lunedì 7 luglio 2014

Una stanza tutta per sé: Amore, che libro c'è per cena?

Avere amici intellettuali non è per niente semplice. Tradizionalmente chi si interessa di Letteratura è un pezzo di pane, è un bonaccione che se gli dai l’ultimo di Paulo Coelho non solo lo fai la persona più felice di tutto l’universo conosciuto, ma fa anche arredamento, allietandoti le cene tra amici con impareggiabili perle di saggezza sulla vita, sull’amore, sul senso dell’esistenza e, se la serata rischia di essere veramente allegra, pure sulla morte. Tuttavia anche gli intellettuali hanno un segreto, un lato oscuro e inconfessabile che andrebbe avvolto in un sacco nero, messo nel bagagliaio dell’auto, portato in bosco e seppellito sotto una sequoia: la cosiddetta sindrome del Gremlin.
Ora, se avete un’età compresa fra i 25 a i 15 anni e il nome Boy George non vi suggerisce assolutamente nulla, allora mi sa che avete bisogno di un bel ripasso sui gremlins, protagonisti del film omonimo. I gremlins sono dei simpatici mostriciattoli teneri e batuffolosi che farebbero venire la voglia di coccolarli pure a Hannibal Lecter, tuttavia non vanno assolutamente bagnati altrimenti si riproducono in maniera asessuata (parola che deriva dal greco e che significa letteralmente senza divertimento) dando vita a esseri orribili che rubano, uccidono e producono ettolitri di una sostanza melmosa che per tutto il film non si capisce bene a cosa serve. Ovviamente non c’è bisogno che vi dica che l’intero film non è altro che l’equivalente dell’Aquafan di Riccione per gremlins.
Che c’entrano i gremlins con gli intellettuali? Moltissimo. Anche l’amico intellettuale è tenero e batuffoloso, non sporca come i cani, non si fa le unghie sui mobili di cartone pressato dell’Ikea come i gatti, però se per puro caso si trova nelle vicinanze di altri della sua specie si trasforma, istigandovi ripetutamente al suicidio portando avanti per ore monologhi su «…un eccellente scrittore cecoslovacco che ho letto solo nella traduzione gaelica…», il tutto condito con termini come lapalissiano, velleitario, prosaico, messi così, con lo stesso criterio altamente scientifico con cui abitualmente si mette il parmigiano sui maccheroni.

Il disturbo solitamente si presenta non appena l’intellettuale paga la prima rata di iscrizione all’università, che può essere: Lettere, Filosofia, Scienze della comunicazione, Pedagogia, Sociologia e tutta una serie di altre facoltà-parcheggio, ovvero quelle per cui non sono previsti sbocchi lavorativi. Non in quest’era geologica, almeno.
Quando ero studente la sindrome del Gremlin si manifestava con la comparsa del contestualizzatore. Il contestualizzatore non aveva un volto, un corpo, degli incisivi da rompere quando faceva la sua apparizione: era una voce eterea e irritante che spuntava dal fondo dell’aula e che urlava «Eh, ma bisogna contestualizzare». Parlavi della guerra di Crimea? «Eh, bisogna contestualizzare». Intraprendevi una discussione sulla crisi mediorientale? «Eh, bisogna contestualizzare». In pizzeria eri indeciso se prendere la margherita o la marinara? Qualcuno in mezzo alla sala urlava «Sì, ma contestualizza!».
Fatto sta che in breve sta cosa di contestualizzare si è diffusa a macchia d’olio, per cui se in una discussione fra colleghi non riuscivi a inserire per primo la parola contestualizzare, secondo la Guida dello Studente dovevi fare harakiri con la penna Bic in mezzo al cortile.

Vi dirò, in cinque anni non ho capito bene cos’è che dovevo contestualizzare, finché un giorno ero in macchina con mio padre e allora tutto mi fu chiaro.
Mio padre è una persona aperta, uno che non ha mai badato al colore della pelle degli altri, alla religione, un fermo sostenitore dell’autodeterminazione dei popoli e un femminista convinto.
Un femminista convinto.

Un femminista convinto.

Fin quando non sale in macchina.

Purtroppo mio padre ha questa piccola caratteristica per cui, non appena si siede in automobile, assume la stessa sensibilità nei confronti del gentil sesso che avrebbero il mostro di Milwaukee e Jack lo Squartatore a una convention sui diritti della donna in Botswana. Tutto ciò comporta che chiunque non rispecchi i suoi standard di guida «È sicuramente una donna» (ovviamente per la mia incolumità non vi dirò qual è la percentuale di previsioni azzeccate).

Ebbene, cari amici, mio padre va contestualizzato, cioè normalmente parla come Lella Costa e Franca Rame messe insieme (mi riferisco agli argomenti, non alla voce), ma messo nel contesto-auto diventa un pochettino misogino.
Visto che da tradizione biblica «le colpe dei padri ricadranno sui figli», questo post è dedicato alle donne.

Ho fatto caso che effettivamente i post dedicati a scrittrici in questo blog sono effettivamente pochini (lo zero è un numero, no?), ma posso assicurarvi che non è colpa mia. No, no (qua dovreste immaginarvi me che faccio il gesto con la mano e con la testa come le donne afroamericane, giusto per restare in tema di razzismo). E a difendermi chiamo nientemeno che la scrittrice femminista per eccellenza: Virginia Woolf.

