennone, capo dello schieramento greco, che prima rapisce Criseide, sacerdotessa di Apollo, ma giustamente il dio non vede la cosa di buon occhio e perciò scatena una pestilenza nel campo acheo. Da perfetto gentleman allora Agamennone lascia andare Criseide e pretende e ottiene da Achille la sua schiava, Briseide.
Se non ci avete fatto caso, sono davvero poche le cose che non si devono ai Greci. Una di queste è il femminismo.


Rispettando rigorosamente il cliché del figlio unico di buona famiglia e viziato, Achille dice in buona sostanza: «Ti sei preso la schiava? E allora non gioco più», vale a dire che decide di entrare in sciopero e di non combattere finché il re di Micene non gli avesse restituito Briseide.
Inizialmente i Greci non danno molto peso ad Achille e non si può dargli torto: insomma c’erano eserciti venuti da tutta la Grecia per difendere le corna di Menelao, vuoi vedere che manca un solo uomo e non riusciamo a vincere?
Esattamente. Dal momento in cui Achille incrocia le braccia gli Achei, da esercito spietato, diventano ballerini di Amici di Maria De Filippi e non ne combinano una giusta. Ulisse, il più “laico” degli eroi, preso dalla disperazione, entra addirittura nelle mura troiane per rubare il Palladio, una statua della dea Atena, perché, secondo una profezia, Troia non sarebbe caduta finché il simulacro fosse rimasto in città. Eppure nonostante tutti gli sforzi, Ettore, figlio di Priamo, arriva quasi a bruciare le navi greche.


Vista la situazione, Patroclo decide di indossare le armi di Achille per far credere ai soldati che il Pelide sia tornato in battaglia e infondere loro fiducia. L’operazione simpatia in realtà dura pochi minuti, il tempo di sguainare la spada che Ettore lo spedisce nell’Ade. Biglietto di sola andata.
Venuto a sapere dell’accaduto, Achille, che come abbiamo capito ha un carattere molto calmo e composto, decide di reagire sobriamente e, nell’ordine:

  1. Uccide tutti gli ostaggi troiani
  2. Fa pace con Agamennone
  3. Si fa forgiare dal dio Vulcano una nuova armatura (anche all’epoca avere buone conoscenze aiutava)
  4. Scende in battaglia e uccide talmente tanti nemici che lo Scamandro, il fiume che bagnava Troia, diventa rosso di sangue

L’apice però si ha nel combattimento con Ettore da cui, se proprio vogliamo essere precisi, Achille non ne esce proprio bene. Innanzitutto l’idea di battersi in duello è di Ettore, poi bisogna considerare che Achille è figlio di una ninfa, per di più pressoché immortale (voglio vedere voi, in mezzo a tutto quel casino a colpire proprio il tallone). Come se non bastasse ci si mette di mezzo pure Atena che, con una folata di vento, impedisce alla lancia del troiano di raggiungerlo; passa le armi ad Achille approfittando della sua invisibilità; assume le sembianze di Deifobo, fratello di Ettore, per trarlo in inganno. Insomma, aveva ottime raccomandazioni, il ragazzo. Il risultato è che Achille trafigge Ettore e questi, ignorando completamente ogni legge fisica e anatomica, con una lancia di quasi tre metri conficcata nella gola, attacca un pistolotto di due ore. E alla fine che fa l’eroe greco? Ha pure il coraggio di forare le caviglie dell’avversario, legarlo al suo carro e fargli fare il giro delle mura di Troia nemmeno avesse vinto i mondiali prima di portarselo all’accampamento Acheo.
Ma perché tutto questo astio?


Il fatto è che, secondo alcuni critici, Patroclo sarebbe stato l’amante di Achille. «Ma come? E allora Briseide a cosa gli serviva, per stirargli l’armatura?». I Greci erano un popolo antico, con tradizioni ancestrali, difficilissime da interpretare per noi uomini moderni aperti di vedute, per questo motivo per loro (nel 750 a.C.!) era assolutamente normale che un uomo, per di più un soldato, potesse avere un compagno e decidere nella più totale libertà come vivere la propria sessualità. Pensate a quanto erano arretrati. Loro.

La notte stessa Priamo, re di Troia, si reca segretamente da Achille per chiedergli al restituzione del corpo del figlio e dopo un serrato tira e molla l’eroe accetta. Non prima di essere scoppiato in un pianto talmente disperato che per poco Priamo non lo deve consolare.

Ecco tutto.

E la guerra?
E Ulisse?
E il cavallo di legno?
E l’incendio?
E il tallone?


State tranquilli che nell’Iliade non troverete nulla di tutto questo. Nemmeno un accenno. 
Omero, o comunque tutti gli aedi greci, campavano raccontando storie e molti secoli prima di Lo squalo, Indiana Jones e The Avengers avevano capito se volevano continuare a campare non potevano raccontarle tutte in una volta sola. Per questo motivo il resto delle vicende della guerra di Troia lo troviamo nei due sequel: l’Odissea e l’Eneide.


E a proposito dell’Odissea, nell’Iliade il nostro amico Ulisse non ci fa proprio una bella figura. L’uomo dal multiforme ingegno prende bastonate il povero Tersite per una battuta e uccide Palamede per vendetta. Giusto per dirne qualcuna.

Un particolare curioso dell’Iliade è l’introduzione dei personaggi. Facciamo un esempio.
Achille e Menelao si incontrano.
Achille: «Salute, prode fratello di Agamennone»
Menelao: «Salute a te, figlio di Peleo»
A: «Quali novità mi porti, valoroso Atride?»
M: «Nulla di cui tu ti debba preoccupare, piè veloce»


Andando avanti così per una mezz’ora senza mai chiamarsi per nome.

