Non ho molta simpatia per le feste comandate. Dice: «Ecco il
solito post prenatalizio in cui: “ma che palle il Natale/la
Pasqua/l’Epifania/la festa della mamma/la sagra dei gargarozzi in umido…”». No,
no, no amici miei, provenendo da una ferrea formazione di tipo scientifico, il
mio scarso trasporto nei confronti delle suddette festività è rigorosamente
motivato. Che poi se vogliamo essere precisi non è la festa in sé per sé che mi
dà urto, quanto gli annessi e connessi. Per praticità cronologica prendiamo,
per esempio, il Natale. Durante questa sentitissima occasione, riaffiorano dal
nostro albero genealogico semisconosciuti parenti che credevamo avessero fatto
la fine di qualche raro protozoo dell’Antartide estinto per via dello
scioglimento dei ghiacciai. Alcuni di loro l’ultima volta ti hanno visto a
fecondazione appena avvenuta, quindi non è per cattiveria, ma è che proprio non
sanno che domandarti, per cui le frasi di rito sono solitamente su questo tono:
- «Ma come sei cresciuto!»
- «Ma come sei ingrassato/a!» (Lo si dice a prescindere, anche se sei appena stato liberato dall’Armata Rossa da un campo di concentramento)
- Dai 6 ai 18 anni: «Come va la scuola?»
- Dai 18 ai 21 anni: «Allora, come va con l’università?»
- Dai 21 ai 25 anni: «Quando abbiamo deciso di laurearci?»
- Dai 25 ai 30 anni: «Insomma, quando lo troviamo un bel posto di lavoro?»
- Dai 30 ai 33 anni: «Stiamo ancora aspettando che ci fai conoscere la tua ragazza/il tuo ragazzo?»
- Dai 33 ai 35 anni: «Volete sposarvi o no?»
- Dai 35 ai 37 anni: «La cicogna quando arriva?»
Arrivati a quest’ultima fase potete anche rilassarvi,
infatti, anche se la tentazione è forte, per una questione di tatto non vi chiederanno
mai: «Quand’è che ti decidi a tirare le cuoia e riposarti in una bella cassa di
mogano e fare largo ai giovani?».
Benché l’interrogatorio della zia Concetta sia oltremodo
irritante, c’è qualcosa che, almeno personalmente, mi fa salire una voglia di
appiccare il fuoco all’albero di Natale e usare le palline come bottiglie
Molotov. Il personaggio di cui sto parlando è una piaga che si ripresenta
puntuale tutti gli anni, fastidioso come quando siamo appena tornati dalla
spiaggia e le cosce strusciano l’una contro l’altra… so che mi capite. Mi
riferisco ovviamente a lui: il TUA,
ovvero il Tizio che Urla: “Ambo!”. Si
tratta dello zio/cugino/nonno (comunque per una legge non scritta che la loro
setta si tramanda di generazione in generazione deve essere per forza di sesso
maschile) che non appena estrai il primo numero a tombola urla a squarciagola:
“Ambo!”, fra l’ilarità generale. In realtà non è che gli altri ridano per
l’originalissima battuta, è solo che la fa tutti gli anni e pare brutto non
assecondarlo.
Comunque non dovete disperare, perché in ogni famiglia ce n’è uno e se a te non
dà tutto questo fastidio fatti un esame di coscienza: perché in questo caso il
TUA sei proprio tu!
Tuttavia le feste comandate sono nulla rispetto a quelle
“extra” ed in particolar modo ai matrimoni. Le modalità di svolgimento di un
matrimonio sono la ragione principale per cui io sono favorevole alla
convivenza fra individui di sesso opposto, dello stesso sesso, fra cani e
gatti, fra pecore e lupi, fra extraterrestri, insomma di qualsiasi tipo: basta
che non vi sposiate. La prima cosa discutibile di un matrimonio è la lista di
nozze: la versione per adulti della letterina a Babbo Natale. Per ovviare a questo
inconveniente, dalle mie parti si usa la busta
che funziona secondo un principio che dovrebbe essere incluso nella
Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo:
ti-do-i-soldi-così-ti-ci-compri-quello-che-vuoi, diminuendo in tal modo la
popolazione di imbarazzanti centrotavola in purissimo cristallo di Boemia. Come
tutte le cose belle però, anche la busta
segue il fenomeno noto in termodinamica come la Curva di Pieraccioni. È in pratica un postulato che spiega la
degenerazione naturale delle attività umane, come i film di Pieraccioni
appunto: all’inizio erano divertenti, poi sono diventati simpatici, e alla fine
sono solo una scusa per far lavorare Ceccherini.
Come dicevo, anche la busta ha
seguito questo andamento, per cui da donazione spontanea è diventata quasi una
tangente, con gli sposi che ti mettono una bomba sotto al tavolo del ricevimento
se non paghi in tempo.
