venerdì 5 settembre 2014

Le Ultime lettere di Jacopo Ortis: «Maestra, Foscolo copia!»


Ma quant’è bella l’estate? Il profumo dei fiori, la natura che prorompe da ogni dove, il risvegliarsi degli esseri viventi più belli del creato: il dolce usignolo, il goffo riccio, le mosche, i tafani, le zanzare, i giornalisti che dicono agli anziani di andare ai centri commerciali perché lì c’è l’aria condizionata, gli stati di gente su Facebook che d’inverno scrive «Ma che palle sto freddo! Estate mi manki!» e d’estate «Uffa, sto caldo ma quando viene inverno?», il Meteo.it di Tgcom.

Il Meteo.it Tgcom merita una piccola digressione fra le cose più fastidiose dell’estate (a parte lo sfregamento dell’interno coscia quando si ritorna dalla spiaggia, grazie al quale l’industria del borotalco in questa stagione è seconda solo a quella della coca a Ibiza).
Per chi non avesse mai avuto la fortuna di vedere il Meteo.it Tgcom, farò qui un piccolo riassunto:
sullo schermo appare il/la meteorologo/a che col ditino indica la parte settentrionale dell’Italia dicendo: «A Torino si registra tempo sereno, a Milano alcune nubi provenienti dall’Europa settentrionale provocheranno lievi precipitazioni, a Venezia il cielo sarà sgombro di nubi…»; appena però il ditino si sposta appena sotto la riva meridionale del Po: «Per quanto riguarda il Mezzogiorno, tempo variabile» descrivendo ampi cerchi che vanno da Bologna al Mozambico. Il che potrebbe anche essere una scelta editoriale del tipo: «I nostri spettatori vivono per lo più al nord». Peccato però che per tutta la durata dei mesi di luglio e agosto ci abbiano veramente liofilizzato la zona meridionale del corpo tenendoci aggiornati sulla situazione meteorologica di amene località quali: la Papuasia, la Melanesia o la Micronesia Olandese.
Ora, dico io, che è sta Micronesia Olandese? Ma che ce ne frega se in Micronesia Olandese piove? Nemmeno gli abitanti della Micronesia Olandese sanno di vivere nella Micronesia Olandese!
Fine della digressione meteorologica.

Tuttavia fra tutti gli esseri che si risvegliano in estate ce n’è uno che merita la nostra attenzione: il Beatote. Ogni famiglia, comitiva, oratorio, scuola di cucito, gruppo fondamentalista religioso, ha almeno un esemplare di beatote, nel mio caso, per esempio, è una zia. La caratteristica principale del beatote è un malato ottimismo che si manifesta con frasi del tipo:

«Hai bucato una gomma? Beatote, io ho sfasciato la macchina»

«Ti si è scotta la pasta? Beatote, io sto da una settimana digiuna»

«Hai un po’ di tosse? Beatote, io c’ho la peste bubbonica, anzi vado che c’è un monatto che mi aspetta di sotto»

E via di seguito.

Come dicevamo però, è in estate che il beatote dà veramente il massimo: tu sei lì, che hai sfacchinato per tutto l’inverno a dare ripetizioni a un ragazzino che fino a giugno ha tentato di farti le macumbe su una bambolina che stranamente riproduceva le tue fattezze, ogni volta felice di vederti come una galeone spagnolo carico di schiavi africani, per permetterti di comprare un biglietto aereo (posto stiva, rigorosamente non pressurizzato) che ti porterà per due giorni in un ostello a Londra, dove dividerai il letto a castello con un turista austriaco che non lava i calzini da prima che cominciasse la deriva dei continenti.
Ebbene il giorno prima di partire il beatote, di ritorno da una crociera ai Caraibi costata quanto il prodotto interno lordo del Liechtenstein, si presenta a casa tua con ancora le infradito ai piedi e, con una faccia di una a cui è appena stata asportata l’appendicite senza anestesia, ti dice: «Beatote che vai a Londra, noi ci siamo proprio stressati sulla nave». Mettendo a dura prova la tua capacità di inventare nuovi e frizzanti vituperi in direzione sua e di tutti i suoi defunti (che, sfortunatamente, nel mio caso sono pure miei).

Nonostante i notori progressi della scienza moderna come la particella ultra assorbente dei salvaslip della Lines (embè? Mo vuoi vedere che il problema degli scienziati è l’ebola?), il mondo accademico non ha ancora trovato una soluzione definitiva alla piaga dei beatote (anche se un cric di acciaio inossidabile aiuta sempre). 
Tuttavia, amici miei, non dovete disperare: come disse quello che aveva comprato un CD dei Dear Jack perché aveva letto che hanno venduto più di un milione di copie: «Mal comune, mezzo gaudio». Già, perché i beatote hanno fatto la loro comparsa sulla Terra alcuni secoli fa e ne troviamo traccia anche nella Letteratura e più precisamente nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis.

Le Ultime lettere di Jacopo Ortis è il primo esempio di romanzo epistolare della Letteratura italiana, pubblicato per la prima volta nel 1802 da quel basettone di Ugo Foscolo. A scuola Ugo Foscolo è conosciuto soprattutto per le pazze risate che ci fa fare con i suoi versi come: illacrimata sepoltura (A Zacinto), l’ossa mie rendete/allora al petto della madre mesta (In morte del fratello Giovanni), né le città fur meste/d’effigiati scheletri (Dei sepolcri). Insomma, dalla poetica di Foscolo ci possiamo ricavare agevolmente uno di quei film che nei pomeriggi natalizi danno su Canale 5 o, in alternativa, tutta la filmografia di Tarantino.
Ma ritorniamo all’argomento principale.

Come dicevamo, le Ultime lettere di Jacopo Ortis è un romanzo epistolare, cioè scritto sotto forma di lettere che il protagonista manda ad un suo amico, Lorenzo Alderani. Quello epistolare era un genere che nell’Ottocento andava molto di moda e che sarebbe interessante vedere cosa ne verrebbe fuori al giorno d’oggi su Whatsapp.





Per mia nonna che non conosce la prosa cruda del XIX secolo: un limone è una pomiciata di una certa intensità.
Ma andiamo avanti…


Jacopo è uno studente universitario deluso dalla politica di Napoleone che, inaugurando una lunghissima tradizione di politici nostrani, ha deciso di svendere il Paese per un pezzo di pane e per questo il giovane decide di ritirarsi sui Colli Euganei, nei pressi di Padova. Qui Jacopo, che già di suo è allegro come una canzone dei Modà, sembra ritrovare un po’ di pace leggendo i classici latini se non che conosce un certo signor T. e la sua dolce famigliola costituita dalle figlie Isabellina e Teresa e dal futuro marito di quest’ultima, Odoardo. 
Foscolo qui dimentica completamente di essere un grande scrittore e, manco si trattasse di un romanzo di Nicholas Sparks, fa innamorare follemente Jacopo di Teresa, quindi per diverse decine di lettere ci sembra di sentire la colonna sonora de Il tempo delle mele mentre leggiamo di sagre di paese a cui i due partecipano arrostendo salsicce di cinghiale mano nella mano, vanno a fare scampagnate nel paese di Petrarca, aiutano la forestale a trapiantare alcuni pini su una collina… tutto questo mentre Odoardo si chiede cosa siano quelle strane escrescenze sulla testa che da un po’ di tempo gli impediscono di attraversare le porte.