Il fatto che per tutti i 16.000 versi vengano costantemente ricordate parentele, nomignoli, soprannomi, non è dovuto ad un improvviso attacco di arteriosclerosi da parte di Omero, quanto alla necessità, da parte dei vari cantori, di dover ricordare a memoria l’intero poema e questo espediente li aiutava egregiamente.
Laddove però la memoria falliva non c’era problema, visto che, almeno fino alla morte di Alessandro Magno, nessuno si era preso la briga di mettere nero su bianco l’opera. Ovviamente tutto ciò creava qualche disagio, come il fatto che ogni polis greca avesse una sua versione dell’Iliade che tendeva a dare maggiore spazio all’eroe locale.


Ma tutto ciò che c’entra con la viabilità stradale?
Mica crederete davvero che tutti i re Achei armassero il più grande esercito dell’antichità e una flotta di 1186 navi per una questione di corna? Se fosse così l’Iliade dovrebbe essere il poema fondativo degli avvocati divorzisti, non della Grecia.
La questione è molto più semplice: Troia controllava lo stretto dei Dardanelli e faceva pagare il dazio a chiunque vi si trovasse a passare da quelle parti, cioè i Greci. Ancora oggi le Autostrade italiane, in ricordo del mito omerico, ogni 1 gennaio aumentano il pedaggio.


Quindi Troia è esistita davvero? Achille, Diomede, Paride e compagnia bella sono personaggi reali?
La situazione è un po’ complicata. Fino al 1870 fior fior di accademici hanno affermato che quello di Omero era solo un mito. Un bel giorno però spunta fuori un certo Heinrich Schliemann, un commerciante tedesco senza alcuna base scientifica ma con una passione per i miti Greci. Ebbene cosa fa il nostro Schliemann un bel giorno? Mette l’Iliade sotto l’ascella a mo’ di baguette parigina e parte per la Turchia alla ricerca delle rovine di Troia, basandosi solo sulle descrizioni di Omero.

Il mondo degli archeologi si comporta come una qualsiasi lobby quando ogni due o tre secoli spunta una persona con un’idea geniale (se vi è subito venuto in mente Steve Jobs cliccate qui), cioè viene deriso con frasi del tipo: «Ma dove vai che non hai le conoscenze adatte per iniziare uno scavo?», «Ma chi ti credi di essere?», «Ma, secondo te, non ci avevamo già pensato?», «A sto punto domani prendo Topolino e parto alla ricerca di Paperopoli». Roba così, insomma.


Essendo a quel tempo i tedeschi ancora un popolo simpatico, non se la prende a male e con una pazienza certosina, seguendo solo ed esclusivamente il poema omerico, scopre la bellezza di ben nove Troia (al singolare, per evitare facili battute). Non solo, riporta alla luce il cosiddetto tesoro di Priamo, un corredo funebre regale chiamato così più per marketing che per fedeltà storica.

Ovviamente gli scavi di Schliemann provocano non pochi disturbi gastro-intestinali agli accademici di tutto il mondo che archiviano la vicenda come “fortuna del principiante”. Fatto sta che nove anni dopo, basandosi questa volta sulla Periegesi della Grecia di Pausania, riporta alla luce le rovine di Micene, avvelenando definitivamente le future generazioni di archeologi.


E dunque cos’è che ci insegna l’Iliade?

Anche se qualcuno ha voluto vedere nello scontro Achei-Troiani la solita contrapposizione occidente-oriente, il poema omerico, composto decine di secoli fa, va oltre questa visione del mondo da minus habens. L’Iliade non è solo il poema fondativo della Grecia, ma dell’intera umanità perché Omero (o chi per lui) ha saputo distribuire indicibile crudeltà e commovente generosità in entrambe le fazioni. Il sangue che scorre nell’Iliade, che sia Acheo o Troiano, è comunque rosso e i morti si piangono nello stesso identico modo. Nell’Iliade non troverete mai odio ingiustificato, semmai vendetta; non c’è alcuno scontro di civiltà, Menelao, se gli ridavano Elena, se ne tornava a casa sua dicendo «Vabbè, abbiamo scherzato»; gli uomini e le donne dell’Iliade, nel limite del contesto, dimostrano lealtà, semmai chi si comporta da carogna sono proprio gli dei che parteggiano per l’uno o l’altro schieramento.
E poi cosa sarebbe la letteratura senza l’Iliade? Virgilio sarebbe stato ricordato come l’Apicella di Augusto; Dante avrebbe fatto l’impiegato del catasto; Petrarca, Ariosto e Tasso si sarebbero dovuti svegliare alle quattro del mattino per controllare i peperoni rossi insieme all’omino della pubblicità della Conad.
Già, perché Omero ha influenzato addirittura chi non ha letto nessuna delle sue opere, è come se, in un certo senso, vivesse dentro di noi, facesse parte della nostra identità, non settentrionale-meridionale-occidentale-orientale, ma semplicemente umana perché nei ventiquattro libri dell’Iliade troviamo amore, guerra, pace, spionaggio, psicologia, religione… vale a dire la summa di tutti i generi letterari che si formeranno nei secoli a venire. E se l’uomo non si distingue per la capacità di scrivere e raccontare storie, allora per cosa è diverso dal resto delle creature?



In alternativa la lezione che possiamo cogliere è che non ci conviene litigare per questioni stradali: rischiamo di tornare a casa dopo dieci anni con un cavallo di legno carico di ciclisti incazzati come bisce. 


domenica 9 febbraio 2014

Now avaible on Facebook

Piccola comunicazione di servizio: da oggi Zero in Condotta ha anche una pagina Facebook raggiungibile all'indirizzo https://www.facebook.com/ZerinCondotta.
Ringrazio tutto lo staff che ha collaborato per far sì che questo accadesse, quindi mi ringrazio da solo. 

