Parliamoci chiaro, gli stereotipi ci aiutano a vivere
meglio. Quando per esempio rispondo a un’offerta di lavoro e dico che sono
meridionale, dall’altro capo del telefono seguono cinque secondi di
imbarazzante silenzio in cui il mio interlocutore mi immagina: o in sette su un
motorino, o vestito da Pulcinella che suono il mandolino. E l’unica cosa che
gli viene in mente di chiedermi non è tanto come mi pongo nei confronti del
metodo filologico di Bédier, ma piuttosto come mai la pizza della moglie non
viene così morbida come quella che ha assaggiato l’unica volta che è sceso più
a sud di Frosinone, nel ’76.
Allo stesso modo quando si parla di poeti la nostra mente tende a concepire
solo due opzioni:
A - Il poeta trionfante: alloro, mantello, penna
d’oca, insomma tutto il kit canonico
B - Il poeta maledetto: quello sofferente, più
pesante di un kebab a colazione, più triste di un’intervista a Briatore
In realtà esiste un altro tipo di poeta: il gaudente. Questo è il tipo di poeta che non segue tanto
una vocazione, quanto una riluttanza: al lavoro. Stiamo parlando del genere di
persona che proprio non se la sente di andare a lavorare, ma del resto è troppo
intellettuale per scippare le vecchiette
appena uscite dalla posta. Tutto ciò non significa che il gaudente non sia un
bravo poeta, tutt’altro: la sua idiosincrasia per il lavoro lo costringe ad
applicarsi talmente tanto nell’arte poetica da diventare un autentico genio.
La figura del poeta gaudente è nata a cavallo fra l’Ottocento e il Novecento,
ma siamo stati sfortunati. Immaginiamo un’ipotetica partita Italia-Inghilterra:
noi nel Trecento-Quattrocento passiamo in vantaggio con il tridente Dante-Petrarca-Boccaccio,
gli inglesi rispondono con Chaucer. Nel Cinquecento-Seicento mettiamo in campo
la coppia Tasso-Ariosto, ma gli avversari se la cavano bene con Shakespeare.
Nell’Ottocento cominciamo a mostrare i primi segni di stanchezza: entra in
campo D’Annunzio, ma gli inglesi schierano Oscar Wilde. Senza contare che il
futurismo russo vede gente come Majakovskij, mentre a noi tocca Marinetti (Zang Tumb Tumb… avete presente, no?)
Come avrete capito l’esempio di gaudente nella letteratura italiana è Gabriele
D’Annunzio, il poeta più misogino, reazionario, guerrafondaio che l’italico
ingegno abbia mai prodotto (e ho elencato solo gli aspetti positivi!). Perché
quindi dobbiamo leggere e studiare D’Annunzio? Per il semplice motivo che (al
di là delle opinioni personali del sottoscritto) è un grande poeta, esponente
principale del Decadentismo italiano, nonché fonte inesauribile di leggende
metropolitane.
Quando durante l’anno scolastico infatti si arriva al momento fatidico in cui
la prof spiega il Vate, un’inquietudine serpeggia fra i banchi, un lieve sibilo
indistinto di cui si riesce ad afferrare un solo vocabolo di tre sillabe: co-sto-le.
Per chi non lo sapesse (o per meglio dire, per chi facesse finta di non
saperlo) la leggenda narra che D’Annunzio si sia fatto togliere due costole per
“autoconoscersi biblicamente”.
Come si propaghi la diceria in una classe rimane uno di quei misteri che
neanche Giacobbo si azzarderebbe ad
indagare. Normalmente a metterla in giro è il genere di studente figlio unico,
irrequieto, di quelli che anche la Montessori non avrebbe esitato ad educare a
colpi di frecce al bromuro, come i rinoceronti africani. Questo ci porta a fare
alcune considerazioni:
- La leggenda non è tramandata da un fratello maggiore
- Internet non c’entra niente, circolava già ai tempi di mio nonno e non credo che sulla Treccani abbiano fatto qualche accenno alla vicenda
- Esistono, in qualche parte dell’universo, genitori che dopo aver messo il grembiulino ai figlioletti, riposto la merendina nella cartella e sistemato il fiocco, dicono loro: «E ricordati che D’Annunzio si è fatto togliere due costole per farsi un “servizietto” da solo»
Vero o falso? Per scoprire la
verità basti considerare che D’Annunzio è stato il capostipite di una lunga
tradizione di personaggi ricchi e famosi che ancora oggi circuiscono delle
ragazze giovani e carine che si fanno (volentieri) irretire per ottenere un po’
di pubblicità.