Durante una di queste gite Teresa gli confessa di non amare il suo promesso sposo e perciò cosa fa il nostro Jacopo? Scappa con lei in segreto e si sposano a Las Vegas? Affronta Odoardo in un duello all’ultimo sangue con le spade laser sulla Morte Nera? Anticipa Manzoni e va dal padre della ragazza dicendo: «Questo matrimonio non s’ha da fare?». Niente di tutto questo: con una mossa a sorpresa la molla e se ne ritorna all’università (evidentemente all’epoca la laurea non era solo un elegante complemento d’arredo). Qui frequenta la bella società cittadina, ha delle piccole avventure con delle donzelle, frequenta i colleghi di università ma non è felice, il suo pensiero sta sempre lì (a Teresa, che avete capito?). Per questo motivo dopo soli due mesi di corsi decide di tornare ai Colli Euganei per rivedere la sua amata che, per l’unica volta in tutto il romanzo, lo bacerà.

«Vabbè, adesso scapperanno insieme» direte voi. Ma ormai a questo punto del romanzo abbiamo capito che Jacopo ha veramente pochino in comune con Vin Diesel, anzi il ragazzo somiglia più a Steve Buscemi, infatti si ammala e non trova di meglio da fare che confessare il suo amore al padre della ragazza che ovviamente dopo questa rivelazione vorrebbe sminuzzarlo in un robot da cucina. Una volta ripresosi «…scappa con Teresa!». 
Noooooooone! Jacopo si toglie il pigiama e comincia una specie di giro d’Italia, visita Bologna; Firenze, dove fa una capatina a Santa Croce per dare il suo saluto ai grandi; e soprattutto Milano. Nella città lombarda avviene il famoso colloquio con Parini, che per il ragazzo è un idolo assoluto, un Vasco Rossi senza problemi di disintossicazione. A parte l’assoluta mancanza di verosimiglianza (non è che se domani mi imbarco e parto per Bologna ho molte probabilità di parlare con Enrico Brizzi), queste pagine ci rivelano davvero il carattere del giovane Jacopo (e sotto sotto pure di Foscolo). Lo studente è veramente sdegnato per la situazione politica, per come l’Italia sia stata trattata come moneta di scambio fra due potenze straniere e auspica una rivoluzione che metta tutto a ferro e fuoco. Parini (che incarna l’altra anima di Foscolo, quella più matura) smorza subito il suo entusiasmo e gli ricorda gli esiti infausti della Rivoluzione francese, poi, visto che il ragazzo ha già un’autostima invidiabile, gli fa un discorsetto che parafrasato suona così: «Bello dello zio, tu non hai una lira e non sei nessuno. Veramente credi che i ricchi non sappiano come comportarsi in caso di rivoluzione? Quelli lo sanno meglio di te e ti sfrutteranno per ricavare il maggior vantaggio possibile dalla situazione».

Dopo aver raccolto le braccia che gli sono cadute successivamente al colloquio con Parini, Jacopo riprende il suo peregrinare per l’Italia ma alla fine decide di tornare di nuovo sui Colli Euganei dove scopre che Teresa si è sposata con Odoardo (e certo, se aspettava Jacopo…). Vinto dal dolore scrive a Teresa e, per l’ultima volta, anche al suo amico Lorenzo prima di suicidarsi con una pugnalata al cuore.

E questo era il romanzo, ma è diamo un’occhiatina a quello che è successo nel backstage.
Subito dopo la pubblicazione delle Ultime lettere di Jacopo Ortis qualche malpensante ha ravvisato delle somiglianze fra l’opera di Foscolo e I dolori del giovane Werther di Gothe. Sarà che entrambi sono romanzi epistolari? Sarà che abbiamo solo le lettere di Jacopo e di Werther ma non abbiamo le risposte dei loro amici? Sarà che i protagonisti sono due giovani che decidono di ritirarsi in campagna per dedicarsi alla Letteratura? Sarà che entrambi si innamorano di una ragazza già promessa in sposa ad un altro uomo? Sarà che a un certo punto del romanzo tutti e due lasciano il paesino per andare in città? Sarà che i romanzi finiscono con il suicidio?
Embè? Uno trova 180/190 somiglianze e subito pensa al plagio!

Tali accuse portarono Foscolo a scrivere una postfazione alla seconda edizione del romanzo, del 1804, in cui si difendeva dalle accuse di emulazione (prima si diceva così) dicendo che si era ispirato alla storia di un amico, anche se in realtà non conobbe mai Girolamo Ortis, uno studente che si suicidò e da cui lo scrittore prese in prestito il cognome per Jacopo. Hai capito che paravento, Foscolo?

Momento curiosità da giocarsi se durante gli esami/interrogazioni siete in difficoltà: dopo la pubblicazione della prima edizione ci fu un’ondata di suicidi per emulazione. Ebbene, nella postfazione del 1804 lo scrittore dovette precisare che il suo personaggio era un debole, esortando i giovani a non imitarlo. Oggi una postfazione del genere starebbe bene pure sul retro di tutti i dischi di Fedez.

A dire il vero Foscolo da Goethe ha preso anche un po’ di più di qualche spunto, tuttavia bisogna dire che, nonostante la storia sia pressoché identica, cambia l’impostazione di base: il Werther è un romanzo che si inserisce pienamente del Romanticismo, dentro vi troviamo il “mito del buon selvaggio”, una sorta di compiacimento della propria sofferenza, la vicenda amorosa è al centro di tutta la situazione, invece l’aspetto politico compare solo marginalmente. Nell’Ortis troviamo le stesse identiche tematiche solo che, al contrario, tutto il romanzo è imperniato sulla situazione politica italiana, sulle disillusioni del giovane protagonista e la storia d’amore con Teresa è quasi una scusa, una piccola “spintarella” che Foscolo dà al suo personaggio per spingerlo al suicidio, per giustificare l’atto estremo.
Per questo motivo le Ultime lettere di Jacopo Ortis non è un plagio, ma piuttosto un remake, un Werther in chiave politica e sociale, in cui si approfondiscono tematiche di un certo spessore e che forse lo rendono addirittura migliore dell’originale.
Ovviamente ciò non toglie che Jacopo Ortis per il suo tono costantemente lamentoso non avrebbe meritato di essere preso a cric sui denti per essere il progenitore di tutti i beatote attualmente presenti sul pianeta. Inclusa mia zia.

P.S.
Da notare che in tutto il post ho evitato sapientemente la battuta:
«Sai quali sono le Ultime lettere di Jacopo Ortis?»
«…is»


venerdì 1 agosto 2014

Buone vacanze


Niente post per questo mese, perciò vi auguro buone vacanze: sia che stiate studiando per recuperare gli esami, sia che stiate studiando per qualche concorso, sia che abbiate prenotato 15 giorni al mare ma ci sono più precipitazioni che nel Borneo durante la stagione delle piogge.


lunedì 7 luglio 2014

Una stanza tutta per sé: Amore, che libro c'è per cena?