Se proprio non ce la fate a cambiare pagina e mettere mi piace dalla pagina Facebook vi toglie troppe energie, qui di fianco c'è un simpatico box dove potete dimostrarmi tutto il vostro affetto (ma con moderazione).






giovedì 30 gennaio 2014

Dante e Beatrice: una simpatica storia di stalking

Ero un bambino timido. E lo sono ancora. Timido. Non bambino. Così, a prima vista (d’emblée mi pareva un po’ troppo fighetto) alla domanda «Qual è il problema di un bambino timido?», uno sprovveduto tendenzialmente risponde «Bella domanda: la timidezza!». Sbagliato. Il vero problema che affligge ogni bambino timido nel mondo non è la timidezza, ma una piaga più pericolosa della siccità in Sicilia, più fastidiosa della sabbia nel costume. Sto parlando ovviamente dei Parenti del Bambino Timido (da questo momento PBT). Che poi uno potrebbe anche dire: «Eh, e che sarà mai!», tuttavia, se da piccoli siete stati timidi, voi e solo voi capire bene la gravità della cosa e che forse forse a Mosè sarebbero bastati una dozzina di PTB ben addestrati per convincere il faraone non solo a lasciar liberi gli Ebrei, ma aggiungere all’offerta anche una batteria di pentole in acciaio inox 18/10, un televisore LED da 24’’ e una bicicletta elettrica.

Tutto nasce da un grosso equivoco millenario: per i PTB la timidezza è una parola sconosciuta, alla base di tutto ci deve essere per forza una patologia che spiega tutto. La gravità della presunta patologia è inversamente proporzionale al grado di parentela, cioè più il PTB è alla lontana, maggiori saranno le speculazioni. Per capire appieno questo concetto è necessario dare uno sguardo alla personalissima scala dei valori dei PTB:
  1. Genitori: «È poco sveglio/a»
  2. Nonni: «È colpa dei genitori: è pieno/a di complessi»
  3. Zii e zie di I grado: «Soffre di disturbo dell’attenzione»
  4. Zii e zie di II grado: «È sociopatico/a»
  5. Zii e zie di III grado: «Ha una qualche rara forma di autismo»
  6. Parenti che vedi solo in occasione di nascite e dipartite: «È gay»

Con questo abbiamo dimostrato non solo che i nostri parenti non capiscono un tubo, ma che sono anche un pochino omofobi.

Dal canto suo il timido non è che si impegni più di tanto nel dimostrare che i PTB hanno torto, anzi con il suo comportamento sembra avvalorare le tesi complottiste dei suoi parenti. Per permettere ai genitori di capire se la propria creatura è solamente timida, prima di imbottirlo di Ritalin e comprare la Mercedes nuova allo psicologo, manco sto blog fosse un inserto di Donna Moderna, vi presento i sintomi della timidezza:
  • Il timido non ammette di essere timido. È la prima regola del Fight Club
  • Il timido è un incrocio fra Mel Gibson in Ipotesi di complotto e un qualsiasi pollo di allevamento che d’estate se ne va in Costa Azzurra con i soldi di papino: è convinto che l’intera volta celeste ruoti solo ed esclusivamente intorno a lui. Questo si evince soprattutto per strada: per il timido qualunque passante lo guarda in modo strano. Tra l’altro il timido, essendo troppo concentrato su di sé, è l’ultimo ad accorgersi di quello che sta succedendo intorno, per cui, se a un tratto tutti si voltano nella sua direzione, è convinto di essere perseguitato, non notando assolutamente il dirigibile in fiamme alle sue spalle che sta precipitando su un asilo nido adiacente a un rifugio per cani maltrattati e a una casa di cura per reduci di guerra
  • Il timido non fa amicizia. Nemmeno a un raduno di boy-scout, nemmeno se catapultato in mezzo ai papaboys, nemmeno a un incontro degli alcolisti anonimi
  • Il timido è il candidato ideale per diventare funzionario della CIA o capo di Cosa Nostra. Non parla mai, manco se gli infili le schegge di bambù sotto le unghie. Tutt’al più gli si possono strappare dei mugugni da interpretarsi come «sì» se sono in tono crescente, «no» se sono in tono calante

Adesso, messa così, pare che la vita di un ragazzino timido sia difficile o che comunque faccia proprio schifo. Non è del tutto vero, infatti ci sono un mucchio di vantaggi nell’essere timido, per esempio, da statuto del CONI, sei automaticamente escluso da qualsiasi gioco fra ragazzini che comporti l’uso degli arti inferiori e superiori. Che per voi sembra poco, ma per me, che ho i piedi in perenne autogestione, è un bel gesto. 
E poi devo dire la verità, avevo un sacco di ragazze: Daniela e Anna alle elementari; Maria, Silvia e Caterina alle medie; Giovanna, Ilenia, Loredana, Elisa alle superiori. Ovviamente il fatto che nessuna avesse la benché minima idea di chi fossi e che mi fossi proclamato motu proprio loro fidanzato è un dettaglio del tutto trascurabile.


Va bene, va bene, vi concedo che tutto ciò possa sembrare appena appena patetico, tuttavia che mi dite di uno che scrive un libro interamente dedicato ad una donna, per di più sposata, che con molta probabilità non l’ha mai guardato nemmeno di striscio (è un eufemismo)? No, non è la mia autobiografia ma una delle opere più importanti di tutta la letteratura mondiale: la Vita nuova di Dante Alighieri.

