venerdì 4 ottobre 2013

Catullo: il passero solitario

Qualche giorno fa sfogliavo tranquillo tranquillo una delle riviste di semiotica che sono solito comprare (adesso non mi ricordo se fosse Cioè o Girl Power) e, mentre leggevo un interessantissimo articolo dal titolo: «Come non rimanere incinta sfiorando il gomito del compagno di banco», mi è caduto l’occhio su un trafiletto che recitava più o meno così: «Una persona usa in media cento parole nella sua vita».
I successivi venti minuti li ho passati nella più profonda tristezza pensando a questo poveretto che si esprime solo con cento parole, poi ho capito che il discorso era generale.
E la tristezza è diventata disperazione.


Secondo un recente studio, mediamente un cane riesce a comprendere all’incirca un centinaio di parole (ho cercato l’articolo su Google per dare una solida base scientifica a questa affermazione, ma non l’ho trovato. Comunque VI GIURO che non l’ho sentito da Studio Aperto). Cosa significa tutto ciò?
Molto semplice: che probabilmente, così come esiste il giurassico, il cretaceo, il pleistocene e così via, esisterà un giorno il chihuahuasico e il pro-pro-pro-pro…nipote di Piero Angela (sì, immagino un futuro in cui ci sia ancora vera meritocrazia) dirà:


In questa era gli esseri umani si esprimevano con il vocabolario di un cane dislessico, bastavano i concetti base: “mamma”, “papà”, “cacca”, “pipì”, “manda questo msg a 10 persone per salvare un bambino affetto da unghia incarnita”.

Che, tra l’altro, vorrei vederlo in faccia sto medico fetente che non salva i bambini se non arrivano tot sms. 
Vabbè, ma questa è un’altra storia.


Per capire quanto la situazione sia grave, basta considerare che un dizionario a caso della lingua italiana contiene all’incirca 280.000 lemmi per tremila pagine: immaginate di dover scrivere, non dico l’Orlando furioso, ma la lista della spesa solo con le prime tre pagine.
A parte l’evidente disagio di avere il frigorifero pieno di roba con inizia con la A, potete capire che le difficoltà sono serie.


Adesso dovrei attaccare una filippica di nove pagine in cui dico che nei bei tempi antichi le cose andavano diversamente, che non si parlava mica come adesso, che i pensieri erano più profondi. Certo che le cose andavano diversamente: era molto peggio!
Partendo dall’epoca di Pascoli e andando a ritroso fino a Omero abbiamo un tasso di analfabetismo fra la popolazione pari solo alle interviste a bordo campo al termine delle partite di calcio o a un raduno degli ultimi trenta Ministri dell’Istruzione. Decidete voi.


Non siete convinti della bontà di questa affermazione? Credete che davvero nell’antica Grecia i pastori andassero in giro con la lira a declamare poesie? E il formaggio quando lo facevano allora?
In realtà il problema della povertà della lingua c’è sempre stato ed è appunto per ovviarlo che è nata la poesia e, soprattutto, la metafora.


Prendiamo un esempio di vita quotidiana: siete in metropolitana e la persona vicino a voi ha un alito talmente pestilenziale che vi sorge il dubbio che da qualche parte si sia rotta una conduttura del metano. Normalmente direste qualcosa del tipo:

Ohi bello, pigliati una mentina che per prendere fiato ho dovuto mettere la testa sotto le ascelle di quel giocatore di rugby.

Invece, con l’aiuto della metafora potreste dire:

Oh tu, che hai spalancato le porte degli Inferi aprendo il fetido pertugio da cui emetti favella, orsù, afferra lesto questo candido dono di Eolo, dominatore di venti, affinché non sia costretto a cercare asilo presso le madide braccia di quel discobolo che ha appena terminato di gareggiare.

Provocando non solo una ola in tutto il vagone, ma anche l’intervento d’urgenza della neuro.

Se però vogliamo essere precisi, bisogna dire che non sempre la poesia è sinonimo di metafora e viceversa. L’esempio vivente in tal senso è il grande poeta latino Catullo.

