martedì 18 dicembre 2012

Eneide: Omero rmx feat. Dj Virgilio


Mio cugino è sposato da dieci anni. Lui è un tipo esigente, dice che LA macchina è la Mercedes, LE scarpe sono le Hogan, IL computer è Apple… ma dove mio cugino si supera è in cucina: non mangia pasta se non è di marca, trafilata al bronzo, quella che si vende a carati, in quei negozi in cui ti danno quei vasetti con i funghi dalla carta scura e spessa, dall’aria talmente autorevole che non sai se mangiarli o metterli sul caminetto al posto delle ceneri di nonna. Ebbene, è da quando è sposato che la moglie compra la pasta al discount e la mette negli involucri della pasta “buona”, senza che lui si sia mai accorto di nulla.

Quali preziosi insegnamenti possiamo dunque trarre da questa edificante storiellina?

  1.    Che mio cugino non guarda le scadenze, altrimenti si sarebbe accorto che la sua pasta “trafilata al bronzo” è scaduta da almeno sette anni
  2.    Che a volte non conta quello che fai ma come lo presenti


Ora, non sappiamo se Virgilio guardasse o meno le scadenze (la critica tace clamorosamente su questo punto), senza dubbio però possiamo dire che è stato capace di realizzare un grande capolavoro con dei materiali di recupero.
Se dopo questa affermazione non siete subito corsi sul blog della brunetta dei Ricchi e Poveri, lasciate che mi spieghi.

Publio Virgilio Marone nasce a Mantova nel 70 a.C., come regola avrebbe dovuto disperarsi perché la mortalità infantile era al 90%, non avevano ancora inventato gli antibiotici, le patatine fritte, internet, la bomba atomica, le mine antiuomo, il gioco dei pacchi… insomma non si aveva ancora raggiunto l’elevatissimo grado di civilizzazione attuale. Nonostante tutto però il fato gli sorride e lo fa nascere in una famiglia sufficientemente ricca da poterlo mandare a studiare nella migliore scuola di eloquenza di Roma. Mica era un bamboccione, lui.
Proprio mentre si trova nella capitale, fra un happy hour e l’altro (ok, non si chiamavano così ma il principio era lo stesso), lo stato gli confisca tutto per darlo ai veterani della guerra civile (e pensare che appena tornato dal Vietnam a Rambo lo schiaffano in galera).

Adesso spiegherò un concetto che a noi persone moderne può risultare difficile da comprendere: a quel tempo se avevi amici influenti potevi avere un po’ di agevolazioni, occupare posti di potere, fare parecchi soldi.
Ebbene, il nostro Virgilio, che fra gli amici su Facebook aveva gente come Mecenate, Pollione e Augusto, riesce non-si-sa-come a farsi revocare la confisca. 
Altro che richieste di Farmville.

Tuttavia come ogni associazione a delinquere che si rispetti i favori vanno restituiti. Per questo motivo Augusto commissiona a Virgilio un’opera che lo magnificasse. Non è che le scelte fossero tantissime, avrebbe dovuto scrivere: o quanto era bravo in battaglia, o quanto la sua famiglia fosse nobile/predestinata/favorita. Dato che Augusto non era proprio famoso per le sue doti belliche, la scelta era obbligata.

Per far fare bella figura ad Augusto perciò Virgilio decide di narrare le gesta di Enea, presunto antenato dell’imperatore, personaggio talmente sfigato che se fosse morto nell’incendio di Troia avrebbe fatto comunque una figura migliore. Enea nell’Iliade è una specie di comparsa, cugino di trentottesimo/trentanovesimo grado di Paride, la sua rilevanza è tale che anche il regista di Troy non se l’è sentita di pagare un attore serio per impersonarlo. 
La storia dell’Eneide è in pratica la stessa dell’Odissea, per i più scettici ho preparato una comoda tabella:

               

Mettiamola così: Virgilio avrebbe vinto l’Oscar come migliore sceneggiatura non originale.

Vi starete chiedendo se ci sia qualche differenza con il poema di Omero, sennò perché a scuola ci scartavetrano gli zebedei con l’Eneide? Effettivamente una differenza c’è: Enea è figlio di Venere ed è lo stereotipo dell’italiano mammone che non riesce a staccarsi dalla sottana di mammà.
Per tutto il poema infatti Venere compare continuamente e solo per fare interventi del tipo: «Enea, parti e vai nel Lazio», «Enea, lascia Didone che non è la ragazza per te. Oltretutto è pure vedova», «Enea, fai la guerra contro questo», «Enea, fai la guerra contro quello», «Enea, mettiti la maglia di lana che se buschi un raffreddore poi le prendi».

