Organizzata la fuga manco fossero due ex SS che scappano in
Argentina, Renzo e Lucia prendono strade diverse. La ragazza va a finire prima
in un convento di Cappuccini e poi, secondo l’antica usanza milanese di
“rimbalzare” i poveracci dai luoghi più cool,
spedita a Monza.
Arrivati a questo punto gli studenti più smaliziati, cioè quelli che guardando
le immagini sul libro di testo riescono a distinguere con una buona
approssimazione Leopardi da Petrarca, fiutano che può esserci materiale
interessante. Cominciano a sfogliare avidamente le pagine del libro, gli ormoni
segnalano chiaramente che lì, da qualche parte, sono nascoste descrizioni
piccanti, corpi sudati e aggrovigliati, un campionario a luci rosse tale da far
sembrare Tinto Brass il regista delle messe domenicali su Rai Uno. Ebbene,
lasciatemi dire che se si confonde I
Promessi Sposi con Cinquanta
sfumature di grigio, non ce la possiamo prendere con Manzoni, ma piuttosto
con gli anni Ottanta e tutti i film con Alvaro Vitali ed Edwige Fenech, in cui
la Monaca di Monza passava la giornata a farsi la doccia mentre il resto del
convento la spiava dal buco della serratura.
A dispetto di ogni speranza Manzoni non fa scoprire nemmeno una caviglia alla
Monaca di Monza (per gli amici Gertrude o “La Signora”). Ignorando i richiami
della natura, l’autore infatti, nella descrizione del personaggio, anticipa non
solo le teorie psicoanalitiche di Freud e Jung, ma anche le prime dieci
stagioni di Criminal Minds e CSI Miami, fornendo un profilo
psicologico fatto di soprusi familiari, amori contrastati e impossibili,
violenze dirette e indirette di ogni sorta, al termine del quale il lettore che
si trovi a guardare in televisione le immagini dei campi di concentramento
nazisti non può che esclamare: «Beh, bisogna vedere cos’è che gli hanno fatto a
quell’Hitler lì, da bambino».
Ma il punto che tengo a sottolineare è la genialità dei confratelli di Fra
Cristoforo. Per apprezzarla appieno è necessario fare un piccolo riepilogo:
Lucia è una ragazza che si deve sposare ma è ostacolata da un signorotto
locale. Loro a chi l’affidano? A una che giornalmente produce l’equivalente di
dodici silos di bile perché si voleva sposare, ma la famiglia ha fatto
rinchiudere in convento e che per giunta ha una tresca con un conoscente di Don
Rodrigo.
Come minimo oggi farebbero i consulenti al Ministero per le Pari Opportunità.
Com’è prevedibile Gertrude un po’ perché costretta dal suo amante Egidio, un
po’ perché effettivamente la ragazza, con la sua prorompente simpatia, le sta
proprio lì, sotto la tonaca, consegna Lucia all’Innominato, noto boss del lecchese affiliato al cartello di Don
Rodrigo.
Avete presente quando portate la macchina dal meccanico e vi
prende la netta sensazione che lui non
l’abbia vista nemmeno col binocolo, mentre ci ha messo sicuramente le mani il ragazzo di
bottega? Ecco, in letteratura questa fastidiosa sensazione si chiama straniamento. È esattamente quello che
succede con le pagine dedicate all’Innominato.
Fino adesso abbiamo avuto a che fare con un rispettabile romanzo storico, ma
quando entra in scena questo personaggio Manzoni diventa Samantha (o Jessica, o
Katiusha, fate voi), una specie di ragazzina quattordicenne che passa le
giornate a guardare serie sui vampiri su Sky. Del resto gli ingredienti ci sono
tutti:
- Un castello diroccato su una montagna
- Il cattivo che poi così cattivo non è
- La “bella” imprigionata nelle segrete
Il lupo mannaro non è che me lo sono dimenticato, è che
proprio non c’è.
Lucia passa una notte tormentata nelle segrete del castello e pur di salvarsi
fa voto di castità alla Madonna, ma l’Innominato
(che si comporta pari pari a Marlon Brando nel Padrino), colpito dalla purezza e dal candore della fanciulla, con
un colpo di spugna degno solo dei migliori regimi autocratici coreani, cancella
tutte le ragazze violentate, le rapine, le usure, il contrabbando fin a quel
momento commessi e si somministra da solo l’assoluzione plenaria e l’amnistia.
Ditemi se non vi viene voglia di farlo Presidente del Consiglio seduta stante.
Ma passiamo a Renzo. Lui viene “rimbalzato” perché il suo PR (metaforicamente
parlando) aveva dimenticato di avvisare quelli del locale. Il nostro si trova
suo malgrado coinvolto in una sommossa popolare provocata dall’aumento del
prezzo del pane, dato che manca poco che l’arrestino decide di andare da suo
cugino che abita in un altro stato. Con grande disappunto dei tour operator
dell’epoca, il concetto di “estero” nel Seicento è un tantinello diverso dal
nostro, infatti Renzo si rifugia a Bergamo, che a quel tempo si trovava nel
territorio della Repubblica di Venezia. Qui il giovane riprende il suo lavoro
di tessitore sotto il nome falso di Antonio Rivolta, che è un po’ come girare
per New York la mattina dell’undici settembre presentandosi alla gente dicendo:
«Piacere, Pasquale Kamikaze».
Comunque, dopo una serie di alterne vicende, fra cui la calata dei lanzichenecchi che
come special guest si portavano
dietro la peste, finalmente Renzo e Lucia si rincontrano nel lazzaretto dove
Don Rodrigo sta tirando le cuoia, non prima però di avere ottenuto il perdono
dalla coppietta. In realtà nella prima versione della dipartita di Don Rodrigo,
questi doveva salire a cavallo delirante credendo di essere in mezzo a una battaglia,
ma evidentemente Manzoni deve essersi reso conto che un finale del genere
avrebbe messo in imbarazzo anche i fan più accaniti di Massimo Boldi e
Christian De Sica.
Lieto fine quindi? Non proprio, infatti c’è ancora la questione voto di castità. L’autore con un colpo da maestro (e forse anche perché la cosa andava un po’ troppo per le lunghe) decide di far ritornare in scena Fra Cristoforo che, non si capisce in virtù di quali poteri conferitigli (romanzo alla mano eh, andate a controllare), scioglie il voto di Lucia e i due finalmente possono sposarsi, facendo una caterva di figli. Dopo che Don Abbondio si è assicurato che Don Rodrigo è morto, s’intende.
Arrivati a questo punto dovremmo tirare le conclusioni, parlare del ruolo della
Provvidenza, del giansenismo insito nella visione della vita di Manzoni, del
fatto che non si tratti di un romanzo formativo… ma per quello, nella sua
infinita bontà, Dio ha inventato internet e i riassunti già fatti.
Piuttosto mi piace immaginare un possibile seguito, una cosa all’americana come
va di moda adesso. Uno spin off sulla
Monaca di Monza o sulla giovinezza dell’Innominato,
oppure Manzoni avrebbe potuto terminare con un bel finale aperto, tipo la mano
di Don Rodrigo che esce dalla tomba, mentre i due sposini lasciano la chiesa. E
lì giù di merchandising: le spille de I
Promessi Sposi, il blu-ray, le tovagliette, i copriwater, gli status su
Facebook con le frasi più romantiche tratte dal libro…
Ma forse è proprio per questo che Manzoni è molto più figo di Twilight.
...noooooo, l'Innominato noooo!!! Mi hai fatto crollare un mito!! ahahahahah!!
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