Avere amici intellettuali non è per niente semplice. Tradizionalmente chi si interessa di Letteratura è un pezzo di pane, è un bonaccione che se gli dai l’ultimo di Paulo Coelho non solo lo fai la persona più felice di tutto l’universo conosciuto, ma fa anche arredamento, allietandoti le cene tra amici con impareggiabili perle di saggezza sulla vita, sull’amore, sul senso dell’esistenza e, se la serata rischia di essere veramente allegra, pure sulla morte. Tuttavia anche gli intellettuali hanno un segreto, un lato oscuro e inconfessabile che andrebbe avvolto in un sacco nero, messo nel bagagliaio dell’auto, portato in bosco e seppellito sotto una sequoia: la cosiddetta sindrome del Gremlin.
Ora, se avete un’età compresa fra i 25 a i 15 anni e il nome Boy George non vi suggerisce assolutamente nulla, allora mi sa che avete bisogno di un bel ripasso sui gremlins, protagonisti del film omonimo. I gremlins sono dei simpatici mostriciattoli teneri e batuffolosi che farebbero venire la voglia di coccolarli pure a Hannibal Lecter, tuttavia non vanno assolutamente bagnati altrimenti si riproducono in maniera asessuata (parola che deriva dal greco e che significa letteralmente senza divertimento) dando vita a esseri orribili che rubano, uccidono e producono ettolitri di una sostanza melmosa che per tutto il film non si capisce bene a cosa serve. Ovviamente non c’è bisogno che vi dica che l’intero film non è altro che l’equivalente dell’Aquafan di Riccione per gremlins.
Che c’entrano i gremlins con gli intellettuali? Moltissimo. Anche l’amico intellettuale è tenero e batuffoloso, non sporca come i cani, non si fa le unghie sui mobili di cartone pressato dell’Ikea come i gatti, però se per puro caso si trova nelle vicinanze di altri della sua specie si trasforma, istigandovi ripetutamente al suicidio portando avanti per ore monologhi su «…un eccellente scrittore cecoslovacco che ho letto solo nella traduzione gaelica…», il tutto condito con termini come lapalissiano, velleitario, prosaico, messi così, con lo stesso criterio altamente scientifico con cui abitualmente si mette il parmigiano sui maccheroni.

Il disturbo solitamente si presenta non appena l’intellettuale paga la prima rata di iscrizione all’università, che può essere: Lettere, Filosofia, Scienze della comunicazione, Pedagogia, Sociologia e tutta una serie di altre facoltà-parcheggio, ovvero quelle per cui non sono previsti sbocchi lavorativi. Non in quest’era geologica, almeno.
Quando ero studente la sindrome del Gremlin si manifestava con la comparsa del contestualizzatore. Il contestualizzatore non aveva un volto, un corpo, degli incisivi da rompere quando faceva la sua apparizione: era una voce eterea e irritante che spuntava dal fondo dell’aula e che urlava «Eh, ma bisogna contestualizzare». Parlavi della guerra di Crimea? «Eh, bisogna contestualizzare». Intraprendevi una discussione sulla crisi mediorientale? «Eh, bisogna contestualizzare». In pizzeria eri indeciso se prendere la margherita o la marinara? Qualcuno in mezzo alla sala urlava «Sì, ma contestualizza!».
Fatto sta che in breve sta cosa di contestualizzare si è diffusa a macchia d’olio, per cui se in una discussione fra colleghi non riuscivi a inserire per primo la parola contestualizzare, secondo la Guida dello Studente dovevi fare harakiri con la penna Bic in mezzo al cortile.

Vi dirò, in cinque anni non ho capito bene cos’è che dovevo contestualizzare, finché un giorno ero in macchina con mio padre e allora tutto mi fu chiaro.
Mio padre è una persona aperta, uno che non ha mai badato al colore della pelle degli altri, alla religione, un fermo sostenitore dell’autodeterminazione dei popoli e un femminista convinto.
Un femminista convinto.

Un femminista convinto.

Fin quando non sale in macchina.

Purtroppo mio padre ha questa piccola caratteristica per cui, non appena si siede in automobile, assume la stessa sensibilità nei confronti del gentil sesso che avrebbero il mostro di Milwaukee e Jack lo Squartatore a una convention sui diritti della donna in Botswana. Tutto ciò comporta che chiunque non rispecchi i suoi standard di guida «È sicuramente una donna» (ovviamente per la mia incolumità non vi dirò qual è la percentuale di previsioni azzeccate).

Ebbene, cari amici, mio padre va contestualizzato, cioè normalmente parla come Lella Costa e Franca Rame messe insieme (mi riferisco agli argomenti, non alla voce), ma messo nel contesto-auto diventa un pochettino misogino.
Visto che da tradizione biblica «le colpe dei padri ricadranno sui figli», questo post è dedicato alle donne.

Ho fatto caso che effettivamente i post dedicati a scrittrici in questo blog sono effettivamente pochini (lo zero è un numero, no?), ma posso assicurarvi che non è colpa mia. No, no (qua dovreste immaginarvi me che faccio il gesto con la mano e con la testa come le donne afroamericane, giusto per restare in tema di razzismo). E a difendermi chiamo nientemeno che la scrittrice femminista per eccellenza: Virginia Woolf.

Sulla vita di Virginia Woolf non mi dilungherò, vi dirò solo che: avete presente quando i vostri genitori avevano paura delle amicizie che frequentavate per paura che vi influenzassero? Ecco, mentre mio cugino per questo motivo adesso ruba le autoradio; Virginia Woolf, per la stessa identica ragione, è diventata una delle più grandi scrittrici del XX secolo, dato che era imparentata con William Thackeray, quello che ha scritto Vanity fair (il libro, non la rivista), e casa di suo padre era frequentata da Thomas Stearns Eliot, Julia Margaret Cameron e Henry James. Quindi date sempre ascolto ai vostri genitori.
Essendo una donna di grandissima intelligenza e stufatasi di sentirsi ripetere che le donne sono brave a fare solo una cosa (evidentemente le Veline sono solo la punta dell’iceberg di un problema che ci portiamo dietro da secoli), nel 1929 scrive quello che ritengo il suo capolavoro: Una stanza tutta per sé.

A dispetto del titolo, che al lettore disattento può sembrare un catalogo di Leroy Merlin, questo saggio, basato su un ciclo di conferenze tenute davvero dalla scrittrice, esamina in maniera attenta i motivi per cui ci sono così poche donne nella storia della Letteratura.
Innanzitutto non è la Woolf che parla, ma una donna anonima che si fa chiamare Mary, personificazione di tutte le donne rimaste nell’anonimato nei secoli, e la conferenza si tiene nell’immaginario college di Oxbridge.
Virginia Woolf parte dal modo in cui la letteratura maschile ha descritto la donna: succube, peccaminosa, indifesa, madre, moglie, sorella. Praticamente un elettrodomestico in grado di cucinare e fare figli. E perché allora le donne non si sono ribellate a tutto ciò e non hanno cominciato a dare vita a una controletteratura che smantellasse quella patriarcale? Per lo stesso motivo per cui io non mi iscrivo a un corso di Zumba: per una mancanza di tempo e di soldi.

La nostra scrittrice in pratica dice (facendo una parafrasi spiccia spiccia): ma secondo voi Dante Alighieri la poteva scrivere la Commedia sul tavolo della cucina mentre sul fuoco c’era la pasta e fagioli? Charles Dickens poteva realizzare Oliver Twist con il Trenino Thomas e Violetta in sottofondo? E se non teneva una lira, come cacchio faceva Stendhal a scrivere Il rosso e il nero?
Il motivo per cui studiamo poche scrittrici a scuola è semplice, la donna nel corso della storia in pratica non è che non si è applicata alla Letteratura, è che non ne ha avuto la possibilità perché relegata a un ruolo che l’uomo le aveva imposto. E come si fa per risolvere la situazione? Semplice, dice Virginia Woolf, date alle donne un po’ di soldi di cui disporre liberamente e soprattutto una stanza tutta per sé in cui avere la tranquillità per comporre.
Mi rendo conto che, messa così, la questione sembra un po’ la scoperta dell’acqua calda, ma vi invito a contestualizzare (non mi sono ancora liberato del mio gremlin): Virginia Woolf ha alle spalle secoli e secoli di critici letterari che le hanno fatto una testa così dicendo che le donne non sono portate per la Letteratura, che è roba da uomini, che deve tornare a fare la calza. E lei per tutta risposta dice: «Oh belli, state calmi che qua non stiamo parlando di Fast and Furious o della pesca alla trota salmonata, qua stiamo parlando di sentimenti e se permettete una donna è molto più ferrata sulla questione».
Il messaggio della Woolf cioè è davvero rivoluzionario.