Gli studenti con una coscienza critica e alto spirito civile diranno: «Virgilio era servo del potere e ha scritto un’opera da lecchino. Organizziamo un sit-in per non studiare l’Eneide». Lo so, vi piacerebbe, ma è qui che lo scrittore latino ci frega tutti.
Virgilio non è un lecchino, lui ci crede davvero nella politica di Augusto (dopo i favori che gli ha fatto volevo vedere), inoltre, anche se incompleta, l’Eneide è scritta splendidamente, alla faccia di chi dice che bisogna avere una storia originale per sfondare come scrittori (già, Virgilio è il modello di riferimento di Moccia).

Se può esservi di aiuto per invogliarvi allo studio dell’Eneide o per sfrattare i ragni che vi hanno costruito un condominio nella libreria, considerate che l’opera di Virgilio può essere comodamente usata per fare citazioni latine a vanvera.

 Esempi:
  •  La persona che schifate a morte vi fa un regalo? Ditele: Timeo Danaos et dona ferentes (Temo i Greci anche quando portano doni) [Libro II, 49]
  • State guardando Porta a Porta e vostro suocero inveisce contro il politico di turno? Ab uno disce omnis (Da uno capisci come sono fatti tutti) [Libro III, 64-65]
  • La polizia vi chiede come mai siete incaprettati nudi sul bordo dell’autostrada che porta al confine Messicano? Horresco refens (Inorridisco nel raccontare) [Libro II, 204]
  • Mentre fate benzina con il motore acceso date fuoco al distributore? Adgnosco veteris vestigia flammae (Conosco i segni dell’antica fiamma) [Libro IV, 23]
  •  Il tom tom si è scaricato e la vostra ragazza è intenzionata ad uccidervi con il cric e a seppellirvi nel bosco perché non avete seguito i suoi consigli? Fata via invenient (I fati troveranno la via) [Libro III, 395]

Rassegniamoci quindi ad amare questo capolavoro della letteratura latina, anche perché altrimenti non capiremmo la letteratura italiana. L’Eneide è stato il modello a cui hanno guardato Dante e Petrarca, l’incipit della Gerusalemme Liberata di Tasso («Canto l’arme pietose e ’l capitano») è praticamente la traduzione di quello virgiliano «Arma virumque cano».
E se l’hanno fatto non erano fessi.

Ah, dimenticavo: un saluto a mio cugino. 

martedì 4 dicembre 2012

I Promessi Sposi - Part Three: The Breaking Dawn


Organizzata la fuga manco fossero due ex SS che scappano in Argentina, Renzo e Lucia prendono strade diverse. La ragazza va a finire prima in un convento di Cappuccini e poi, secondo l’antica usanza milanese di “rimbalzare” i poveracci dai luoghi più cool, spedita a Monza.

Arrivati a questo punto gli studenti più smaliziati, cioè quelli che guardando le immagini sul libro di testo riescono a distinguere con una buona approssimazione Leopardi da Petrarca, fiutano che può esserci materiale interessante. Cominciano a sfogliare avidamente le pagine del libro, gli ormoni segnalano chiaramente che lì, da qualche parte, sono nascoste descrizioni piccanti, corpi sudati e aggrovigliati, un campionario a luci rosse tale da far sembrare Tinto Brass il regista delle messe domenicali su Rai Uno. Ebbene, lasciatemi dire che se si confonde I Promessi Sposi con Cinquanta sfumature di grigio, non ce la possiamo prendere con Manzoni, ma piuttosto con gli anni Ottanta e tutti i film con Alvaro Vitali ed Edwige Fenech, in cui la Monaca di Monza passava la giornata a farsi la doccia mentre il resto del convento la spiava dal buco della serratura.

A dispetto di ogni speranza Manzoni non fa scoprire nemmeno una caviglia alla Monaca di Monza (per gli amici Gertrude o “La Signora”). Ignorando i richiami della natura, l’autore infatti, nella descrizione del personaggio, anticipa non solo le teorie psicoanalitiche di Freud e Jung, ma anche le prime dieci stagioni di Criminal Minds e CSI Miami, fornendo un profilo psicologico fatto di soprusi familiari, amori contrastati e impossibili, violenze dirette e indirette di ogni sorta, al termine del quale il lettore che si trovi a guardare in televisione le immagini dei campi di concentramento nazisti non può che esclamare: «Beh, bisogna vedere cos’è che gli hanno fatto a quell’Hitler lì, da bambino». 

Ma il punto che tengo a sottolineare è la genialità dei confratelli di Fra Cristoforo. Per apprezzarla appieno è necessario fare un piccolo riepilogo: Lucia è una ragazza che si deve sposare ma è ostacolata da un signorotto locale. Loro a chi l’affidano? A una che giornalmente produce l’equivalente di dodici silos di bile perché si voleva sposare, ma la famiglia ha fatto rinchiudere in convento e che per giunta ha una tresca con un conoscente di Don Rodrigo. 
Come minimo oggi farebbero i consulenti al Ministero per le Pari Opportunità.
Com’è prevedibile Gertrude un po’ perché costretta dal suo amante Egidio, un po’ perché effettivamente la ragazza, con la sua prorompente simpatia, le sta proprio lì, sotto la tonaca, consegna Lucia all’Innominato, noto boss del lecchese affiliato al cartello di Don Rodrigo.