La Vita nuova è un prosimetro (mezzo poesia e mezzo prosa, per capirci) composto da 42 capitoli e 31 poesie, ma è soprattutto una via di mezzo fra un’opera autocelebrativa, un trattato di poesia e un saggio sullo stilnovismo. In pratica è una raccolta di poesie che Dante ha scritto in onore della sua musa ispiratrice che vanno dal 1283 al 1291, anno successivo alla morte di Beatrice. Come detto precedentemente, quest’opera ha diversi caratteri autocelebrativi, per cui ogni tanto Dante lancia qualche profezia a caso, così, giusto per fare lo splendido, ma noi sappiamo che il Poeta bara perché alcuni componimenti risalgono almeno al 1294. Ti piace vincere facile, eh?
Nella Vita nuova troviamo tutta la storia di Dante e Beatrice raccontata con dovizia di particolari e a tratti talmente sdolcinata che si fa fatica a staccare le pagine l’una dall’altra dalla melassa che le appiccica.


A dire la verità, l’opera, ad una prima lettura, sembra suggerire un’unica cosa: Dante era uno stalker maniaco che, fosse nato qualche secolo dopo, avrebbe giustamente passato una decina d’anni in carcere, mentre Beatrice sarebbe saltata da una trasmissione pomeridiana all’altra con il titolo in sovraimpressione: «Io, vittima di un uomo ossessionato da me».
Prima però di arrivare a conclusioni affrettate, vediamo nel dettaglio cosa è successo.


Dante incontra per la prima volta Beatrice all’età di nove anni e nove mesi, mentre lei ne ha nove e tre mesi. La precisione del Poeta è dovuta, con molta probabilità, non tanto alle cure di fosforo che gli faceva fare la madre, quanto alla simbologia numerica che ritroveremo anche nella Commedia: tre e i suoi multipli richiamano la Trinità.
Dopo questo primo incontro i due non si vedranno per la bellezza di nove anni.
Rimanga fra noi, personalmente il fatto che passi tutto sto tempo fra un incontro e l’altro a me ha sempre lasciato un po’ perplesso. Stiamo parlando della Firenze di fine di Duecento, cioè una specie di paesotto dove tutti si conoscevano, soprattutto le persone più importanti e Folco Portinari, il padre della fanciulla, era uno dei banchieri più influenti della città, per di più legato a doppio filo ai Medici.


Che fine fa allora Beatrice per la bellezza di nove anni? Va in un collegio svizzero? Rapita dall’Anonima Sequestri? Scappa con Scientology? Erasmus in Spagna? Rave particolarmente lungo a Ibiza?
Non ci è dato saperlo, fatto sta che la ragazza riappare a Firenze quando ha compiuto 18 anni. Giusto in tempo per prendere la patente.


Per evitare che rimaniate delusi dall’evolversi della storia, è necessario fare alcune precisazioni:
  • Dante e Beatrice non erano sposati
  • Beatrice fu data in moglie a un certo Simone de’ Bardi, un ricco banchiere dolce e sensibile come una piantagione di cactus
  • Dante invece si sposò con Gemma Donati, a mio avviso, santa donna che avrebbe voluto mandare suo marito a far compagnia a Beatrice. Dopo morta. Del resto provateci voi a convivere con uno che tutto il giorno non fa che dire: «Ah, com’era bella Beatrice», «Ah, com’era dolce Beatrice», «Ah, come faceva bene la pasta e patate Beatrice», «Ah, come stirava bene le camice Beatrice» e via dicendo

Insomma, Dante si trovava nella cosiddetta friendzone, l’incubo di qualsiasi adolescente in età puberale e che si potrebbe tradurre con la locuzione: non-te-la-do.

Ma proseguiamo con la Vita nuova.

Il primo componimento che apre l’opera è A ciacun’alma presa e gentil core che riporterò di seguito non tanto per amore nei confronti della cultura, quanto per una provvidenziale assenza di diritti d’autore.

A ciascun'alma presa e gentil core
nel cui cospetto ven lo dir presente,
in ciò che mi rescrivan suo parvente,
salute in lor segnor, cioè Amore.
Già eran quasi che atterzate l'ore
del tempo che onne stella n'è lucente,
quando m'apparve Amor subitamente,
cui essenza membrar mi dà orrore.
Allegro mi sembrava Amor tenendo
meo core in mano, e ne le braccia ave a
madonna involta in una drappo dormendo.
Poi la svegliava, e d'esto core ardendo
lei paventosa umilmente pascea:
appresso gir lo ne vedea piangendo.

Ovviamente a questo punto avrete capito che questo non è un blog serio sulla letteratura, per cui, se siete arrivati fin qui nella speranza di trovare la parafrasi della poesia per il compito di domani, mi dispiace darvi una delusione. Tanto Google ormai mi ha già conteggiato la vostra visita (vivo di soddisfazioni minime).

Se state ancora leggendo, avrete notato che il titolo del componimento è uguale al primo verso, questo perché nel Medioevo non c’era ancora l’usanza di attribuire un titolo alle poesie (segnatevelo, perché fa sempre effetto alle interrogazioni).


Ebbene Dante, il più grande scrittore di sempre (e se dite il contrario vi stacco la testa con un machete), apre la Vita nuova manco fosse un romanzo urban fantasy: sta dormendo caldo caldo nel suo lettuccio quando all’improvviso appare Amore, con la maiuscola («l’articolo è muto», come direbbe Django). Il ragazzo però non se lo immagina come un angioletto svolazzante, anzi addirittura si spaventa perché in una mano tiene il cuore palpitante di Dante, nell’altra invece c’è Beatrice che dorme. Ad un certo punto Amore sveglia la donna e le dà da mangiare il cuore, subito dopo i due volano verso il cielo piangendo.