Per capire quanto questa usanza sia radicata, basti pensare che molte coppie
fanno affidamento solo sulla busta
per pagare il ristorante, inutile dire che scommettere un rene in una bisca
clandestina di Shanghai comporterebbe meno rischi. Sebbene ci sia infatti una
sorta di tariffario (dagli 80 ai 150 euro a persona), cercare di pronosticare
l’importo del totale delle buste è
un’impresa disperata anche per il mago Otelma (che è tutto dire), dato che ci
sono anche i franchi tiratori. Per questo motivo si procede come alle Olimpiadi:
non si prende in considerazione il punteggio più alto e quello più basso, cioè,
nel nostro caso, non si calcolerà né la zia che viene da sola e vi regalerà
settemila euro, né vostro cugino di sedicesimo grado che verrà con i figli, i
mariti e le mogli dei figli, i nipoti, qualche amico e una delegazione del
comune di Borgo Santo Spirito con sindaco, banda e gonfalone e che metterà
nella busta la bellezza di quindici
euro, accompagnata dal biglietto di auguri: «Non li spendere tutti subito, come
fai di solito!».
Il vero problema dei matrimoni è però uno solo: la loro
durata biblica. È risaputo infatti che nel corso dei ricevimenti di nozze si
altera il continuum spazio-temporale,
per cui una «cerimonia giusto per i parenti e gli amici più stretti» potrebbe
rilevarsi un colossale buco nero da cui uscirete invecchiati e alle soglie dell’obesità.
Ad ogni buon conto, c’è la legge che vi tutela: se un matrimonio dura più di
otto ore avete tutto il diritto di chiamare i Carabinieri e denunciare gli
sposi per sequestro di persona. Controllate il Codice Penale, se non mi
credete.
Vi lamentate perché ormai il buffet si protrae da diciotto ore e avete anche
dato un nome alle vesciche che vi sono spuntate sui piedi? E allora che
dovrebbe dire il precettore che accompagna il giovin signore nel corso del Giorno
di Parini?
Il giorno è l’opera
più conosciuta di Giuseppe Parini, se non la trovate subito in libreria è perché
dovete andare dal commesso e sussurrargli una parola d’ordine all’orecchio. A
questo punto si avvicinerà allo scaffale dei libri di Faletti e, spostatone
uno, si aprirà una libreria segreta catalogata come genere: Libri ambientati in una sola giornata ma che
sono pesanti come una comitiva di soprano russe. Ovviamente qui troverete anche
l’Ulisse di Joyce. Naturalmente voi
non sarete stupiti tanto dal fatto che alla Feltrinelli abbiano una libreria
segreta, quanto nello scoprire che una delle opere più importanti dell’Illuminismo
italiano è in vendita a tre euro, mentre l’inarrivabile capolavoro di Carlotta
Ferlito (quella di Mtv): Cosa penso mentre volo, costa 15 euro.
Ma sorvoliamo.
Cosa dire di Giuseppe Parini che non potete comodamente
trovare su Wikipedia? Innanzitutto
che somigliava a Skeletor di He-Man; poi possiamo aggiungere che era
membro dell’Accademia dei Trasformati di cui faceva parte anche il conte
Giuseppe Maria Imbonati. Il nome vi dice qualcosa? Bene, si tratta di niente
poco di meno che del padre di Carlo Imbonati, futuro compagno di Giulia
Beccaria, la mammina di Manzoni. E Parini sarà proprio precettore di Carlo. Lo so,
vi state chiedendo se Parini fosse diventato un intellettuale di tale levatura senza
queste frequentazioni e la risposta è: Mah!
Ad essere onesti Giuseppe Parini il suo posto nell’olimpo degli intellettuali
che parlano con la R moscia se l’è
conquistato, visto che non avendo le risorse economiche per studiare fu
costretto a prendere i voti e a fare il precettore per Gian Galeazzo Serbelloni
(no, non sono quelli di Fantozzi). Il
servizio a casa Serbelloni oltre a fare di Parini un martire (non ne ho idea ma,
dando ripetizioni, uno che si chiama Gian
Galeazzo me lo immagino difficile da gestire), gli consente di osservare da
vicino la vita della nobiltà dell’epoca, ovvero la materia prima di cui è
costituito Il giorno.
Il giorno è un
poema didascalico in endecasillabi liberi che narra la giornata del giovin signore, un rampollo di una
nobile famiglia, attraverso gli occhi del suo precettore che, invece di dargli
una testata sulla gengive come desidererebbe, ne loda le “gesta”. L’opera è
divisa in tre parti: Mattino, Mezzogiorno e Sera, a cui si aggiungono successivamente Vespro e Notte.
Dato che scrivere ogni volta il giovin
signore è abbastanza logorante, per praticità daremo un nome al
protagonista del poemetto e per evitare che qualcuno possa offendersi, gliene
daremo uno assolutamente di fantasia: Lapo. E visto che si tratta di un nome da
cane lo chiameremo Lapo Ilkann.
Nel corso del Mattino
apprendiamo che Lapo Ilkann si sveglia di buon’ora: verso le undici, undici e
un quarto. A colazione può decidere se prendere il caffè (se ha problemi di
peso) o la cioccolata, se deve digerire (non me lo chiedete, anch’io non ho
capito niente della storia della cioccolata). Nel corso della mattinata riceve
la visita del maestro di violino e di francese e leggerà alcuni libri.