Non vi ho convinto ancora? Allora facciamo un esperimento: chiudiamo gli occhi
per un attimo e immaginiamo la scena - Gabriele D’Annunzio entra nello studio
del chirurgo:
D’Annunzio: «Salve dottore, dovrei togliere due costole»
Chirurgo: «Accusa disturbi di sorta?»
D: «No»
C: «Ha problemi motori, respiratori?»
D: «No»
C: «E allora perché dovrei asportarle delle costole, di grazia?»
D: «Per farmi un … da solo. Sa com’è, ci sono delle sere in cui mi sento tanto,
tanto solo…»
Ecco, se la scena vi sembra verosimile vi consiglio seriamente di farvi vedere
da uno bravo, in caso contrario capite che si tratta di una fantasia creata da
qualche studente posseduto violentemente dagli ormoni.
Veniamo dunque alla parte meno interessante di questo post: la poetica di
D’Annunzio.
Onde evitare fratture multiple alla scatola cranica dovute ad improvvisi
appisolamenti, in questa sede parleremo solo di due aspetti della poetica del
Vate:
- La lettura di Nietzsche
- La sindrome di Oscar Giannino
Di tutta la bibliografia di
Nietzsche, a Gabriele D’Annunzio la storia del Superuomo piacque da morire,
tanto che partì come volontario per la Prima Guerra Mondiale, compì un volo su
Vienna lanciando dei volantini propagandistici, ma soprattutto organizzò
l’Impresa di Fiume. In pratica occupò la città di Fiume che al termine del
primo conflitto mondiale non era stata assegnata all’Italia, il che ovviamente
non ci legittima a presentarci alle riunioni
di condominio con una copia di Così
parlo Zarathustra avanzando pretese sugli appartamenti sfitti.
Per quanto riguarda la sindrome di Oscar
Giannino, D’Annunzio avrebbe voluto vendere il ghiaccio agli eschimesi,
cioè essere la guida spirituale di un popolo votato alla guerra, vale a dire
l’unico campo in cui non ci siamo mai distinti granché. E per raggiungere il
suo scopo il Vate intendeva spronare gli italiani con discorsi di questo tono:
Italiani d'ogni
generazione e d' ogni confessione, nati dell'unica madre, gente nostra, sangue
nostro, fratelli;
e voi miracolo mostrato dal non cieco destino, ultimi della sacra schiera
sopravviventi in terra, o forse riapparsi oggi dalla profondità della gloria
per testimoniare agli immemori, agli increduli, agli indegni come veramente un
giorno respirasse in bocche mortali e moltiplicasse la forza delle ossa caduche
quell'anima stessa che qui gira e solleva il bronzo durevole
Un po’ ostico, no? Figuratevi
quello che poteva capire una popolazione il cui tasso di analfabetismo superava
l’80%. Poi si lamentava di essere incompreso…
Sia come sia, è innegabile che Gabriele D’Annunzio sia uno dei pilastri della
poesia moderna. Prendiamo per esempio la Pioggia
nel pineto.
Per quanto riguarda le stupende assonanze e allitterazioni che vi troviamo e
che creano un effetto onomatopeico richiamando all’orecchio i suoni dello scrosciare
della pioggia ecc. ecc., non perdete tempo a leggere il resto del post, per
quello potete consultare qualsiasi antologia.