Ma possiamo definire Una stanza tutta per sé il manuale della jihad femminista? Ma manco per idea! Infatti la nostra scrittrice oltre a dirle agli uomini se la prende anche con le donne troppo rancorose, per esempio con Jane Austen e George Eliot per come esprimono, nelle loro opere, il loro astio verso il mondo maschile che le vuole relegate al ruolo di mogli, madri, sorelle o al massimo amanti. Per questo motivo lo scrittore deve avere una mente androgina, una mente cioè libera dai preconcetti che il sesso impone e guardare quindi le cose con maggiore obiettività.

Com’è andata a finire al storia, secondo voi? I critici di tutto il mondo hanno fatto mea culpa? La donna ha avuto maggiore considerazione nella Letteratura all’indomani della pubblicazione del saggio? Le hanno dato il premio Nobel? None, niente di tutto questo. La questione all’epoca fu archiviata come «l’opera di una lesbica», appellandosi alla bisessualità della scrittrice. Un po’ come quando in pieno agosto dicevi a tua madre che non c’era bisogno di mettere la maglia della salute, hai voglia a farla vedere la pozzanghera di sudore per terra provocata dalla suddetta maglia, lei ti diceva sempre «Sì, ma con questa non ti si asciuga il sudore addosso». Un cane che si morde la coda, insomma.

Se siete presi dalla tentazione di smentire la tesi di Virginia Woolf e fare i saputelli dicendo: «Guarda che nel Medioevo c’erano anche donne scrittrici come Maria di Francia, Roswitha di Gandersheim e Anna Comnena», vi ricordo che queste o erano religiose o erano principesse, vale a dire gente che comunque aveva una rendita e una stanza tutta per sé.
Virginia Woolf con questo saggio vince su tutta la linea e non stupisce che abbia provocato moltissime critiche in un ambiente dove (diciamolo pure) ci sono più invidie e gelosie che a Jersey Shore o qualsiasi altro reality tamarro di MTV.

E con ciò, ritengo sia lapalissiano che non condivido le opinioni automobilistiche di mio padre. 





giovedì 8 maggio 2014

Il Verismo: il reality delle cinghiate

Non più di un paio di settimane fa stavo prenotando al Billionaire per festeggiare le 10.000 visite su questo blog. Avevo già spedito gli inviti ai personaggi più autorevoli del mondo culturale: Tullio De Mauro, Francesco Sabatini, Corrado Augias, Luciano De Crescenzo, Noam Chomsky, Umberto Eco, Evgenij Evtušenko… , ma anche ai rappresentanti del giornalismo d’inchiesta, quelli che non le mandano certo a dire, quelli che ci mettono la faccia come l’inviato dalla voce inquietante di Chi l’ha visto?, Brumotti, il Gabibbo e la giornalista del TG5 che si occupa di cinema, quella che lavora solo tre volte all’anno, per capirci: quando c’è il festival di Cannes, il Leone d’oro e gli Oscar, gli unici tre concorsi cinematografici che conosce.
Mi ero appena messo nel lettino abbracciato al mio peluche di Moravia (è uguale a un normalissimo orsacchiotto, ma ti guarda incazzatissimo), e stavo beatamente immaginando la faccia di Umberto Eco mentre Brumotti gli urla nelle orecchie «A bombaaaaaazza!!!», quando improvvisamente squilla il cellulare.

«Pronto?» 
«Ci hai messo un anno e mezzo per fare 10.000 visite, noi le facciamo in un quarto d’ora. Precisamente fra 14:50 e le 15:05 di un qualsiasi Ferragosto»
Clic.

Solo una persona poteva chiamarmi nel cuore della notte per prendermi in giro: Casaleggio.
Ovviamente ho cominciato a pormi un sacco di domande: come fa Casaleggio ad avere il mio numero? Come faceva a sapere del Billionaire? Quale oscura macchinazione si cela dietro questa chiamata? Non c’ha niente da fare la notte invece di chiamarmi? Che balsamo usa per avere quei ricci sempre così vaporosi?
Tuttavia la questione che mi assillava di più era di ordine generale: esiste davvero la democrazia in internet?

Per riuscire a risolvere la situazione (e finalmente prendere sonno) mi è venuta in mente una frase che ho letto in un saggio sul filosofo John Locke (ma adesso che ci penso potrebbe essere che l’ho vista su uno dei bigliettini dei Baci perugina): «Un albero che cade in una foresta fa rumore, se nessuno lo sente?». Certo, se lo chiedete al bradipo che vi si stava arrampicando riceverete in risposta una serie di inequivocabili gesti che vi faranno capire la sua opinione in merito, ma se non vi trovate nel Borneo capite che la situazione è seria.
Prendete questo blog, un bella mattina mi sono svegliato e ho deciso di scrivere e come me può farlo chiunque: c’è chi parla di cucina, chi di oggetti fatti a mano, chi di fumetti, chi di film… «E allora? Internet è uno strumento democratico». D’accordo, ma quanti blog possono dire di avere più lettori dei telespettatori di una lezione di fisica quantistica alle 4 di mattina su Rai Nettuno?
Come vedete siamo ritornati all’albero: posso dire tutto quello che voglio, ma, se non mi ascolta nessuno, che lo dico a fare?
E allora come la mettiamo? Internet è tutto un bluff? Se non ti fai pubblicità non sei nessuno? È caduto l’ultimo baluardo della democrazia occidentale dopo l’abolizione della giuria demoscopica di Sanremo?

Non dobbiamo disperare, perché se da un lato i blog si sono rivelati una mezza bufala, dall’altro sono emersi strumenti ancora più democratici, con cui il cittadino comune, l’uomo della strada (nel senso che è disoccupato e passa tutto il giorno in giro per il paese) può far sentire la sua voce: la petizione online.

Se non vi è mai capitato di firmare una petizione online non potete capire in quale abisso di spam e richieste moralmente e mentalmente discutibili si cacci chi decide di cliccarci su.
Tutto succede per caso. Un giorno stai lì che ti guardi il tuo bel video con i gattini (da una stima fatta da Apple tra dieci anni supereranno il numero di video porno) e all’improvviso ti arriva su Facebook un messaggio di Gesualdo Scatarroni

«Ciao, ho firmato questa petizione. Dai anche tu una mano a questa importante causa»