Non esistendo ancora gli psicologi, Dante, nell’incipit, chiede consiglio ai suoi “colleghi” poeti riguardo l’interpretazione del sogno. A rispondergli è l’amico di sempre Guido Cavalcanti che, dati i tempi (e forse anche per delicatezza), non gli dice «Fra’, non so che roba ti fumi ma la prossima volta che ti capita per le mani avvisami», ma scrive il componimento Vedeste, al mio parere, onne valore che può essere agevolmente riassunto con l’ovvietà: «Secondo me, alla fine la ragazza muore».
Come tutte le liriche della Vita nuova, anche qui alla fine troviamo un commento dello stesso Dante che spiega non solo le circostanze che l’hanno spinto a scrivere, ma anche alcune nozioni di carattere stilistico.

Giusto per rimarcare la fissazione del Poeta per il numero tre, anche quest’opera può suddividersi in tre parti: nella prima Beatrice gli concede il saluto; nella seconda Beatrice non gli concede il saluto; nella terza non sappiamo se Beatrice glielo concede o non glielo concede perché nel frattempo è passata a miglior vita.

Mi rendo conto che la storia del saluto a noi possa sembrare un po’ paranoica e già vedo il sorrisino di alcuni di voi a dire: «Hehe, che imbranato!». Tuttavia, amici miei, le cose non sono tanto cambiate, visto che conosco gente che si fa venire gli scompensi se la persona che gli piace non commenta la loro pagina Facebook. Ecco, è sparito il sorrisino.

Che poi in realtà la faccenda del saluto è un ciccinino più profonda delle canzoni di Alessandra Amoroso condivise da YouTube, infatti l’atto di “salutare” per gli stilnovisti era inteso anche, e soprattutto, come l’atto di portare salvezza. Ma questo lo vedremo più avanti.


Come anticipato, a un certo punto Beatrice decide di togliere il saluto a Dante e in effetti non possiamo darle torto: il ragazzo praticamente non le ha mai parlato dal vivo, manco un bigliettino, un pizzino, un sms, una strusciata di gomito. Si limita ad indirizzarle poesie e farle circolare per tutta Firenze. Insomma, inquieterebbe chiunque.

Tuttavia non è questo il motivo che spinge Beatrice a non fare “ciao ciao” con la manina al nostro eroe, che ci crediate o no è esattamente il contrario. Infatti, ancora una volta, gli compare Amore (Firenze all’epoca aveva molto in comune con Amsterdam) che gli dice che a forza di parlare di Beatrice, il marito di lei poteva anche sentirsi legittimato a spezzargli gli alluci (Dante lo dice in maniera leggermente più poetica), per cui gli propone di indirizzare i suoi componimenti a due donne “schermo”, cioè di far finta che l’oggetto delle sue poesie siano altre due poverette che si trovano invischiate in questa storia senza sapere né perché né per come.


Possiamo dire essenzialmente che, almeno fino alla Commedia, Dante potrebbe definirsi un “poeta d’amore”. Il suo problema però consisteva nel non capire un accidente di psicologia femminile, ma su questo è indubbiamente in buona e numerosa compagnia. Il Sommo infatti, credendo di fare un atto gentile, fa salire i 5 minuti a Beatrice che gli dà ancora meno confidenza sia perché non è più l’oggetto delle sue liriche, sia perché col suo comportamento ha provocato non pochi problemi alle donne “schermo”. 

Come fai fai sbagli, insomma.


Con l’ingresso delle donne “schermo” si apre la seconda parte della Vita nuova, in cui Dante comincia l’opera di riconquista della sua musa e che contiene Tanto gentile e tanto onesta pare su cui non spenderò nemmeno due parole. Poi non dite che non vi voglio bene.

Come va a finire la storia? Beatrice gli ridà sto benedetto saluto?

Non lo scopriremo mai, visto che la giovane muore (probabilmente di parto).
Naturalmente il Poeta è disperato ma a quanto pare si riprende abbastanza presto dato che dopo poco è già innamorato di una donna “gentile”. Sull’attributo “gentile” Dante non fornisce ulteriori spiegazioni ma vi lascio immaginare cosa abbiano potuto dire i critici a proposito.
In verità la sbandata dura abbastanza poco, infatti il Sommo capisce che l’unica donna degna di essere lodata è Beatrice e arriva alla conclusione che finché non sarà all’altezza non scriverà più di lei, anticipando la scrittura della Commedia.


THE END

Se state tirando un sospiro di sollievo perché almeno Dante aveva una vita sentimentale più disastrata della vostra, vi devo chiedere di ritornare in apnea.

Il più grande poeta di sempre (ho ancora il machete a portata di mano) non era così imbranato quanto voleva far credere.

Partiamo innanzitutto dal fatto che a Firenze all’epoca potevano esserci, che so, per lo meno 50-60 ragazze di nome Beatrice. Ebbene, Dante non dice mai a quale di loro si sta rivolgendo. Il nome di Beatrice Portinari ce lo suggerisce Boccaccio, sulle base di alcune dicerie di paese, quindi niente di profondamente scientifico.


E con ciò?

Proviamo a considerare tutta la manfrina di Beatrice come una grande, immensa, allegoria (state seduti, non vi tiro fuori Auerbach). Beatrice significa letteralmente “colei che porta beatitudine” e il suo saluto per Dante è importantissimo perché “saluto” deriva dal latino salus, ovvero salvezza.
Quello che sto cercando di dire è che forse Dante non ha amato alcuna donna di nome Beatrice, ciò che lui ha cantato per tutta la vita è stato invece un ideale, un obiettivo da perseguire a qualsiasi costo, anche mettere in piedi il poema più articolato, colto e universale che la storia ricordi.
C’è però ancora qualcosa che non quadra: se Dante vuole raggiungere Dio, perché non loda lui direttamente invece di costringere gli studenti di ogni ordine e grado a far finta di conoscere almeno mezza di una delle sue poesie?