Sulla vita di Virginia Woolf non mi dilungherò, vi dirò solo che: avete presente quando i vostri genitori avevano paura delle amicizie che frequentavate per paura che vi influenzassero? Ecco, mentre mio cugino per questo motivo adesso ruba le autoradio; Virginia Woolf, per la stessa identica ragione, è diventata una delle più grandi scrittrici del XX secolo, dato che era imparentata con William Thackeray, quello che ha scritto Vanity fair (il libro, non la rivista), e casa di suo padre era frequentata da Thomas Stearns Eliot, Julia Margaret Cameron e Henry James. Quindi date sempre ascolto ai vostri genitori.
Essendo una donna di grandissima intelligenza e stufatasi di sentirsi ripetere che le donne sono brave a fare solo una cosa (evidentemente le Veline sono solo la punta dell’iceberg di un problema che ci portiamo dietro da secoli), nel 1929 scrive quello che ritengo il suo capolavoro: Una stanza tutta per sé.

A dispetto del titolo, che al lettore disattento può sembrare un catalogo di Leroy Merlin, questo saggio, basato su un ciclo di conferenze tenute davvero dalla scrittrice, esamina in maniera attenta i motivi per cui ci sono così poche donne nella storia della Letteratura.
Innanzitutto non è la Woolf che parla, ma una donna anonima che si fa chiamare Mary, personificazione di tutte le donne rimaste nell’anonimato nei secoli, e la conferenza si tiene nell’immaginario college di Oxbridge.
Virginia Woolf parte dal modo in cui la letteratura maschile ha descritto la donna: succube, peccaminosa, indifesa, madre, moglie, sorella. Praticamente un elettrodomestico in grado di cucinare e fare figli. E perché allora le donne non si sono ribellate a tutto ciò e non hanno cominciato a dare vita a una controletteratura che smantellasse quella patriarcale? Per lo stesso motivo per cui io non mi iscrivo a un corso di Zumba: per una mancanza di tempo e di soldi.

La nostra scrittrice in pratica dice (facendo una parafrasi spiccia spiccia): ma secondo voi Dante Alighieri la poteva scrivere la Commedia sul tavolo della cucina mentre sul fuoco c’era la pasta e fagioli? Charles Dickens poteva realizzare Oliver Twist con il Trenino Thomas e Violetta in sottofondo? E se non teneva una lira, come cacchio faceva Stendhal a scrivere Il rosso e il nero?
Il motivo per cui studiamo poche scrittrici a scuola è semplice, la donna nel corso della storia in pratica non è che non si è applicata alla Letteratura, è che non ne ha avuto la possibilità perché relegata a un ruolo che l’uomo le aveva imposto. E come si fa per risolvere la situazione? Semplice, dice Virginia Woolf, date alle donne un po’ di soldi di cui disporre liberamente e soprattutto una stanza tutta per sé in cui avere la tranquillità per comporre.
Mi rendo conto che, messa così, la questione sembra un po’ la scoperta dell’acqua calda, ma vi invito a contestualizzare (non mi sono ancora liberato del mio gremlin): Virginia Woolf ha alle spalle secoli e secoli di critici letterari che le hanno fatto una testa così dicendo che le donne non sono portate per la Letteratura, che è roba da uomini, che deve tornare a fare la calza. E lei per tutta risposta dice: «Oh belli, state calmi che qua non stiamo parlando di Fast and Furious o della pesca alla trota salmonata, qua stiamo parlando di sentimenti e se permettete una donna è molto più ferrata sulla questione».
Il messaggio della Woolf cioè è davvero rivoluzionario.

Ma possiamo definire Una stanza tutta per sé il manuale della jihad femminista? Ma manco per idea! Infatti la nostra scrittrice oltre a dirle agli uomini se la prende anche con le donne troppo rancorose, per esempio con Jane Austen e George Eliot per come esprimono, nelle loro opere, il loro astio verso il mondo maschile che le vuole relegate al ruolo di mogli, madri, sorelle o al massimo amanti. Per questo motivo lo scrittore deve avere una mente androgina, una mente cioè libera dai preconcetti che il sesso impone e guardare quindi le cose con maggiore obiettività.

Com’è andata a finire al storia, secondo voi? I critici di tutto il mondo hanno fatto mea culpa? La donna ha avuto maggiore considerazione nella Letteratura all’indomani della pubblicazione del saggio? Le hanno dato il premio Nobel? None, niente di tutto questo. La questione all’epoca fu archiviata come «l’opera di una lesbica», appellandosi alla bisessualità della scrittrice. Un po’ come quando in pieno agosto dicevi a tua madre che non c’era bisogno di mettere la maglia della salute, hai voglia a farla vedere la pozzanghera di sudore per terra provocata dalla suddetta maglia, lei ti diceva sempre «Sì, ma con questa non ti si asciuga il sudore addosso». Un cane che si morde la coda, insomma.

Se siete presi dalla tentazione di smentire la tesi di Virginia Woolf e fare i saputelli dicendo: «Guarda che nel Medioevo c’erano anche donne scrittrici come Maria di Francia, Roswitha di Gandersheim e Anna Comnena», vi ricordo che queste o erano religiose o erano principesse, vale a dire gente che comunque aveva una rendita e una stanza tutta per sé.
Virginia Woolf con questo saggio vince su tutta la linea e non stupisce che abbia provocato moltissime critiche in un ambiente dove (diciamolo pure) ci sono più invidie e gelosie che a Jersey Shore o qualsiasi altro reality tamarro di MTV.

E con ciò, ritengo sia lapalissiano che non condivido le opinioni automobilistiche di mio padre. 





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