Nonostante tu sia un tipo molto impegnato nel sociale, di primo acchito l’unica cosa che ti interessa non è tanto dare una mano alla causa, quanto capire chi cacchio è sto Gesualdo Scatarroni. Dopo aver effettuato una ricerca con dati incrociati (spolverando vecchie foto di scuola, interrogando amici di amici, mettendo sotto torchio tua nonna), scopri che tal Scatarroni è stato per due settimane tuo compagno in prima elementare: prima di trasferirsi con tutta la famiglia nella Guinea Francese. 
Qui emerge il famoso effetto Balla coi lupi che prende il nome dal celeberrimo film scritto, diretto e interpretato magistralmente da Kevin Costner che, per quasi quattro ore, cerca di farsi accettare dagli indiani ma alla fine la morale è: «Vabbè, ci hai provato, ma anche se ti vogliamo bene ricordati che sei sempre un cafoncello americano convinto che la cucina italiana sia limitarsi ad aprire una scatoletta di tonno».
Nel senso che per quanto si possa essere smaliziati non si arriverà mai al livello dei nativi digitali, per cui clicchi sul link inviato da Scatarroni non sospettando minimamente che si tratti di un messaggio automatico. 
Vi ricordate i bei tempi dell’attivismo sociale in cui prima ci si informava sulla causa e poi si passavano dalle sedici alle diciotto ore a fermare centinaia di passanti per raccogliere tre firme? Ecco, adesso la tecnologia ci viene incontro, ma con alcuni inconvenienti che andrò qui ad elencare:
  1.  L’attivista da tastiera si indigna per qualsiasi cosa: dalla caccia alla foca monaca agli 89 centesimi annuali di Whatsapp
  2. Ha una tastiera difettosa, lo si capisce del COSTANTE USO DEL CAPS LOCK e dall’enorme quantità di punti esclamativi quando fa un’affermazione e interrogativi quando porge una domanda (che è quasi sempre retorica)
  3. Si spaccia per grande esperto di tecnologie, solitamente dice di aver fatto parte di Anonymus ma ne è uscito «perché avevano una linea troppo morbida». In realtà non è capace di distinguere un MP3 da un 33 giri di Bobby Solo

«MA ALLORA SEI RETROGRADO E REAZIONARIO!!!!!!!!!!!!!!!!11!!!!!!». NO… cioè no, il fatto è che spesso e volentieri l’attivista da tastiera non ha la minima idea di come funzioni il sistema delle petizioni. 
Come sanno anche nei peggiori bar di Caracas, la parola petizione deriva dal latino pĕtĕre, vale a dire chiedere per ottenere. Ora, questa cosa presuppone che ci sia qualcuno a cui mandare ste benedette firme, no? Per cui se sono contrario alla caccia alle balene le mando al governo giapponese; se non voglio che ci siano più bambini soldato le manderò all’ONU. Ma se mi danno fastidio il punteruolo rosso, i gerani alle finestre degli anziani, le ruote dei carrelli della spesa che non vanno mai nella stessa direzione, le persone che si ostinano a farsi il riporto invece di radersi i capelli, aspettare due ore per fare il bagno dopo mangiato, il tanga leopardato da uomo… a chi mando le firme?
Naturalmente con questo non intendo dire che le petizioni online non servano a niente: il Winner Taco è tornato nei bar, a ricordarci che quando il popolo della rete si muove è capace di far capitolare anche le grandi multinazionali.

A parte la petizione per il Winner Taco (che ho firmato davvero), una delle poche petizioni che firmerei volentieri è quella per abolire i reality. Va bene, lo so che state pensando: «Ecco, il solito atteggiamento finto intellettuale», quindi specifico subito che a me non danno fastidio i reality in quanto tali. Quello che mi provoca un fastidioso rush cutaneo è il comportamento dei partecipanti a queste trasmissioni.
Prendiamo il Grande fratello. A parte il fatto che nessuno dei concorrenti sa chi sia Orwell, mi urtano da morire gli incontri con i parenti. Sì, perché il partecipante tipo ha viaggiato il mondo, è stato sei mesi a Londra; ha lavorato come DJ due anni a Valencia; (sulla carta) parla tre lingue; fa paracadutismo acrobatico; ha il datore di lavoro migliore del mondo, visto che gli permette di stare sei mesi chiuso in una casa con altri dieci decerebrati come lui senza licenziarlo.
Ebbene, nonostante questo curriculum, dopo 15 (quindici!) giorni che sta chiuso in casa, si presenta questa scena:

Conduttrice: «Manolo, noi tutti ti conosciamo per la tua frizzante allegria, ma nella tua vita c’è un angolo oscuro: il tuo rapporto con papà Alcibiade»
Manolo: (grugnito incomprensibile)
C: «Sappiamo che il tuo papà ha un carattere forte, anche se non ti ha mai fatto mancare niente, anche se ti ha fatto studiare, anche se ti ha sempre portato a nuoto, ti ha coperto di regali, hai sentito la sua mancanza. Alcibiade purtroppo non ti è stato sempre vicino perché tutti i giorni, fino alla pensione, dalle sei di mattina alle cinque di pomeriggio si assentava misteriosamente perdendosi i momenti più belli della crescita di suo figlio»
M: (lacrime agli occhi accompagnate da altro grugnito)
C: «Manolo, tuo padre è lì»

Il resto potete immaginarlo: abbracci, pianti e tirate su con il naso che nemmeno a casa mia quando ci arriva una raccomandata e scopriamo che non è di Equitalia.

Ma possiamo affermare che i reality sono un prodotto della nostra società malata che si crogiola nel suo voyeurismo invece di produrre programmi televisivi elaborati andando, al contempo, a ledere il pathos, la tensione drammatica, la mimesis e un sacco di altre parole fighe?

No, non lo è. Se proprio vogliamo andare a ravanare nel torbido, scopriamo che già alla fine dell’Ottocento c’era qualcosa di simile ai nostri reality: il Verismo.

Se, dopo questa affermazione, non avete buttato il PC dalla finestra e dato fuoco ai rottami, seguitemi nel mio ragionamento e vedrete che il Verismo è il reality più crudo che sia mai stato concepito.

Il Verismo è una corrente letteraria nata in Italia nella seconda metà dell’Ottocento. Dato che, come diceva Coso, «Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma», il Verismo si ispira fortemente al Naturalismo francese, il cui principale esponente è Zola (non faccio nessuna battuta sul calciatore sennò sembro troppo obsoleto).
Quando lo si studia a scuola c’è il pericolo di incappare in un equivoco da cui non ci libererà mai più: il Verismo nasce e muore in Sicilia, anche perché ti fanno studiare uno, massimo due autori, cioè Giovanni Verga e Luigi Capuana. E invece è tutto sbagliato, perché questa corrente nasce a Milano, anche se la maggior parte delle opere sono ambientate in Sicilia e in Italia meridionale.
Ma perché il Verismo è il “padre” dei reality?
Come suggerisce il nome, questa corrente letteraria si propone di descrivere il vero, cioè la vita comune delle persone di cui la grande Letteratura non si è mai occupata prima di allora: orfani, minatori, contadini, pescatori, pastori e via dicendo. Questa ricerca del vero si realizza in due modi:
  • Attraverso l’uso del linguaggio che, spesso e volentieri, include parole dialettali
  • Evitando di far esprimere giudizi al narratore

Partiamo dal punto 1. Siete schifati dal linguaggio usato nei reality? Non vi piacciono parolacce, volgarità, mancanza di sensibilità? Allora non potete leggere nessuna opera verista.
Il Verismo non è politically correct, tutt’altro. Per capire meglio di cosa stiamo parlando vediamo un po’ di parole tradotte dal linguaggio verista all’italiano:

Ingenuo = Minchione

Lavoratore = Bestia

Sfortunato = Iettatore

Invalido = Storpio

E ho riportato solo gli esempi più leggeri, insomma, a confronto i dialoghi dei film di Vin Diesel sembrano scritti da Petrarca. 
Tuttavia a nobilitare il Verismo rispetto ai reality (semmai ce ne fosse bisogno) è la funzione di questo linguaggio, cioè mimetizzarsi concretamente con l’ambiente che si sta descrivendo: parliamoci chiaro, se voglio descrivere al massimo della realtà la mia reazione quando qualcuno mi taglia la strada con l’automobile non userò qualcosa del tipo:

«Ohibò, conducente di trabiccolo, immondo frutto di un accoppiamento coatto fra una scrofa e un cinghiale, stavi invero per cozzare contro il mio veicolo. Che possano gli dei donarti miglior vista, affinché tu possa rimirarti ogni giorno della tua esistenza per constatare la tua abiezione»

Quanto piuttosto:

«Guarda sto grandissimo figlio…»

Che poi, dico io, ti ha tagliato la strada? Prenditela con lui! Lascia stare la madre, che già è stata sfortunata ad avere un figlio del genere.