Gaio Valerio Catullo nasce a Verona l’87 a.C. Come facciamo ad essere così sicuri sulla data di nascita? Perché ce lo dice San Gerolamo nel Chronicon, una mastodontica cronaca universale affidabile quanto un editoriale di Alessandro Sallusti. Credo che ci siamo capiti.
Catullo proviene da una famiglia agiata, il padre è amico intimo di Giulio Cesare e Quinto Metello Celere, però lui odia la politica e, come ogni giovane ribelle, decide di prendere una decisione sofferta, le alternative erano due:
  1.  Andare in Tracia a lavorare come schiavo diciotto ore al giorno nelle miniere di salgemma
  2. Diventare un artista

Naturalmente intraprende la strada più difficile: diventare un artista.

A tale scopo parte per Roma e «dipinge paesaggi sotto la stazione Termini?», direte voi. 
No, no. 
Il giovane Catullo comincia a frequentare i circoli più influenti, più intellettuali, più mondani, più in, più cool, insomma il nostro poeta sembra dirci: «Ho detto che volevo fare il ribelle, mica il fesso…». 


A sua discolpa bisogna dire che all’epoca questi circoli erano frequentati da gente che si chiamava Asinio Pollione, Cornelio Nepote, Cicerone… insomma personaggi che nemmeno la fantasia più malata riuscirebbe ad immaginare mentre ordinano una bottiglia di champagne piena di bengala al Billionaire.

Proprio in questi ambienti Catullo conosce quella che poi diventerà la sua musa ispiratrice: Clodia.
Clodia è la sorella del tribuno Clodio (in famiglia non si erano sforzati molto sulla scelta dei nomi), donna dall’intelligenza straordinaria, coinvolta in una marea di intrighi e scandali, sposata con Quinto Cecilio Metello Celere, ma con una fila di amanti che nemmeno alle Poste il giorno della pensione, Cicerone in una sua orazione suggerisce che avesse addirittura una relazione incestuosa col fratello.
Insomma proprio una brava ragazza.


Da autentico pollo di allevamento, nato e cresciuto in una campana di vetro, Catullo se ne innamora perdutamente, credendo pure di essere ricambiato.
Manco a dirlo, il rapporto fra Catullo e Clodia è quantomeno burrascoso: lei, a cadenza quasi settimanale, precisa come la Wind quando ti deve scalare il credito, lo lascia e lo piglia come l’ultimo dei cretini, nel frattempo, ovviamente, sotto le sue lenzuola c’è più traffico che nel parcheggio di un centro commerciale sotto Natale.


Piccola digressione sui poeti neoterici.
I poetae novi o neoterici sono quei poeti dell’antica Roma che non hanno il benché minimo interesse né per la politica, né per la vita pubblica, quindi nelle loro opere trattano prevalentemente il tema dell’amore.
Lungi da me mazzolarvi crudelmente i gioielli di famiglia con concetti come la brevitas e il labor limae, voglio porre l’attenzione sulla vera caratteristica che accomuna questa categoria di poeti: muoiono tutti giovani. Vogliamo chiamarlo mal di vivere? Vogliamo dire che «muore giovane chi è caro agli dei»? Vogliamo chiamarla sfiga? Fate un po’ voi, ma io sono convinto che se Darwin avesse letto di come Catullo si comportava con Clodia, l’avrebbe chiamata solo in un modo: selezione naturale.

Fine della digressione.

Naturalmente il povero Catullo non è che nelle sue poesie può scrivere che se la intende con la sorella di un tribuno, tra l’altro pure ammogliata. Per questo motivo decide di attribuirle un nome fittizio: Lesbia, in onore della poetessa Saffo che proveniva dall’isola di Lesbo (l’introduzione di questa parola nel post farà probabilmente salire la percentuale di lettori adolescenti ottenebrati dal testosterone).

Le poesie di Catullo sono contenute nel Liber, la sua unica opera che si divide in tre parti:
  • Le nugae, ovvero poesie dal contenuto leggero
  • I carmina docta, perlopiù elegie di argomento impegnato
  • Epigrammata, la parte che a scuola viene un po’ snobbata, ma che scopriremo essere la più interessante

Leggendo l’opera di Catullo si evince che il pover’uomo probabilmente soffriva di disturbo bipolare: tu te ne stai lì a leggere il carme 7 in cui quasi ti commuovi per questo amore eterno e folle che nessuno potrà mai vincere, poi giri pagina e nel carme 8 lo senti dire: «Addio ragazza, ormai Catullo resiste, non ti cercherà».
E la cosa bella che va avanti così per tutti i 116 componimenti: emotivamente è come salire sulle montagne russe, che a un certo punto ti viene da dire: «Catullo e fai pace col cervello!».