La risposta la troviamo nella teologia medievale. Dante, e con lui tutti i poeti della sua generazione, ritenevano che rivolgersi direttamente a Dio fosse un atto di superbia, però potevano lodarlo “di riflesso”, cioè lodando ciò che di buono ha creato, nel nostro caso Beatrice (o “l’idea” di Beatrice). Ovviamente sta cosa la potevano fare Dante e gli stilnovisti, quindi se vi beccano a sbavare sul sito di Raoul Bova o di Eva Henger non potete giustificarvi dicendo: «No, è che stavo lodando il Signore».

Sinceramente questo tipo di interpretazione non mi piace per due motivi:
  1. Perché ho l’animo di una zitella inglese di epoca vittoriana e quindi, nel bene o nel male, mi aspetto sempre il lieto fine
  2. Perché questa interpretazione tende a fare cadere le braccia a chiunque si avvicini alla Commedia, in quanto appena si prende il libro dallo scaffale da qualche parte spunta miracolosamente un filologo o un letterato che esclama: «Beh, lo vuoi leggere, leggilo, ma sappi che senza un adeguata preparazione non riesci a cogliere tutte le sfumature che il Poeta ha voluto…»

Allora sapete che vi dico?

Forse Beatrice è solamente l’idea di beatitudine, Laura la voglia di gloria di Petrarca, Fiammetta il desiderio di Boccaccio di diventare pompiere (non mi venivano altre interpretazioni). Tuttavia quando vedete un bambino che vi chiede cos’è la Divina Commedia, non attaccate un pippone sullo stile poetico medievale, sui provenzali, sulla Scolastica e via dicendo. Semplicemente, dite che si tratta della bellissima storia di un uomo per vedere almeno un’ultima volta l’amore della sua vita decide di attraversare l’Inferno e, una volta incontrata e sconfitta la parte più oscura di sé, sale su, fino al Paradiso, fino a Beatrice, perché, in fin dei conti, la beatitudine in questo consiste, nel poter vedere il volto della persona amata.



E per l’amor di Dio, tenete i vostri bambini timidi lontano dai parenti! Non si può mai sapere che un domani vi scrivano un capolavoro.


sabato 14 dicembre 2013

Il giorno di Parini: a spasso con Lapo

Non ho molta simpatia per le feste comandate. Dice: «Ecco il solito post prenatalizio in cui: “ma che palle il Natale/la Pasqua/l’Epifania/la festa della mamma/la sagra dei gargarozzi in umido…”». No, no, no amici miei, provenendo da una ferrea formazione di tipo scientifico, il mio scarso trasporto nei confronti delle suddette festività è rigorosamente motivato. Che poi se vogliamo essere precisi non è la festa in sé per sé che mi dà urto, quanto gli annessi e connessi. Per praticità cronologica prendiamo, per esempio, il Natale. Durante questa sentitissima occasione, riaffiorano dal nostro albero genealogico semisconosciuti parenti che credevamo avessero fatto la fine di qualche raro protozoo dell’Antartide estinto per via dello scioglimento dei ghiacciai. Alcuni di loro l’ultima volta ti hanno visto a fecondazione appena avvenuta, quindi non è per cattiveria, ma è che proprio non sanno che domandarti, per cui le frasi di rito sono solitamente su questo tono:
  • «Ma come sei cresciuto!»
  • «Ma come sei ingrassato/a!» (Lo si dice a prescindere, anche se sei appena stato liberato dall’Armata Rossa da un campo di concentramento)
  • Dai 6 ai 18 anni: «Come va la scuola?»
  • Dai 18 ai 21 anni: «Allora, come va con l’università?»
  • Dai 21 ai 25 anni: «Quando abbiamo deciso di laurearci?»
  • Dai 25 ai 30 anni: «Insomma, quando lo troviamo un bel posto di lavoro?»
  • Dai 30 ai 33 anni: «Stiamo ancora aspettando che ci fai conoscere la tua ragazza/il tuo ragazzo?»
  • Dai 33 ai 35 anni: «Volete sposarvi o no?»
  • Dai 35 ai 37 anni: «La cicogna quando arriva?»

Arrivati a quest’ultima fase potete anche rilassarvi, infatti, anche se la tentazione è forte, per una questione di tatto non vi chiederanno mai: «Quand’è che ti decidi a tirare le cuoia e riposarti in una bella cassa di mogano e fare largo ai giovani?».

Benché l’interrogatorio della zia Concetta sia oltremodo irritante, c’è qualcosa che, almeno personalmente, mi fa salire una voglia di appiccare il fuoco all’albero di Natale e usare le palline come bottiglie Molotov. Il personaggio di cui sto parlando è una piaga che si ripresenta puntuale tutti gli anni, fastidioso come quando siamo appena tornati dalla spiaggia e le cosce strusciano l’una contro l’altra… so che mi capite. Mi riferisco ovviamente a lui: il TUA, ovvero il Tizio che Urla: “Ambo!”. Si tratta dello zio/cugino/nonno (comunque per una legge non scritta che la loro setta si tramanda di generazione in generazione deve essere per forza di sesso maschile) che non appena estrai il primo numero a tombola urla a squarciagola: “Ambo!”, fra l’ilarità generale. In realtà non è che gli altri ridano per l’originalissima battuta, è solo che la fa tutti gli anni e pare brutto non assecondarlo.
Comunque non dovete disperare, perché in ogni famiglia ce n’è uno e se a te non dà tutto questo fastidio fatti un esame di coscienza: perché in questo caso il TUA sei proprio tu!