Per quanto riguarda il tema “volgarità e mancanza di tatto”, il Verismo è peggiore di qualsiasi reality attualmente in circolazione. Per dimostrarvelo vi propongo questa poesia di Ulisse Tanganelli, in cui si lamenta della “poca leggiadria” della donna cantata:

No: tu non sei la vergine ideata
Nel lieto immaginar dei sogni miei;
La figurina snella e delicata,
A cui la vita mia consacrerei. 


La grazia ho sempre nell’amor cercata;
E più del corpo l’anima vorrei:
E in te, ce n’è di ciccia una carrata;
Ma invan l’anima tua ricercherei. 


Credilo: amore fino al cor non passa
Cui forma il grasso impermeabil saio;
E più che saio mortuaria cassa. 

Tu mi sfondi perdio letto e solaio:

Io non ti posso amar sei troppo grassa!…
E ti giro senz’altro al macellaio.


Un vero gentleman d’altri tempi! 

E con questo credo di aver esaurito l’argomento linguaggio. Passiamo alla questione narratore. 

Dall’istituzione della scuola italiana fino a stamattina, quando si parla di Verismo la prof, con una voce ispirata, guardando verso il fondo dell’aula come se ci fosse un’apparizione mariana cita Verga: «L’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé», e in effetti è la migliore definizione per il narratore verista.
Per capirci meglio dobbiamo fare un passo indietro di 22 anni, quando mio padre comprò 54 videocassette con i documentari introdotti da Piero Angela. Cosa c’entra col Verismo? Lasciate fare e vi spiego. Io quelle 54 cassette le ho guardate tutte, dalla prima all’ultima, a 8 anni ero il massimo esperto europeo di migrazioni di gnu, eppure c’era una cosa che mi sconvolgeva: come faceva il documentarista a starsene nascosto buono buono mentre l’orso bianco si divorava il cucciolo di foca monaca, i suoi fratelli, la mamma e pure le foche vicine di casa? Bisognava essere senza cuore per documentare la natura?
La risposta non me la sono ancora data, tuttavia ho capito che se si vuole mostrare al pubblico cosa accade realmente in natura non bisogna assolutamente interferire con essa.
In definitiva è quello che fa lo scrittore verista: si limita a raccontare i fatti, senza esprimere giudizi etici o morali, senza entrare nella storia e se il tutto non sembra asettico è solo perché utilizza un linguaggio quanto più vicino ai protagonisti. 
Insomma, Manzoni è il tipo che al cinema commenta ogni singola scena, Verga invece è quello che si mette in ultima fila con i popcorn e fa in continuazione: «Ssshhhh!!!».
Il problema della teoria elaborata da Verga è che lo scrittore non è un documentarista e perciò non può rimanere freddo e distaccato e lasciar fare alla natura, soprattutto perché di mezzo ci sono le sue creature. Lo scrittore siciliano viene meno alla sua regola non in un romanzo, ma in una piccola novella: Rosso malpelo.
La storia la conosciamo tutti, perciò evito di fare inutili riassunti che potrebbero provocarvi il prolasso delle parti molli. Quello che ci interessa è vedere come in definitiva Verga passi la maggior parte del tempo a dire quanto quel ragazzo rosso di capelli si meritasse di essere picchiato dalla madre, dal patrigno, dalla sorella, dagli altri minatori che lavoravano con lui nella cava, dal padrone della miniera e da qualunque altro personaggio lo incontri.
Solitamente questa strana avversione di Verga per malpelo viene spiegata come un voler sottolineare la condizione del ragazzo e far capire al lettore in quale situazione si trovi e qual è il suo rapporto con gli altri. Naturalmente io non sono affatto d’accordo. È vero che la Letteratura è una scienza che va ricondotta a schemi precisi, ma è vero pure che non sempre si può confinare la creatività e l’emotività all’interno dei suddetti schemi. Quindi…
Per come la vedo io, Verga esagera nell’offendere e avvilire malpelo perché gli vuole “troppo bene”, il suo comportamento è simile a quello del ragazzo nei confronti di ranocchio: lo tratta male per prepararlo alla vita e il narratore esaspera volutamente le espressioni di disprezzo per provocare un moto di sdegno e rabbia nel lettore, per far sì che partecipi alla disperazione del protagonista e arrivi quasi ad odiare la voce narrante per la sua durezza.
Ovviamente un qualsiasi formalista russo potrebbe contestare la mia interpretazione, ma dubito che leggano questo blog. Visto che sono tutti morti. 

Se proprio vogliamo trovare una differenza davvero sostanziale fra il Verismo e i vari reality in circolazione la dobbiamo cercare nel finale. Possiamo cercare quanto vogliamo, in nessun romanzo verista alla fine il protagonista vince 500.000 euro. A dire il vero nessuna opera verista finisce bene.
Non mi credete? Mettete in dubbio la mia parola? Allora vi meritate questo megaspoilerone
  • Giacinta (Capuana): si suicida 
  • Rosso malpelo (Verga): muore in miniera 
  • Scurpiddu (Capuana): parte soldato (non si sa se torna) 
  • Canne al vento (Deledda): disgrazie a badilate, alla fine il protagonista muore (sereno, però) 

E ringraziate che mi fermo qui con il necrologio. 

Naturalmente le analogie fra reality e Verismo sono un tantinello forzate (mi rivolgo alle mie prof di lettere) e comunque finiscono qui.
Nei reality il protagonista è quell’uno su mille che ce la fa, che emerge dalla massa. Al contrario, il Verismo è un riflettore puntato proprio su quella massa di ultimi e diseredati (vanno sempre in coppia) di cui nessuno si occupa e che mai emergeranno, perché, parliamoci chiaro, nella vita di operai che diventano padroni della fabbrica se ne vedono pochini. 

Comunque, per la cronaca, non sono più riuscito a prendere sonno: continuavo a immaginarmi Corrado Augias vestito da Capitan Ventosa e con la voce dello speaker di Chi l’ha visto?.





mercoledì 2 aprile 2014

Il vecchio e il mare: (non sempre) le dimensioni contano

Ci sono vari motivi che spingono una persona ad aprire un blog. C’è chi vuole far sentire la sua opinione al mondo, c’è chi vuole giocarsi la carta «Beh, sai, sono un blogger» quando una ragazza gli chiede come mai a 45 anni abiti ancora con i genitori, c’è chi lo fa per soldi. Ebbene, io lo faccio per i soldi. Cioè, come potete constatare guardandovi in giro, qui non c’è traccia di pubblicità, eppure vi assicuro che da questo blog ricavo un bel di soldi. Anche se non ve li so quantificare perché non ho la più pallida idea di quali siano le tariffe vigenti di uno psicanalista. Cercherò di spiegarmi meglio.
I miei lettori più accaniti (grazie, mamma!) avranno certamente capito che tutta la storia del blog sulla Letteratura è solo una scusa per parlare delle mie fisime, facendomi risparmiare fior fiore di quattrini in psicanalisi e supposte di Xanax (mi auguro vivamente che non le producano davvero).
Il sistema ha funzionato fin quando, qualche settimana fa, a qualcuno in famiglia non è venuta in mente una brillante idea: «Riversiamo su DVD tutti i filmini di quando eravamo bambini».