Per quello che mi riguarda, Catullo l’ho sempre trovato un autore un po’ particolare per l’uso delle metafore. Prendiamo il carme 2, per esempio:

Passero, delizia della mia fanciulla,
col quale è solita giocare, che suole tenere in grembo,
cui suole dare, mentre si avventa, la punta del dito
e stuzzicare le pungenti beccate,
quando al mio fulgido amore
piace fare non so che piacevole gioco
e trovare un piccolo conforto per la sua sofferenza,
credo, perché si calmi allora la sua ardente passione;
oh potessi giocare con te come lei
e alleviare i tristi affanni del cuore!
...
Questo mi sarebbe tanto gradito quanto dicono che alla fanciulla
veloce Atalanta fosse gradita la mela aurea
che sciolse la fascia verginale a lungo negata.

Le battute sul passero di Lesbia a scuola sono seconde solamente a quella su L’infinito di Leopardi, eppure se leggiamo attentamente questo carme notiamo una cosa strana: Catullo usa la metafora del passero per descrivere un sentimento bello, limpido, non c’è assolutamente nulla di immorale, tuttavia lui, in qualche modo, decide di occultarlo.

«E allora? Lo fanno tutti i poeti».
Siamo d’accordo, ma c’è una cosa che non sapete di Catullo: avete fatto caso che a scuola non vi fanno mai comprare il Liber, ma al massimo un’antologia? Com’è che non vi hanno mai fatto leggere il carme 42, oppure il 56? E tutti quelli dedicati a Gellio che fine hanno fatto? Perché si dedica così poco tempo agli Epigrammata? È tutta una manovra della Chiesa, della Massoneria, degli Illuminati, degli extraterrestri?
Devo finirla di guardare Mistero.


Il fatto è che il nostro Catullo usa le metafore per parlare d’amore, ma quando deve attaccare qualcuno sembra di parlare con Sgarbi. Per darvi un’idea prendiamo il carme 80, in cui ho sostituito le parolacce con il pio bove di carducciana memoria:

Come puoi, Gellio, spiegare perché queste tue labbrucce rosee
divengono più candide della neve d'inverno,
quando alla mattina esci di casa o quando nel primo pomeriggio
delle lunghe giornate estive ti ridesti dal pigro riposo?
Per certo non saprei come avvenga: ma potrebbe esser vero, qualcuno lo sussurra,
che sei un divoratore di pio bove ch'esce dall'inguine di un uomo?
è così, di sicuro: lo gridano la schiena rotta di Vittorio,
pover'uomo, e le tue labbra segnate dal pio bove che hai succhiato.

A rileggerla sembra più oscena la mia versione.

Come potete capire siamo lontani dalle sottigliezze di Nevio e Orazio: Catullo è uno che se gli stavi sugli zebedei, tàc, ti faceva un bell’epigramma e passavi alla storia in termini non propriamente lusinghieri.

Tutto ciò dovrebbe farci perdere la stima per il nostro poeta? Assolutamente no! Catullo è come Kurt Cobain, è la rockstar della poesia latina: ha scritto cose d’amore, cose dissacranti e poi se s’è andato all’incirca a trent’anni. Nel senso che è morto, non che ha fatto l’Erasmus.
Quindi portate rispetto a questo grande autore e se vi state disperando perché (come me) a trent’anni non avete ancora combinato nulla, non vi preoccupate, c’è ancora tempo: Mozart è morto a trentacinque.

P.S.
Nel caso vi interessasse il Catullo hot, date un’occhiata ai carmi 6, 15, 16, 21, 23, 25, 32, 37, 39, 41, 42, 56, 74, 80, 88, 89, 94, 97, 98, 111. Ma non dite che ve l’ho suggerito io.


P.P.S.
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4 commenti:

  1. In effetti il pio bove ha fatto un certo strano effetto anche a me...diciamo che letta così diventa più che oscena inquietante :-/
    ... Comunque mi fai morì...

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    1. Hai ragione, in effetti le poesie sono come gli alcolici: è meglio che non le mischi insieme. :D

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  2. Mi sono sentito poco apprezzato:/
    Anche io l'ho messo in croce (letteralmente) e neanche un cenno :/
    Che dire! Mi ritengo indignato!

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