Avete presente quando portate la macchina dal meccanico e vi prende la netta sensazione che lui non l’abbia vista nemmeno col binocolo, mentre ci ha messo sicuramente le mani il ragazzo di bottega? Ecco, in letteratura questa fastidiosa sensazione si chiama straniamento. È esattamente quello che succede con le pagine dedicate all’Innominato. Fino adesso abbiamo avuto a che fare con un rispettabile romanzo storico, ma quando entra in scena questo personaggio Manzoni diventa Samantha (o Jessica, o Katiusha, fate voi), una specie di ragazzina quattordicenne che passa le giornate a guardare serie sui vampiri su Sky. Del resto gli ingredienti ci sono tutti:

  •      Un castello diroccato su una montagna
  •      Il cattivo che poi così cattivo non è
  •      La “bella” imprigionata nelle segrete

Il lupo mannaro non è che me lo sono dimenticato, è che proprio non c’è.

Lucia passa una notte tormentata nelle segrete del castello e pur di salvarsi fa voto di castità alla Madonna, ma l’Innominato (che si comporta pari pari a Marlon Brando nel Padrino), colpito dalla purezza e dal candore della fanciulla, con un colpo di spugna degno solo dei migliori regimi autocratici coreani, cancella tutte le ragazze violentate, le rapine, le usure, il contrabbando fin a quel momento commessi e si somministra da solo l’assoluzione plenaria e l’amnistia. Ditemi se non vi viene voglia di farlo Presidente del Consiglio seduta stante.

Ma passiamo a Renzo. Lui viene “rimbalzato” perché il suo PR (metaforicamente parlando) aveva dimenticato di avvisare quelli del locale. Il nostro si trova suo malgrado coinvolto in una sommossa popolare provocata dall’aumento del prezzo del pane, dato che manca poco che l’arrestino decide di andare da suo cugino che abita in un altro stato. Con grande disappunto dei tour operator dell’epoca, il concetto di “estero” nel Seicento è un tantinello diverso dal nostro, infatti Renzo si rifugia a Bergamo, che a quel tempo si trovava nel territorio della Repubblica di Venezia. Qui il giovane riprende il suo lavoro di tessitore sotto il nome falso di Antonio Rivolta, che è un po’ come girare per New York la mattina dell’undici settembre presentandosi alla gente dicendo: «Piacere, Pasquale Kamikaze».
Comunque, dopo una serie di alterne vicende, fra cui la calata dei lanzichenecchi che come special guest si portavano dietro la peste, finalmente Renzo e Lucia si rincontrano nel lazzaretto dove Don Rodrigo sta tirando le cuoia, non prima però di avere ottenuto il perdono dalla coppietta. In realtà nella prima versione della dipartita di Don Rodrigo, questi doveva salire a cavallo delirante credendo di essere in mezzo a una battaglia, ma evidentemente Manzoni deve essersi reso conto che un finale del genere avrebbe messo in imbarazzo anche i fan più accaniti di Massimo Boldi e Christian De Sica.

Lieto fine quindi? Non proprio, infatti c’è ancora la questione voto di castità. L’autore con un colpo da maestro (e forse anche perché la cosa andava un po’ troppo per le lunghe) decide di far ritornare in scena Fra Cristoforo che, non si capisce in virtù di quali poteri conferitigli (romanzo alla mano eh, andate a controllare), scioglie il voto di Lucia e i due finalmente possono sposarsi, facendo una caterva di figli. Dopo che Don Abbondio si è assicurato che Don Rodrigo è morto, s’intende.

Arrivati a questo punto dovremmo tirare le conclusioni, parlare del ruolo della Provvidenza, del giansenismo insito nella visione della vita di Manzoni, del fatto che non si tratti di un romanzo formativo… ma per quello, nella sua infinita bontà, Dio ha inventato internet e i riassunti già fatti.
Piuttosto mi piace immaginare un possibile seguito, una cosa all’americana come va di moda adesso. Uno spin off sulla Monaca di Monza o sulla giovinezza dell’Innominato, oppure Manzoni avrebbe potuto terminare con un bel finale aperto, tipo la mano di Don Rodrigo che esce dalla tomba, mentre i due sposini lasciano la chiesa. E lì giù di merchandising: le spille de I Promessi Sposi, il blu-ray, le tovagliette, i copriwater, gli status su Facebook con le frasi più romantiche tratte dal libro…   

Ma forse è proprio per questo che Manzoni è molto più figo di Twilight.