«E allora, non è una cosa carina?». Carinissima. Ma per chi non ha una mente già compromessa da colloqui di lavoro del tono:

«La nostra azienda in verità è alla ricerca di una figura, massimo diciottenne, che sia laureata con lode e con almeno sei anni di esperienza nel settore dell’ingegneria gestionale»

«Vede, il candidato che stiamo cercando vive in Groenlandia. Massimo in provincia»

«Leggo sul curriculum che ha la patente B, immagino però che non sia capace di manovrare una navicella spaziale Sojuz 7K-0K di fabbricazione sovietica, o sbaglio?»

«Lei è esattamente la persona che stiamo cercando per pubblicizzare questo innovativo prodotto idratante assolutamente incolore e insapore»
«Ma quella è acqua!»
«Ah bene, vedo che è già nostro cliente»


Il primo trauma è stato scoprire che il filmino del mio battesimo non è registrato su una comunissima cassetta VHS ma in Super 8. Come l’omicidio di Kennedy. E così, mentre guardi la pellicola, immagini tuo padre con dei baffi Cavour-style e tu avvolto nei merletti che nemmeno i bambini di The Others.
Ti siedi allora comodo sul divano sperando ardentemente che non vi sia nulla di particolarmente imbarazzante, ma è una speranza vana: i filmini che ha girato tuo padre fra gli anni ‘80 e ‘90 vengono dal passato, come il demone dell’Esorcista, e con esso condividono l’altissimo livello di comprensione umana. Sullo schermo allora vedi passare i tuoi calzoncini ascellari color “Emmenthal eccessivamente stagionato” e cerchi qualcosa a cui aggrapparti per sviare l’attenzione, sei lì lì per dire: «Ma guarda com’ero magrolino da bambino», quando il tuo tentativo di depistaggio non solo non viene colto, ma vieni addirittura anticipato da qualcuno dal fondo della sala che urla: «Oh, ma sei sempre stato in carne, eh?». Portando la tua autostima a quota speleologica.


Eppure non tutto il male viene per nuocere, infatti è proprio vedendo questi filmini che ho capito la causa di una buona percentuale delle mie idiosincrasie. Per essere più chiaro è necessario che vi parli di Cassandra.
Cassandra è il nome che diedi a una mia parente non tanto per una precoce (e inverosimile) passione per le opere classiche, quanto perché da bambino vidi un film tratto dall’Iliade, sinceramente non è che capivo proprio tutto tutto e, non sapendo gli antefatti, per me Cassandra era una che diceva cose spiacevoli che puntualmente si avveravano. Una che portava sfiga, insomma. Proprio come questa mia parente. Per capire il tipo: facevi un colpo di tosse? Lei ti guardava fisso negli occhi e, con un tono di voce da Sibilla cumana, diceva che era l’influenza che stava girando e che prendeva anche all’intestino. Tempo 24/48 ore che ti trovavi in bagno a produrre concime sufficiente a risollevare l’agricoltura di tutto il Sud-est asiatico.
Ebbene, è proprio guardando il filmato di una festa di compleanno che mi sono improvvisamente ricordato di una profezia di Cassandra: compivo 8 anni, giocavo con i miei amichetti di scuola, lei amorevolmente rivolge lo sguardo a mia madre e le dice: «Certo che lui è il più alto della classe». Zac! L’anno successivo mi ritrovo circondato da una tribù di Watussi.


Direte: «Ma come, credi a queste stupidaggini?». No che non ci credo, almeno fin quando non mi riguardano direttamente. Ripensandoci però ho constato che tutta la mia esistenza è stata costellata da problemi di altezza. Non la mia, quella degli altri. Già, perché non sono mai stato particolarmente basso, purtroppo però ho sempre avuto la caratteristica di circondarmi di persone più alte di me dai 15 ai 20 centimetri.
Quando ci si trova nella mia situazione puoi fare solamente due cose:
  1. Scappare con un circo e circondarsi di nani
  2. Prenderla con filosofia

Naturalmente ho scelto la strada più logica. Anche se a volte penso avrei fatto meglio a prenderla con filosofia.

Tradizionalmente chi ha problemi di altezza si consola chiamando in causa i più grandi personaggi storici bassi di statura: Napoleone, Gandhi, Arafat, Pupo, Renato Brunet… ehm già l’ho detto Pupo?
L’alternativa è rispondere agli sfottò con la frase: «Nella botte piccola c’è il vino buono». Ebbene, amici miei, in verità in verità vi dico che questo detto vale anche per la Letteratura, pensate alla Fattoria degli animali di Orwell, diventato un classico dal basso delle sue 140 pagine, Il piccolo principe (123 pagine), Cuore di tenebra di Conrad (103 pagine). Tuttavia il caso più emblematico (paradigmatico faceva troppo blog di Selvaggia Lucarelli) è il Vecchio e il mare, con queste 142 pagine Hemingway ci ha vinto il Nobel e il Pulitzer, io non ci faccio nemmeno la lista della spesa.


Ma chi era questo simpatico signore che ha segnato tutta la Letteratura del Novecento?
Ernest Hemingway nasce a Oak Park (Stati Uniti) nel 1899 da un medico e da una aspirante cantante d’opera. Il padre gli instilla fin da bambino l’amore per la natura lo porta ad appassionarsi all’avventura, agli animali e alla caccia (non ci fate caso, per Hemingway le cose erano compatibili).
Fate i fighi perché avete fatto tre mesi di Erasmus in Spagna? Hemingway a 18 anni parte per l’Italia per diventare autista di ambulanza per la Croce Rossa. Era il 1917 e l’Europa si trovava nel bel mezzo della Prima guerra mondiale. Non vi basta? Dopo pochi mesi il nostro futuro scrittore fa domanda per essere trasferito in trincea perché vuole vedere da vicino la guerra, il sangue dei soldati che sprizzava dalle ferite. Mica la sangria!
Tornato in patria comincia a scrivere per un giornale canadese che, stranamente invece di proporgli di lavorare almeno due anni senza stipendio per prendere il tesserino da giornalista-pubblicista, vista la sua bravura, lo manda di nuovo in Europa come corrispondente. In questo periodo Hemingway vive fra Italia, Francia, Spagna e Svizzera e saranno gli anni che lo avvicineranno alle sue grandi passioni: la corrida e la Letteratura.


Con la pubblicazione dei primi racconti il nostro eroe capisce di avere la stoffa per diventare uno scrittore di successo, perciò si comporta di conseguenza conducendo una vita sregolata e venendo a contatto con alcune leggende come Francis Scott Fitzgerald con cui stringerà una grande amicizia.
Per capire che tipo di vita facesse Hemingway basta leggere Festa mobile, in cui racconta il suo soggiorno nella Parigi negli anni Venti. Riassumo per chi non l’avesse letto: festini, risse, ubriacature. Se non fosse per il fatto che ogni tanto compaiono Ezra Pound e James Joyce e per la totale assenza di escort sembrerebbe la biografia di Lapo Elkann.