Personalmente voglio porre l’accento su un aspetto poco indagato:
Il poeta si trova in una pineta a Marina di Pisa, manco a dirlo, con una
ragazza (ve l’avevo detto che è un gaudente). All’improvviso scoppia un
temporale, dato che non hanno ancora inventato Discovery Channel, non sanno che quello è il posto peggiore dove
stare e invece di correre e mettersi al riparo prima che un fulmine ponga fine
alla carriera del Vate, D’Annunzio blocca la sua compagna e le dice:
Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane
Ecco, concentriamoci su quel Taci, che può avere due possibili interpretazioni:
1- La ragazza si sarà giustamente lamentata perché
con tutta quell’acqua come minimo si poteva buscare una broncopolmonite
fulminante, senza contare che sebbene non avesse visto Discovery Channel avrà intuito che c’era il rischio di fare la fine
del Coyote che insegue Beep Beep
2- Ma il significato potrebbe anche essere:
«Ermione, vedi di stare zitta che io sarò pure dandy quanto vuoi, ma se mi
sgamano in mezzo al bosco con una che potrebbe essere mia figlia, ci faccio una
figura che a confronto Fabrizio Corona sembra la Montalcini»
C’è poco da fare: D’Annunzio o lo sia ama o si nutre per lui
una simpatia pari alle ingiunzioni di pagamento di Equitalia. Personaggio
controverso che ambiva alla libertà intellettuale, ma allo stesso tempo non
disdegnava di sponsorizzare alcuni prodotti peggio di Mastrota, bisogna
riconoscere che il Vate è stato un genio indiscusso, e non solo perché come
abbiamo appena visto pure quando andava in camporella lo faceva in grande
stile, ma soprattutto perché ha lasciato un’impronta indelebile nella poesia
italiana fin dalla raccolta Primo Vere,
che pubblicò a sedici anni. E per quanto i tempi possano essere cambiati,
potete mettere la mano sul fuoco che un ragazzino a sedici anni, allora come
oggi, a tutto pensa fuorché alla poesia. Non so se mi spiego.
Comunque, tanto per la cronaca: il segreto della pizza è la lievitazione. Lo
sanno tutti, ecchecavolo!
Diciamo pure che qui il "Sii grande e infelice" del Leopardi non si applica alla lettera...lui era grande e gaudente, per giunta! Certo, forse Wilde ha goduto un po' meno, vista la vecchiaia non esattamente allegra...
RispondiEliminap.s. pochissimo lievito, giusta idratazione e luuuunga lievitazione! ;D
Alla "finta" tristezza di Leopardi infatti dedicherò uno dei prossimi post.
EliminaIl povero Wilde è stato un gaudente finché ha potuto, ma del resto anche D'Annunzio negli ultimi anni non è che si divertisse granché al Vittoriale (sicuramente più di Wilde comunque).
Al prossimo colloquio di lavoro impressionerò il selezionatore con i tuoi consigli sulla pizza :D
ho letto quest'articolo grazie a Gabri che lo ha condiviso.
RispondiEliminaSe avessi conosciuto questo blog ai tempi giusti forse sarebbe stato più facile per me superare alcune interrogazioni :-)
viva i gaudenti dunque, credo di potermi schierare dalla parte di chi li ama!
e viva la pizza ben fatta!
Ti ringrazio, ma avresti dovuto avere una professoressa con un senso della letteratura abbastanza "dinamico" :D
EliminaNon posso che condividere: "viva i poeti", ma soprattutto "viva la pizza"!
Sono una professoressa di Lettere, insegno in un istituto superiore e proprio qualche giorno fa, mentre parlavo di D'Annunzio, mi è arrivata la fatidica domanda: "Profe, ma è vero che D'Annunzio si fece togliere le costole per ciucciarselo?" :-D Grazie per questo post esilarante: lo farò leggere all'alunno chiedendogli se la scena gli sembra verosimile ed eventualmente accompagnandolo da "uno bravo" come suggerisci tu :-D
RispondiEliminache D'Annunzio abbia o meno fatto un'idiozia così assurda, mi pare del tutto improbabile di per sé, non perché mi immagino la scena dal chirurgo.....che i chirurghi basta pagarli ! ( pare che dire semplicemente, farsi un pompino, sia cosa difficile )
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