Tuttavia le feste comandate sono nulla rispetto a quelle “extra” ed in particolar modo ai matrimoni. Le modalità di svolgimento di un matrimonio sono la ragione principale per cui io sono favorevole alla convivenza fra individui di sesso opposto, dello stesso sesso, fra cani e gatti, fra pecore e lupi, fra extraterrestri, insomma di qualsiasi tipo: basta che non vi sposiate. La prima cosa discutibile di un matrimonio è la lista di nozze: la versione per adulti della letterina a Babbo Natale. Per ovviare a questo inconveniente, dalle mie parti si usa la busta che funziona secondo un principio che dovrebbe essere incluso nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo: ti-do-i-soldi-così-ti-ci-compri-quello-che-vuoi, diminuendo in tal modo la popolazione di imbarazzanti centrotavola in purissimo cristallo di Boemia. Come tutte le cose belle però, anche la busta segue il fenomeno noto in termodinamica come la Curva di Pieraccioni. È in pratica un postulato che spiega la degenerazione naturale delle attività umane, come i film di Pieraccioni appunto: all’inizio erano divertenti, poi sono diventati simpatici, e alla fine sono solo una scusa per far lavorare Ceccherini.
Come dicevo, anche la busta ha seguito questo andamento, per cui da donazione spontanea è diventata quasi una tangente, con gli sposi che ti mettono una bomba sotto al tavolo del ricevimento se non paghi in tempo.
Per capire quanto questa usanza sia radicata, basti pensare che molte coppie fanno affidamento solo sulla busta per pagare il ristorante, inutile dire che scommettere un rene in una bisca clandestina di Shanghai comporterebbe meno rischi. Sebbene ci sia infatti una sorta di tariffario (dagli 80 ai 150 euro a persona), cercare di pronosticare l’importo del totale delle buste è un’impresa disperata anche per il mago Otelma (che è tutto dire), dato che ci sono anche i franchi tiratori. Per questo motivo si procede come alle Olimpiadi: non si prende in considerazione il punteggio più alto e quello più basso, cioè, nel nostro caso, non si calcolerà né la zia che viene da sola e vi regalerà settemila euro, né vostro cugino di sedicesimo grado che verrà con i figli, i mariti e le mogli dei figli, i nipoti, qualche amico e una delegazione del comune di Borgo Santo Spirito con sindaco, banda e gonfalone e che metterà nella busta la bellezza di quindici euro, accompagnata dal biglietto di auguri: «Non li spendere tutti subito, come fai di solito!».


Il vero problema dei matrimoni è però uno solo: la loro durata biblica. È risaputo infatti che nel corso dei ricevimenti di nozze si altera il continuum spazio-temporale, per cui una «cerimonia giusto per i parenti e gli amici più stretti» potrebbe rilevarsi un colossale buco nero da cui uscirete invecchiati e alle soglie dell’obesità. Ad ogni buon conto, c’è la legge che vi tutela: se un matrimonio dura più di otto ore avete tutto il diritto di chiamare i Carabinieri e denunciare gli sposi per sequestro di persona. Controllate il Codice Penale, se non mi credete.
Vi lamentate perché ormai il buffet si protrae da diciotto ore e avete anche dato un nome alle vesciche che vi sono spuntate sui piedi? E allora che dovrebbe dire il precettore che accompagna il giovin signore nel corso del Giorno di Parini?


Il giorno è l’opera più conosciuta di Giuseppe Parini, se non la trovate subito in libreria è perché dovete andare dal commesso e sussurrargli una parola d’ordine all’orecchio. A questo punto si avvicinerà allo scaffale dei libri di Faletti e, spostatone uno, si aprirà una libreria segreta catalogata come genere: Libri ambientati in una sola giornata ma che sono pesanti come una comitiva di soprano russe. Ovviamente qui troverete anche l’Ulisse di Joyce. Naturalmente voi non sarete stupiti tanto dal fatto che alla Feltrinelli abbiano una libreria segreta, quanto nello scoprire che una delle opere più importanti dell’Illuminismo italiano è in vendita a tre euro, mentre l’inarrivabile capolavoro di Carlotta Ferlito (quella di Mtv): Cosa penso mentre volo, costa 15 euro.
Ma sorvoliamo.


Cosa dire di Giuseppe Parini che non potete comodamente trovare su Wikipedia? Innanzitutto che somigliava a Skeletor di He-Man; poi possiamo aggiungere che era membro dell’Accademia dei Trasformati di cui faceva parte anche il conte Giuseppe Maria Imbonati. Il nome vi dice qualcosa? Bene, si tratta di niente poco di meno che del padre di Carlo Imbonati, futuro compagno di Giulia Beccaria, la mammina di Manzoni. E Parini sarà proprio precettore di Carlo. Lo so, vi state chiedendo se Parini fosse diventato un intellettuale di tale levatura senza queste frequentazioni e la risposta è: Mah!
Ad essere onesti Giuseppe Parini il suo posto nell’olimpo degli intellettuali che parlano con la R moscia se l’è conquistato, visto che non avendo le risorse economiche per studiare fu costretto a prendere i voti e a fare il precettore per Gian Galeazzo Serbelloni (no, non sono quelli di Fantozzi). Il servizio a casa Serbelloni oltre a fare di Parini un martire (non ne ho idea ma, dando ripetizioni, uno che si chiama Gian Galeazzo me lo immagino difficile da gestire), gli consente di osservare da vicino la vita della nobiltà dell’epoca, ovvero la materia prima di cui è costituito Il giorno.