Alla vigilia della Seconda guerra mondiale Hemingway è a Cuba e sta scrivendo Per chi suona la campana. Fa le carte false per tornare in Europa e documentare il tutto? Ma non ci pensa nemmeno, però i nazisti e i fascisti gli stanno talmente sulle scatole che diventa un agente segreto al servizio degli Stati Uniti per impedire infiltrazioni naziste a Cuba (Effettivamente «Fammi un nazi libre» non suonava granché). 
Appena terminato il secondo conflitto mondiale Ernest torna in Italia (qui intraprende anche una relazione extraconiugale con una nobildonna di una trentina d’anni più giovane) e poi di nuovo a Cuba, dove scrive Il vecchio e il mare, con cui vince il Nobel.
Gli ultimi anni della sua vita li passa in depressione e affetto da manie di persecuzione e gli psichiatri dell’epoca come decidono di curare la mente più brillante del secolo? Con delle salutari sedute di elettroshock (anche venti al giorno). Praticamente è come presentarsi davanti al Partenone con una ruspa da demolizioni e dire: «Allora, lo cominciamo questo restauro?».
Ormai preda della depressione (e volevo vedere voi), Hemingway decide di porre fine alla sua vita nel più hemingwayano dei modi: nel 1961 si spara con un fucile da caccia.


Ma veniamo all’argomento principale. 
Il problema de Il vecchio e il mare è superare le prime cinque pagine: conosco persone che leggono mattoni di 2800 pagine sulla figura di fra Galdino nei Promessi sposi ma non riescono a superare la sonnolenza dovuta a questo capolavoro della Letteratura contemporanea. Effettivamente non hanno tutti i torti, pur essendo una via di mezzo fra un romanzo e un racconto lungo, Il vecchio e il mare ha un ritmo un po’ lento, in pratica è la versione cartacea de La grande bellezza di Sorrentino: bello bello bello, ma se non stai attento rischi di svegliarti dopo i titoli di coda, costringendoti a cimentarti in avvilenti recensioni alla Vanity Fair: «Finalmente un grande film italiano», «Rispecchia a pieno la situazione attuale dell’Italia» e via dicendo.


Una volta superata pagina 5 il gioco è fatto, a quel punto potete leggerlo tutto. La trama de Il vecchio e il mare è abbastanza semplice: Santiago è un anziano pescatore cubano molto sfortunato che un giorno cattura un marlin. 
Come si fa a vincere un Nobel, un Pulitzer e ricavarci un film di un’ora e mezzo con questi presupposti? Ve lo spiego io.
Come abbiamo detto, il protagonista del libro è Santiago, un pescatore di Cuba appassionato di baseball (il suo mito è Joe Di Maggio), segnato dal tempo e dal sole. Il suo unico amico è il giovane Manolin, un ragazzo i cui genitori hanno proibito di assistere il vecchio nel corso delle sue battute di pesca perché ritenuto quasi maledetto dal destino, visto che non riesce mai a portare a terra un bottino decente.
Un giorno Santiago decide di partire da solo in mare aperto per dimostrare a coloro che lo prendono in giro che su di lui non c’è alcuna maledizione ed effettivamente riesce a catturare un grosso marlin di cinque metri e mezzo. Torna al villaggio, tutti si ricredono e finisce a tarallucci e vino? Toglietevelo dalla testa gente, questo è Hemingway, mica Twilight
Il fatto è che il pesce è troppo grosso per essere issato sulla barca, perciò, dopo tre giorni di lotta in cui il marlin si porta a spasso Santiago per tutto il Mar dei Caraibi, il vecchio è costretto a legarlo in acqua, cosa che ovviamente attira i pescecani che divoreranno tutta la preda e giungerà perciò a terra solo lo scheletro.


A parte le evidenti analogie con Sampei, Il vecchio e il mare è tutta una grande metafora sulla vita e, che ci crediate o no, Santiago, pur essendo un pescatore, è il personaggio più ambientalista mai concepito. Giusto per dirne qualcuna: a un certo punto Santiago finisce la scorta di cibo, perciò è costretto a nutrirsi di pesci crudi pescati sul momento, perlopiù tuna e lampuga. Hemingway insiste parecchio sul fatto che Santiago uccide i pesci solo per nutrirsene e non ha alcun motivo per odiarli, e il protagonista in più occasioni arriva persino a scusarsi con le su prede per averle catturate. Lo stesso rapporto con il grosso marlin è quasi alla pari, lottano entrambi per la sopravvivenza e si rispettano (non chiedetemi come fa un pesce spada a mostrare rispetto) e lo stesso pesce, dopo tre giorni di combattimento, decide di lasciarsi andare, di arrendersi al pescatore piuttosto che venire mangiato dagli squali.

Non che voglia fare psicologia da salotto, ma se ci riflettiamo Il vecchio e il mare è la dimostrazione di come un essere umano dovrebbe vivere: lottare fino alla fine contro le avversità, ma avere, nello stesso tempo, il coraggio di dichiararsi sconfitto quando l’avversario lo merita davvero, piuttosto che cedere a tutti i pescecani che ci ruotano attorno mentre siamo agonizzanti.
Paradossalmente però lo scrittore sostenne sempre che si trattava solo di una storia di pesca che non mascherava alcun simbolismo (ma secondo me lo disse solo per fare il figo con quelli del comitato del Nobel).


Tutto qui? Tutto qui. È vero che stiamo parlando di Hemingway, ma in 140 pagine spiega il segreto della vita, che doveva mettere più, pure dove si trova il Santo Graal?

Piccola curiosità per gli amanti della filologia più spinta. La traduzione italiana del romanzo è stata curata da Fernanda Pivano, la grande traduttrice però, vuoi perché era amica di Hemingway, vuoi per eccesso di fiducia, fece un errore abbastanza grossolano: rese dolphinfish (lampuga) con delfino. Fatto sta che, nell’edizione italiana, Santiago pesca un delfino e gli leva le branchie (che ovviamente non ha).

Ma cosa ci resta di Hemingway alla fine di questo libro?
Beh, stando a una recente statistica, in Italia ci sono più scrittori che lettori (il fatto che stia scrivendo questo post invece di leggermi l’ultimo libro dei Cesaroni ne è la prova più evidente). Lo scrittore statunitense però può essere un rimedio a tutto ciò, per esempio quando ci viene voglia di prendere la penna e scrivere qualcosa di diverso da «Ci vediamo più tardi. Il cane ha già fatto pipì», apriamo un libro di Hemingway e leggiamo due pagine a caso, poi ci porgiamo la domanda: «Sono in grado di scrivere qualcosa che assomigli anche solo molto lontanamente a questo?». Se la risposta è no, allora chiudiamoci in uno sgabuzzino a vergognarci per aver inviato il nostro manoscritto a Masterpiece (non mentite, so che lo avete fatto).
Già, perché Hemingway è la quintessenza della Letteratura; è il Novecento che risponde all’Ottocento che l’epoca dei grandi romanzi non è ancora finita; è il prototipo dello scrittore sopra le righe prima che Andrea Pinketts si rovinasse con Mistero; è la coerente contraddizione che ama la natura ma non disdegna di farsi una corsettina coi tori a Pamplona; è Picasso un po’ più alcolista e un po’ meno allegro.
Questa è naturalmente solo la mia opinione, ma, essendo il blog per sua natura l’istituzione più vicina alla monarchia teocratica, fatevela andare bene così.


Allora, la prossima volta che vi prenderanno in giro per la 
vostra statura ricordate che un raccontino di manco 200
pagine ha vinto il Nobel e soprattutto ricordate dove è 
arrivato Brunetta nonostante il suo evidente problema (oltre 
il fatto che sia anche basso).