Parliamoci chiaro: a Lapo del francese o del violino non gliene frega niente,
semplicemente vanno di moda e lui è un tipo
cool, il Lapo. Lo stesso dicasi per le letture: Ilkann conosce solamente
quelle opere di cui si parlerà in uno dei salotti buoni che frequenta, insomma
la sua è una cultura di facciata, concetto che per noi, abituati a Porta a Porta, è difficile da seguire.
Nel Mezzogiorno (o
Meriggio nelle successive versioni),
vediamo Lapo andare a casa di una dama sua “amica”. Qui Parini contesta l’usanza
del cicisbeismo. Il cicisbeo era una
sorta di cavalier servente che accompagnava una donna sposata nel corso delle
sue uscite pubbliche e private… anche molto, molto private. La particolarità
del cicisbeismo consisteva nel fatto che l’uomo era sempre più giovane della
donna. «Ah, il toy boy!»,
esattamente, miei cari fans di Demi Moore e Lori del Santo.
Bisogna dire che il ritmo del Giorno
è abbastanza lento, per cui quando si arriva a questo punto lo studente che è
stato costretto a leggerlo dopo ripetute minacce di morte si aspetterebbe un po’
di carne al fuoco. Macché, non si vede nemmeno un calzino! A tavola la dama
parla di vegetarianismo e di un episodio che merita la nostra attenzione: la
donna racconta di come ha dovuto cacciare il suo servo (padre di famiglia) perché
ha osato dare un calcio alla cagnolina (la vergine
cuccia) che lo aveva morso. Parini con sta storia del servo se la prende
con quelli che su Facebook, appena
leggono la storia di un cane abbandonato, scrivono: «Brutto bastardo, pezzo di
m…, figlio di…» e poi parcheggiano sedici ore i figli in macchina per andare a
giocare al Bingo.
Proseguendo con la narrazione arriviamo al Vespro, qui vediamo Lapo e la sua dama
fare visita ad un amico ammalato. Ovviamente i due sono profondi come una pozzanghera
in agosto, per cui l’amico potrebbe bellamente schiattare, la loro unica
preoccupazione è lasciare il biglietto da visita al tipo per dimostrargli il
loro interessamento. Poi vanno da una nobildonna vittima di crisi di nervi per
farle una testa così con del bel gossip
Settecentesco.
L’ultima parte del poemetto è la Notte, in cui Lapo e cicisbea vanno ad una festa in cui ci sono
vari tavoli da gioco. Nel corso di questo capitolo il nostro Parini si toglie
un bel po’ di sassolini dalla scarpa, ne approfitta infatti per prendere in
giro i vari personaggi che compongono la nobiltà dell’epoca con i loro tic e i
loro vizi. A ricevimento terminato Lapo Ilkann fa ritorno a casa per svegliarsi
l’indomani per vivere altre fantastiche avventure (quest’ultima parte dovreste
leggerla con il tono di voce di Peppa Pig).
Da questa stringatissima sintesi (vi assicuro che, benché
breve, Il giorno è un mattone),
capiamo che il poemetto di Parini è nient’altro che una critica, a volte
ironica, a volte feroce, della nobiltà del Settecento che legge senza acculturarsi,
che impara le lingue solo per moda, che “ama” gli animali ma disprezza gli
uomini di rango inferiore. Insomma, nulla di nuovo sotto al sole, direbbe San
Girolamo, Il giorno potrebbe essere
riproposto pari pari al giorno d’oggi, basterebbe solamente rinnovare il
guardaroba di Lapo e dei suoi compari.
La fonte da cui attinge principalmente il nostro autore è Il rapimento del ricciolo di Alexander
Pope, poeta inglese contemporaneo di Parini, famoso soprattutto per una breve
comparsata nel Codice da Vinci. Come
Parini, infatti Pope tratta un argomento frivolo per farne un’opera epica. Tuttavia
anche dietro al Giorno c’è lui: l’onnipresente
Dante Alighieri. «Ancora?», sì, ancora.
Il poemetto è strutturato come una specie di anti-Commedia, un po’ come se Parini volesse dire: «Qua ci sta poco
da ridere». Invece di assistere alla salvezza dell’anima del protagonista, qui
vediamo come, col passare delle ore, Lapo scenda sempre più giù, senza speranza
di risalita, non a caso Parini lo definisce: «Colui che da tutti servito a
nullo serve». Ma del resto lo abbiamo chiamato Lapo apposta.
Perché dunque dobbiamo prenderci la briga di leggere Parini?
Beh, mettiamola così: se siete dei sottopagati come il sottoscritto e vedete
tutti i giorni raccomandati che vi scavalcano, non ve la prendete, anzi
prendeteli per… vabbè ci siamo capiti.
In fondo nella vita ci vuole leggerezza, che poi è il motivo per cui grido:
«Ambo!» non appena iniziamo a giocare a tombola.