Il giorno è un poema didascalico in endecasillabi liberi che narra la giornata del giovin signore, un rampollo di una nobile famiglia, attraverso gli occhi del suo precettore che, invece di dargli una testata sulla gengive come desidererebbe, ne loda le “gesta”. L’opera è divisa in tre parti: Mattino, Mezzogiorno e Sera, a cui si aggiungono successivamente Vespro e Notte.
Dato che scrivere ogni volta il giovin signore è abbastanza logorante, per praticità daremo un nome al protagonista del poemetto e per evitare che qualcuno possa offendersi, gliene daremo uno assolutamente di fantasia: Lapo. E visto che si tratta di un nome da cane lo chiameremo Lapo Ilkann.


Nel corso del Mattino apprendiamo che Lapo Ilkann si sveglia di buon’ora: verso le undici, undici e un quarto. A colazione può decidere se prendere il caffè (se ha problemi di peso) o la cioccolata, se deve digerire (non me lo chiedete, anch’io non ho capito niente della storia della cioccolata). Nel corso della mattinata riceve la visita del maestro di violino e di francese e leggerà alcuni libri. Parliamoci chiaro: a Lapo del francese o del violino non gliene frega niente, semplicemente vanno di moda e lui è un tipo cool, il Lapo. Lo stesso dicasi per le letture: Ilkann conosce solamente quelle opere di cui si parlerà in uno dei salotti buoni che frequenta, insomma la sua è una cultura di facciata, concetto che per noi, abituati a Porta a Porta, è difficile da seguire.

Nel Mezzogiorno (o Meriggio nelle successive versioni), vediamo Lapo andare a casa di una dama sua “amica”. Qui Parini contesta l’usanza del cicisbeismo. Il cicisbeo era una sorta di cavalier servente che accompagnava una donna sposata nel corso delle sue uscite pubbliche e private… anche molto, molto private. La particolarità del cicisbeismo consisteva nel fatto che l’uomo era sempre più giovane della donna. «Ah, il toy boy!», esattamente, miei cari fans di Demi Moore e Lori del Santo.
Bisogna dire che il ritmo del Giorno è abbastanza lento, per cui quando si arriva a questo punto lo studente che è stato costretto a leggerlo dopo ripetute minacce di morte si aspetterebbe un po’ di carne al fuoco. Macché, non si vede nemmeno un calzino! A tavola la dama parla di vegetarianismo e di un episodio che merita la nostra attenzione: la donna racconta di come ha dovuto cacciare il suo servo (padre di famiglia) perché ha osato dare un calcio alla cagnolina (la vergine cuccia) che lo aveva morso. Parini con sta storia del servo se la prende con quelli che su Facebook, appena leggono la storia di un cane abbandonato, scrivono: «Brutto bastardo, pezzo di m…, figlio di…» e poi parcheggiano sedici ore i figli in macchina per andare a giocare al Bingo.


Proseguendo con la narrazione arriviamo al Vespro, qui vediamo Lapo e la sua dama fare visita ad un amico ammalato. Ovviamente i due sono profondi come una pozzanghera in agosto, per cui l’amico potrebbe bellamente schiattare, la loro unica preoccupazione è lasciare il biglietto da visita al tipo per dimostrargli il loro interessamento. Poi vanno da una nobildonna vittima di crisi di nervi per farle una testa così con del bel gossip Settecentesco.

L’ultima parte del poemetto è la Notte, in cui Lapo e cicisbea vanno ad una festa in cui ci sono vari tavoli da gioco. Nel corso di questo capitolo il nostro Parini si toglie un bel po’ di sassolini dalla scarpa, ne approfitta infatti per prendere in giro i vari personaggi che compongono la nobiltà dell’epoca con i loro tic e i loro vizi. A ricevimento terminato Lapo Ilkann fa ritorno a casa per svegliarsi l’indomani per vivere altre fantastiche avventure (quest’ultima parte dovreste leggerla con il tono di voce di Peppa Pig).

Da questa stringatissima sintesi (vi assicuro che, benché breve, Il giorno è un mattone), capiamo che il poemetto di Parini è nient’altro che una critica, a volte ironica, a volte feroce, della nobiltà del Settecento che legge senza acculturarsi, che impara le lingue solo per moda, che “ama” gli animali ma disprezza gli uomini di rango inferiore. Insomma, nulla di nuovo sotto al sole, direbbe San Girolamo, Il giorno potrebbe essere riproposto pari pari al giorno d’oggi, basterebbe solamente rinnovare il guardaroba di Lapo e dei suoi compari.

La fonte da cui attinge principalmente il nostro autore è Il rapimento del ricciolo di Alexander Pope, poeta inglese contemporaneo di Parini, famoso soprattutto per una breve comparsata nel Codice da Vinci. Come Parini, infatti Pope tratta un argomento frivolo per farne un’opera epica. Tuttavia anche dietro al Giorno c’è lui: l’onnipresente Dante Alighieri. «Ancora?», sì, ancora.
Il poemetto è strutturato come una specie di anti-Commedia, un po’ come se Parini volesse dire: «Qua ci sta poco da ridere». Invece di assistere alla salvezza dell’anima del protagonista, qui vediamo come, col passare delle ore, Lapo scenda sempre più giù, senza speranza di risalita, non a caso Parini lo definisce: «Colui che da tutti servito a nullo serve». Ma del resto lo abbiamo chiamato Lapo apposta.


Perché dunque dobbiamo prenderci la briga di leggere Parini? Beh, mettiamola così: se siete dei sottopagati come il sottoscritto e vedete tutti i giorni raccomandati che vi scavalcano, non ve la prendete, anzi prendeteli per… vabbè ci siamo capiti.
In fondo nella vita ci vuole leggerezza, che poi è il motivo per cui grido: «Ambo!» non appena iniziamo a giocare a tombola.